La Banca centrale europea dovrà riconsiderare il programma di acquisto dei titoli di Stato se slitterà il potenziamento del fondo salva-Stati europeo. A dirlo è Ewald Nowotny, membro austriaco del consiglio direttivo della Banca centrale europea, da tutti considerato vicino alla linea del consigliere esecutivo uscente, il falco Juergen Stark: «La Bce considera le sue misure temporanee e si aspetta che subentri il programma di salvataggio. Se non c’è un programma di salvataggio funzionante, allora la Bce dovrà rivedere tutto».



Signori, se l’Europa vuole salvarsi, deve seguire l’esempio Usa e dar vita a una piano Tarp (Troubled Assets Relief Program) per le sue banche e istituzioni finanziarie intossicate fino al midollo da obbligazioni spazzatura, debitamente nascoste nei bilanci a valore facciale dell’atto d’acquisto per evitare di contabilizzare le reali perdite, già subite e che subiranno. Il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari varato nel 2008 a sostegno del sistema finanziario prevedeva che il governo ricevesse warrant, diritti a quote azionarie, in cambio di asset in crisi rilevati attraverso aste o direttamente.



Il Tesoro ricevette inizialmente 250 miliardi di dollari, altri 100 miliardi stanziati dopo un via libera della Casa Bianca e gli ultimi 350 dopo un successivo riesame del Congresso. Una quota di proprietà delle società che ebbero accesso al programma di salvataggio andò ai contribuenti, cui fu garantito di ricevere un profitto se le condizioni di mercato fosse migliorata. Gli stessi contribuenti furono inseriti al primo posto nel recupero degli asset in caso una società che partecipava al programma fosse fallita ed ebbero la garanzia di essere ripagati completamente nel caso in cui altre protezioni non abbiano generato un profitto.



Il governo ebbe la possibilità di acquisire asset a rischio legati ai mutui anche da fondi pensione, governi locali e piccole banche che servono famiglie a reddito medio e basso. Questa soluzione, ancorché titanica, costerebbe meno e garantirebbe miglior risultato e minor opposizione politica sia degli eurobonds, mercoledì seppelliti per l’ennesima volta dal vice-cancelliere tedesco in visita a Roma, e dello stesso fondo salva-Stati Efsf, già bocciato dalla Commissione parlamentare austriaca (tutti i paesi membri devono ratificarne l’aumento di volume prima che questo venga attivato) e quindi destinato a trasformarsi nell’ennesimo veicolo incompiuto per uscire dalla crisi, tanto più che l’aumento di fondi stimato è circa pari al’impegno messo in campo dagli Usa per il Tarp e la Germania ha già detto no a un’ulteriore crescita fino a 1,5 trilioni di euro, cifra necessaria per difendere anche Spagna e Italia sul mercato secondario una volta che la Bce avrà smesso il programma Esm.

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Pensateci bene, cari lettori. Il problema va risolto alla radice e qualsiasi soluzione (sia essa la Bce che compra obbligazioni, l’Efsf, gli eurobonds o l’intervento dei cosiddetti Brics in nostro aiuto) alla crisi del debito passa obbligatoriamente dall’accettazione del fatto che esistono due tipi di bonds: quelli che sono contrattati e prezzati e quelli che giacciono negli stati patrimoniali delle banche non prezzati in base al mark-to-market. Senza questa distinzione chiave, ogni opzione è destinata a fallire fin dalla sua elaborazione, ancor prima della messa in pratica.

Facciamo un esempio. Se tutti i bonds greci fossero prezzati a 45 (oppure scontino 55 punti di riserve detenute contro di loro), al di là del piano Tarp che ritengo la soluzione migliore, ci sarebbe una serie di opzioni pratiche che contemplerebbero l’intervento di entità specializzate nel mercato, capaci di comprare l’intero stock dei bond greci al mondo. Un grosso fondo total return o un altrettanto grande hedge fund, ad esempio, che potrebbero rivenderli con un buon profitto alla Grecia. Certamente il Fmi, o qualche altra entità, presterebbe ad Atene i soldi necessari per il buy back oppure, grazie a sufficiente collaterale e a un coupon adeguato, anche un grosso fondo potrebbe garantire alla Grecia risorse a sufficienza per l’operazione.

Il problema è che oggi non tutti i bonds greci sono prezzati a quella cifra, operazione che contemplerebbe per le banche ammettere le perdite nei bilanci. Ecco perché nessun acquisto attuale serve a placare la situazione, semplicemente perché ci sono troppo pochi bonds ellenici prezzati e quindi la loro accumulazione non è sufficiente a migliorare la situazione. Vendendo i bonds che hanno in pancia prezzandoli, le banche monetizzerebbero le perdite e avrebbero lo stesso effetto di un default greco: le banche che detengono bonds non prezzati, infatti, sarebbero le stesse che si troverebbero costrette a ricapitalizzarsi a causa delle perdite in un momento di estrema difficoltà di finanziamento sul mercato e di credito interbancario congelato. Fino a quando le banche non opereranno un reale mark-to-market, il sistema continuerà a operare in un ambiente di perdite nascoste non quantificabili: insomma, si cerca la via d’uscita dal labirinto bendati. E persino capitale fresco potrebbe non migliorare la situazione delle emissioni obbligazionarie, poiché riguarderebbe solo i bonds già prezzati a un prezzo ragionevole. E non servirebbe nemmeno a incoraggiare le banche ad affrontare le perdite.

Insomma, fino a quando il mantra sarà raccontare bugie a giorni alterni, dicendo il lunedì che i debiti sovrani sono ok e il martedì che sono ok le banche, non si risolverà nulla. Penso che nessuno di voi abbia la minima idea della quantità di perdite in cui incorrerebbero le banche se dovessero finalmente prezzare la loro reale esposizione alla Grecia, ma fidatevi: sarebbe una mezza ecatombe. Per questo serve, a tutti i costi, un programma Tarp da parte dell’Ue che abbia inizio con l’obbligo – pena l’esclusione e multe salatissime – per le banche di prezzare, non sul mercato ma con autorità europee e supervisori, la reale esposizione al debito greco: TUTTA, fino all’ultimo bond e dimenticando la farsa del valore facciale.

D’altronde, è giunto il momento di guardare in faccia la realtà: diciotto mesi di acquisti da parte della Bce non hanno salvato la Grecia dall’insolvenza, visto che questi interventi non riducono i rendimenti dei bonds che la Grecia ha già emesso e, tranne per limitati periodi di sollievo rispetto agli yield, gli effetti del programma della Bce non servono a migliorare le condizioni dei paesi interessati, visto che Pil in calo e misure di austerità non funzionali erodono ogni beneficio.

La verità è scomoda, ma inattaccabile: storicamente la Bce con i suoi interventi non è mai riuscita a supportare i prezzi dei bonds. Quando Francoforte, il 10 maggio 2010, diede inizio al suo programma di acquisto di bond, comprando 16,5 miliardi di euro di securities governative greche, il rendimento del decennale ellenico scese di oltre il 4,5% al 7,77%. Dieci settimane dopo, quando l’esborso della Bce per acquistare obbligazioni sul mercato secondario scese a 176 milioni di euro, il rendimento del decennale ellenico arrivò al 10,43%. Stesso identico pattern per Irlanda e Portogallo, le quali, nonostante gli acquisti della Bce, una volta entrate a far parte del “club del 7%”, dovettero presentarsi con il cappello in mano da Ue, Bce e Fmi. Il 10 maggio 2010 anche il decennale irlandese, infatti, scese al 4,2% di rendimento dal 5,86% del giorno di contrattazioni precedente. L’11 novembre era già all’8,9%: una settimana dopo, Dublino chiese il salvataggio. Scelta obbligata che Lisbona compì invece il 6 aprile di quest’anno, quando il rendimento del suo decennale superò l’8%, dopo che la Bce aveva speso qualcosa come 77 miliardi di euro per comprare debito portoghese: l’11 di luglio, quando Francoforte prese una pausa di cinque mesi nel suo programma di acquisti, il rendimento dei decennali lusitani toccò il record del 13,44%.

Ancor peggiore è l’effetto collaterale degli acquisti della Bce, i quali infatti portano i bonds fuori dal mercato prezzato e li accantona in un book non mark-to-market. La Bce, in parole povere, non può fare nulla con quegli acquisti: rivenderli alla Grecia al prezzo pagato sarebbe uno scherzo, mentre prezzarli al ribasso non è un’opzione praticabile visto che Atene non può permettersi rischi di scossoni senza che i membri dell’Ue debbano prepararsi a iniezioni di nuovo capitale.

Inoltre, la stessa Bce potrebbe presto trovarsi a dover affrontare guai con il suo stato patrimoniale, visto che oltre a operare con leva 26 a 1, c’è il fondato rischio che gli attuali acquisti servano solo a coprire errori compiuti nel recente passato, quando Francoforte pensava che quella greca fosse unicamente una crisi di liquidità. Il problema è che invece di affrontare questa realtà e abbandonare suggestioni inutili e impraticabili come il fondo Efsf o gli eurobonds, l’Ue in questi giorni sta segretamente studiando il modo di distruggere il cds sul debito sovrano, ritenendo questi strumenti derivati la vera radice del problema.

In parte è vero, ma per l’uso spregiudicato che di essi fanno le banche commerciali intasate di spazzatura obbligazionaria, non certo per la presunta speculazione brutta e cattiva. Tre le ipotesi al vaglio: bando, innalzamento dei margini richiesti per stipulare un contratto o, addirittura, vendita diretta di strumenti di protezione da parte della Bce, ipotesi a cui ha lavorato con uno studio la Faros Trading. Se questa ultima opzione potrebbe avere qualche lato positivo, tra cui la possibilità per la Bce di raccogliere dollari, sconta però anche parecchi effetti collaterali. E l’asta di bond quinquennali italiani di martedì ne è l’esempio, visto che una parte non secondaria della domanda è stata rappresentata proprio da traders di cds intenti a coprire posizioni short, almeno temporaneamente.

Insomma, si rischia di eliminare – senza risultati effettivi sui mercati – uno dei più comodi capri espiatori di sempre. Se proprio bando deve essere, lo sia temporaneo e solo per le banche commerciali, contestualmente all’obbligo per questi soggetti di rivelare l’interezza delle posizioni cds attive nei bilanci. Avremmo delle belle sorprese, ve lo assicuro e la favola degli hedge funds senza pietà che piace tanto a Giulio Tremonti avrebbe finalmente fine.