Visto che il weekend è alle porte, vi consiglio una lettura rilassante: “The real effects of debt“, ovvero un bel sunto del perché i problemi di debito che stanno affrontando le economie avanzate del mondo sono ben peggiori di quanto pensassimo fino ad oggi. Non l’ho scritto io in un attacco di pessimismo cosmico ma Stephen Cecchetti e il suo team alla Banca per i Regolamenti Internazionali ed è una lettura obbligata per chiunque si occupi, per lavoro o diletto, di economia.

Cominciamo da una base consolidata, ovvero quando il debito di un governo arriva tra l’80 e il 100 per cento la situazione diventa molto pericolosa. Bene, il debito combinato delle nazioni più ricche al mondo è salito dal 165 per cento del Pil di trenta anni fa al 310 per cento attuale, un aumento trainato soprattutto da Giappone (465 per cento) e Portogallo (363 per cento). Insomma, livelli mai visti se non durante le due guerre mondiali e con ratio tali da rendere insufficienti anche politiche di stabilizzazione, visto che atrofia demografica e costi connessi all’invecchiamento della popolazione aggraveranno i conti in futuro.

Ma Cecchetti e i suoi colleghi hanno voluto elencare le quattro cause principali, a loro modo di vedere e metterle in fila. 1) La rimozione sistematica delle restrizioni sul credito dagli anni Settanta in poi, ovvero stagioni allegre di mutui al 120 per cento. 2) La politica di “grande moderazione” di Alan Greenspan, secondo cui il mondo era esente da rischi e noi tutti ce la siamo bevuta. 3) L’effetto distorsivo dell’eccesso dei risparmi asiatici che ha portato al ribasso i rendimenti reali dei bonds. 4) Le politiche fiscali che hanno favorito il debito, come ad esempio il debito corporate in Europa o i mutui immobiliari negli Usa con le loro implicite garanzie sul debito (Fannie Mae e Freddie Mac). Ma il dato più interessante che emerge dallo studio, almeno per me, è quello dei Paesi con i debiti combinati più bassi: gli Stati Uniti, infatti, sono in ottima posizione con il 268 per cento del Pil, l’Australia al 232 per cento, l’Austria al 238 e la Germania al 241.

Certo, il fatto che compaia in questa classifica anche la Finlandia, che praticamente non ha debito pubblico se non quello con chiari scopi di gestione monetaria, lascia qualche dubbio ma apre anche a una domanda riguardo il timing della pubblicazione di questo studio. Dimostrare che gli Usa, a livello di debito, stanno molto meglio del blocco delle nazioni Ocse, non sarà infatti un viatico interessato per il terzo round di quantitative easing della Fed, in vista della riunione del comitato monetario i prossimi 20 e 21 settembre? Certo, gli Usa hanno tassi di fertilità e demografici migliori e con l’aggiustamento agli effetti dell’invecchiamento, ci consegnano un paese che merita più credito della stessa Germania.

Utilizzando questi indicatori con riferimento al downgrade del rating Usa, verrebbe automatico chiedere l’eliminazione della tripla A per tutti i paesi con debito totale sopra il 240 del Pil (Germania compresa, quindi) e una tasso di fertilità sotto 1,9: in Europa, tutti i top rated si troverebbe automaticamente AA visto che non hanno più strumenti di politica sovrana e spostano il rischio dal forex al rischio di default. Insomma, lungi dall’offrire ricette al mondo, la Banca per i Regolamenti Internazionali sembra però fornire un assist sospetto al Fondo Monetario Internazionale, il quale attraverso il suo presidente, Christine Lagarde, la scorsa settimana ha parlato di “una dose terapeutica di contrazione fiscale” che però non deve essere troppo violenta, poiché in questo caso potrebbe rigettare l’economia globale in recessione e dimostrarsi autolesionista: deficit e debiti salirebbero, infatti, altrettanto velocemente di prima della cura.

Per il Fondo Monetario, una politica calibrata di contrazione fiscale deve essere controbilanciata da una politica di allentamento monetario, forse anche una terza ondata di quantitative easing se la deflazione dovesse rialzare prepotentemente la testa e minacciare una spirale debito/deflazione. Certo, non siamo ancora a questo punto ma potremmo esserci a breve (soprattutto con sapienti aggiustamenti dei conti e campagne dis-informative ad hoc). Lo conferma, di fatto, spalancando le porte al QE3 entro la fine dell’anno – probabilmente il 20 e 21 settembre avremo soltanto l’ennesimo annuncio cifrato a tutto beneficio delle Borse drogate -, la solita Goldman Sachs.

Lungi dal pensare che la banca d’affari newyorchese possa dettare la linea di politica monetaria alla Fed in vista della riunione del FOMC della Fed, occorre sempre ricordare che Goldman Sachs è e resta il principale collocatore di debito statunitense. Quindi, quando parla merita un orecchio un po’ più teso che per gli altri. In una chilometrica newsletter a domanda e risposta pubblicata lunedì, Goldman avanza infatti tre misure radicali di QE3 che la Fed potrebbe prendere in considerazione entro la fine dell’anno, ritenendo le condizioni macro attuali non ancora sufficientemente negative per annunciarne il lancio già a fine mese. La prima riguarda un’estensione del programma di acquisto oltre al mercato dei Treasuries e alle agency MBS, ad esempio nel ramo delle securities del settore privato. La seconda, un ampliamento del volume di intervento del programma di QE fino alla versione estrema di una promessa d’acquisto di securities a un livello tale da raggiungere uno specifico obiettivo di yield (il “rate cap” ulteriore alla curva di yield proposto proprio da Beb Bernanke nel 2002). La terza, un implicito o esplicito cambio nella politica di obiettivi della Fed.

E tanto per sottolineare che l’argomento le sta molto a cuore, Goldman si è premunita di dare anche una definizione chiara a livello terminologico: “Per semplicità, abbiamo deciso di definire ‘QE’ qualsiasi programma di acquisto di assets su larga scala che rimuove un significativo quantitativo di duration dal mercato, senza riguardo nei confronti di come sia finanziato, sia creando un eccesso di riserve o vendendo securities di breve termine”. A giustificare l’ipotesi di un intervento della Fed e l’aumento del suo raggio di azione, alcuni indicatori come l’ampliamento degli spread delle agency MBS, securities legate a mutui immobiliari, le quali secondo Goldman potrebbero essere incorporate dalla Fed attraverso un possibile twist di vendite di securities high-coupon e acquisto di securities low-coupon. Goldman, inoltre, non esclude affatto che un deterioramento dell’economia o dello stato dei mercati possa spingere il Congresso a finanziare un programma di acquisto della Fed di assets del settore privato, come mutui nonconforming o bonds corporate (per ora, escluse equities e real estate), visto che per statuto alla Federal Reserve “non è concesso acquistare assets che potrebbero concretizzarsi in perdite eccessive”.

Una ricetta, quella di Goldman, che sembra rispondere perfettamente all’appello affinché il Congresso si faccia carico della situazione economica mossa proprio da Ben Bernanke nel suo discorso a Jackson Hole. Strana coincidenza. Infine, una nemmeno troppo velata richiesta di accantonare la scelta politica del FOMC di perseguire un obiettivo di Pil nominale, visto che il mandato duale della Fed è definito in termine di tasso di cambio dei prezzi mentre il Pil nominale dipende dal livello dei prezzi: in parole povere, cambiare approccio significherebbe uno strisciante aumento degli obiettivi in termini di inflazione, un qualcosa che Goldman sconsiglia vivamente di fare.

La Fed accoglierà i consigli? Per ora, l’unica certezza in casa Usa è il mea culpa di Bill Gross, manager di Pimco, il quale ieri ha ammesso di aver sbagliato scommettendo così pesantemente contro il prezzo del debito governativo statunitense. “Quando vai in under performance sull’indice, vai a casa e piangi dentro la tua birra. Ma siamo troppo ben pagati per mettere le mani sulla testa e piagnucolare”, ha dichiarato Gross,riferendosi alla decisione presa a inizio anno di scaricare i 244 miliardi di dollari di securities legate al debito Usa dal Total Return Fund, scelta che è costata al fondo principale di Pimco la 501esima posizione su 589 fondi obbligazionari a causa del rally del mercato dei bonds Usa. Ieri sempre Gross, ha però avvisato del rischio recessivo per Usa ed Europa, invitando gli investitori a tenersi lontano da investimenti legati al dollaro e guardare all’Asia.

Ci sarà da fidarsi, visto l’outflows di questi tempi dai fondi asiatici? Una sola cosa mi appare certa: se la Fed darà seguito ai consigli di Goldman Sachs, prepariamoci a un euro/dollaro a 1,50 (con conseguente tracollo totale dell’export europeo e fuga dal nostro mercato del debito) e l’oro verso quota 2500 dollari entro la prossima primavera. Sempre più analisti, però, di fronte al deteriorarsi della situazione pensano che stampare denaro per “purgare” del tutto il sistema bancario e una buona dose d’inflazione siano le uniche medicine per uscire dall’avvitamento della crisi globale. Finora non sono riusciti a convincermi, magari ce la faranno. Buon weekend e buona lettura.