Ieri sono ricominciati i colloqui tra creditori privati (Iif) e governo greco per lo swap sul debito, quindi c’è il rischio che questo articolo sia reso incompleto da quanto sarà potuto accadere dal momento del suo invio a quello della pubblicazione. Ma anche in caso di accordo nella notte, la situazione che descrive non cambia e resta valida. Le pressioni del Fmi sulla Bce affinché anche quest’ultima partecipi all’haircut volontario sui bond di Atene hanno sortito il loro effetto. Prima di sedersi al tavolo, l’Iif aveva infatti fatto furbescamente filtrare quella che era la sua ultima, inemendabile proposta: accettare un coupon del 3,75% sui nuovi bonds che sostituiranno quelli in essere – come richiesto dall’Ue, che non contemplava rendimento sopra il 4% – ma solo con la precondizione che anche la Bce partecipi allo swap. Così Charles Dallara, capo della delegazione dei creditori privati (Iif): «Tutte le parti dovrebbero partecipare alla soluzione del problema, considerando che noi deteniamo solo il 60% del debito oggetto della trattativa». Ma al netto del tempo che sta per scadere, fino a ieri sia la Bce e che l’Ue avevano risposto picche.
La questione, in effetti, non è di poco conto e rischia non solo di creare un precedente pericoloso, ma anche di scoperchiare l’ennesimo vaso di Pandora. Essendo detentore di circa 55 miliardi di bonds greci (nominali), l’Eurotower sarebbe il soggetto più grande tra i creditori, ma il suo status istituzionale la esula dagli haircuts. Questo, però, solo se ai bonds greci non verrà retroattivamente applicata la clausola di class action, nel quale caso Francoforte potrebbe essere quasi costretta a pagare la sua parte. Questo cosa significherebbe? Se la Bce non partecipa, i bonds che detiene diventano senior per il mercato e questo significa che i circa 200 miliardi di obbligazioni italiane e spagnole acquistate dalla Bce attraverso il programma Smp diventerebbero anch’esse senior per il mercato. E questo non sarebbe certo un bel segnale da lanciare, in un periodo in cui Roma e Madrid ancora faticano a finanziarsi sull’open market e sono impegnate in un tour de force di emissioni e scadenze.
Se invece la Bce subirà l’haircut, le perdite saranno elevate ma non drammatiche, a fronte invece della grave situazione che causerebbe un downgrade del mercato a status di junior. L’Eurotower, infatti, non ha comprato quei bonds alla pari, bensì a un costo medio attorno ai 70 cents, spendendo quindi circa 38,5 miliardi per il loro acquisto. La perdita netta, a fronte dell’haircut, sarebbe quindi di 22 miliardi di euro, molti ma non certo in grado di far fallire la Banca centrale. Tanto più che se si arrivasse alle strette, la Bce potrebbe formalmente essere costretta a scontare l’haircut, visto che nelle mani degli hedge funds ci sono 18,3 miliardi di euro di bonds greci facenti capo alla legislazione britannica, i quali – oltre a garantire il detentore da qualsiasi variazione della legislazione ellenica – contengono la clausola pari passu, la quale impone che i creditori siano trattati tutti allo stesso modo. Quindi, se non incorre in perdite la Bce, non lo faranno nemmeno i fondi che detengono quei bonds incautamente venduti da banche e assicurazioni.
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Inoltre, sempre la legislazione britannica contiene una clausola di azione collettiva, in base alla quale si può forzare un detentore a scontare l’haircut solo se il 75% dei creditori approva l’accordo: e per stessa ammissione di Dallara, l’Iif che sta trattando con Atene rappresenta solo il 60% dei bonds oggetto della disputa. E a confermare la delicatezza del momento, ci ha pensato dal World economic forum di Davos, Kenneth Rogoff, professore all’Università di Harvard ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale, secondo cui «l’Europa è chiaramente impreparata a un default della Grecia, ci sarà un endgame e non sarà bello. Il problema, poi, è che non si tratta solo della Grecia, ci saranno altre ristrutturazioni prima che sia finita. Una volta stabilito un precedente come quello dello swap greco, quanto pensate che ci metterà il Portogallo a chiedere perché non può avere altrettanto?».
Peccato che, a differenza di quelli greci, i bonds lusitani sono per la maggior parte facenti capo alla legislazione inglese, quindi non passibili di un processo di swap volontario in stile ellenico. Nel frattempo, Lisbona affonda: i rendimenti dei buoni del Tesoro portoghese sono saliti a livelli record sul mercato secondario, con una netta e pericolosa inversione della curva. Per il bond a 3 anni il tasso ha raggiunto il 19,4%, mentre per quelli a 5 anni ha toccato il 18,7% e per i decennali il 15,07%. Di più, i cds a 5 anni sul Portogallo ieri hanno toccato i 1350 punti base. E con un ammontare nozionale di contratti cds portoghesi pari a “soli” 5 miliardi di dollari, in sede Ue qualcuno potrebbe anche propendere per far scattare le clausole di default, piuttosto che imboccare di nuovo la strada accidentata dell’haircut, più o meno volontario.
Tanto più che ieri il leader degli industriali portoghesi, Antonio Saraiva, ha suonato l’allarme: «Abbiamo una crisi di liquidità e ci servono altri 30 miliardi di euro. Dobbiamo negoziarli». Insomma, senza una posizione chiara della Bce non si va da nessuna parte. Ma l’Eurotower gioca anche su un secondo fronte, dopo quello del detentore di debito: quello di erogatore di credito. Insomma, il nodo cui tutto ruota attorno è quello del programma Ltro della Bce, la cui prossima asta è prevista per il 29 febbraio.
Partiamo da un dato, spesso sottovalutato nelle analisi del sistema bancario europeo. Nei primi undici mesi dello scorso anno, dalle banche italiane e spagnole sono stati prelevati depositi per oltre 100 miliardi di euro, 61 dei quali da istituti italiane, il più alto outflow di denaro di tutto il sistema bancario europeo, stando a dati di Credit Suisse (molto accurati, visto che proprio la Svizzera potrebbe essere la destinazione di buona parte di quei 61 miliardi). Le banche spagnole sono al secondo posto, con prelievi per 48 miliardi di euro, il 3% dei depositi totali degli istituti iberici, mentre la Grecia ha conosciuto prelievi per 42 miliardi di euro, pari a un quinto di tutta la base di deposito del Paese. Prese nell’insieme, le banche greche, portoghesi, spagnole, irlandesi e italiane hanno subito un’emorragia di depositi di quasi 150 miliardi di euro, cui vanno a unirsi sostanziali e persistenti difficoltà di finanziamento sul mercato.
E dove sono finiti quei soldi, oltre che in Svizzera? In Francia e Germania. Parigi ha registrato un inflow di depositi di 132 miliardi di euro, un dato che ha aumentato la base di deposito transalpina del 7% a 1,9 triliardi di euro, mentre gli istituti teutonici ha beneficiato di inflow per 97 miliardi di euro, un aumento che ha portato la base dei depositi delle banche a 3 triliardi. Le banche italiane e spagnole, non a caso, sono state le maggiori beneficiarie della prima asta Ltro: insieme hanno raccolto la metà dei 492 miliardi immessi dalla Bce (circa 211 quelli realmente inseriti nel sistema), ma come vi ho illustrato in un mio precedente articolo, quei soldi servono a far fronte alle mostruose scadenze obbligazionarie degli istituti bancari italiani nell’anno scorso. Potrà la Bce offrire almeno 1500 miliardi alle banche il prossimo 29 febbraio, visto il rischio di perdita netta sulle sue detenzioni di bonds greci e le perdite certe delle banche coinvolte nelle trattative con il governo ellenico?
Una cifra inferiore, infatti, non servirà a coprire le scadenze obbligazionarie di quest’anno, aumentando le tensioni attorno al settore bancario sui mercati e accentuerà il credit crunch già in atto, grippando del tutto economie già in netta recessione. Ma anche al netto di un’emissione monstre, quanto durerà l’effetto placebo del Ltro? Ovvero, oltre a garantire le scadenze obbligazionarie delle banche ed evitare nuove inversioni della curva dell’obbligazionario, il programma della Bce riuscirà a essere il catalizzatore di un rally positivo?
Non la pensano così Pierre Lapointe e Alex Bellefleur, analisti alla Borckhouse Cooper, secondo cui «Ltro non è un catalizzatore per un rally in modalità risk-on, visto che la Banca centrale sta sostituendo se stessa per finanziare fonti che si sono prosciugate. Allo stato attuale, tutto ciò che sta facendo la Bce è preservare il grado di leva esistente, soprattutto in vista di un ormai imminente deleveraging bancario, ma non offrendo debito incrementale, visto che questa pratica può avvenire solo in un contesto di monetizzazione dei bond non sterilizzata, come accade per il QE della Fed. Operando come sta facendo, la Bce perpetua lo stato di mancanza di collaterale, un qualcosa che è negativo per la velocità del collaterale, la velocità del denaro e non offre alcun elemento aggregante per un rally. Tanto più che non tutti i finanziamenti della Bce stanno terminando nel debito a breve termine dei paesi periferici, basti notare i depositi overnight sempre alle stelle.
Inoltre, dopo il programma Ltro lo sviluppo per il mercato dei bonds sovrani periferici sarà legato più a fattori di solvibilità che di liquidità. Insomma, il desiderio quasi fobico di eliminare il concetto di rischio dagli stati patrimoniali delle banche europee continuerà a prevalere e il bisogno di sempre maggiori requisiti di capitale non avrà altro epilogo che la prosecuzione della costrizione della leva. Ecco la differenza sostanziale con i programmi della Fed, visto che questi hanno fornito reale liquidità incrementale al sistema, denaro che poi si è riversato su asset di rischio.
La domanda da porsi e da porre a Mario Draghi è quindi la seguente: cosa capiterà, a cosa servirà davvero il denaro che verrà prestato nella prossima asta Ltro? Quasi certamente a puntellare i bilanci delle banche in vista del default greco e di quello, possibile, portoghese. Ma se il mercato, ancora una volta, anticiperà e prezzerà up-front questi eventi, lo sviluppo finale sarà maggiore liquidità congelata nei depositi overnight e non utilizzata né per il carry trade obbligazionario, né per essere riversata in assets di rischio.
Insomma, la strategia attuale della Bce non crea le condizioni per un rally risk-on ma si limita – ed è già molto, visti i tempi – a mitigare gli effetti di un ambiente di mercato totalmente risk-off. L’endgame, insomma, verso nuove ristrutturazioni e una recessione almeno quinquennale. A cui siamo a un passo. Grazie a Berlino, la quale continua pervicacemente a non voler permettere alla Bce di operare come la Fed, in una situazione che non solo lo richiede ma, addirittura, lo invoca.