La mia idiosincrasia verso Sergio Marchionne è nota e non recente, i miei articoli passati ne offrono conferma. E non si tratta di una questione personale o caratteriale, ma meramente di merito: ho sempre pensato che l’intero progetto Fabbrica Italia fosse una colossale bufala, ho sempre pensato che Fiat ormai avesse imboccato una strada finanziaria e non più industriale, ho sempre pensato che il Lingotto avesse tutta la volontà di fare le valigie verso gli Usa e dire addio all’Italia. Ora se ne accorgono anche Matteo Renzi e altri entusiasti pentiti del nuovo corso Fiat, meglio tardi che mai (domandina a latere: vorreste essere governati da uno che ci ha messo un anno e mezzo a capire che Fiat bluffava, quando il primo Bottarelli che passa per strada l’aveva capito dopo un secondo dalla presentazione del piano?).



Ma che Marchionne e il gruppo che guida siano sempre più in difficoltà lo dimostrano le parole pronunciate dallo stesso manager mercoledì a Bruxelles. Eccole, in sintesi: «Dobbiamo fare i conti con tre milioni di vetture invendute e con una politica di sconti ormai senza più regole. Come presidente dell’Acea – l’Associazione dei costruttori e degli operatori di automotive a livello europeo – non chiedo interventi di sostegno alla domanda, ma una politica comune per fronteggiare la crisi. Non esiste che la Francia decida di sostenere uno dei suoi costruttori e poi gli altri devono pagarne le conseguenze. Serve una forma di protezione a livello europeo che tuteli l’industria continentale dall’aggressiva concorrenza, ad esempio, dei produttori asiatici, giapponesi e coreani». Insomma, protezionismo e aiuti al settore, alla faccia del libero mercato.



E ancora: «Il taglio del rating Fiat da parte di Moody’s è esagerato, ma è riferito soprattutto alla nostra condizione a livello europeo, non certo alla solidità e alla liquidità del gruppo che resta forte grazie soprattutto al buon andamento dei mercati americano e brasiliano». Buon andamento del mercato americano? Ma quale? Chrysler forse vendendo auto a clienti subprime o ai concessionari che poi le parcheggiano invendute nei piazzali, ma la 500, ad esempio, è stato uno dei più colossali buchi nell’acqua dopo l’acquisto di Quaresma da parte dell’Inter. Il Brasile, poi, finita la politica di stimolo fiscale del governo, si appresta a diventare un parcheggio di auto invendute a cielo aperto. E ancora Marchionne: «Credo che il mercato valuti la nostra solidità non prendendo in considerazione il numero dei nuovi modelli che presenteremo nei prossimi anni». Ma certo, in fondo Fiat è un’azienda che produce pullover girocollo, cosa volete che freghi al mercato di quanti modelli di auto sforna per formarsi un giudizio? Se lo formerà in base a quante sigarette fuma Andrea Agnelli nel corso di una partita o in base al colore dell’abito scelto da John Elkann. Senza parole.



Ora, al netto di tutto questo e delle sgradevoli dispute con il sindaco di Firenze (i cui cittadini dubito, d’ora in poi, acquisteranno con gioia Fiat, di per sé già non simpaticissima a causa della Juventus: forse non proprio un colpo di genio di marketing, in tempi di crisi nera della vendite) e alla luce del grido di dolore protezionistico di Marchionne, viene da avanzare al Lingotto solo due, piccole domandine.

Prima, perché lo scorso febbraio non ha partecipato alla seconda asta Ltro della Bce per finanziarsi, come hanno fatto i suoi principali competitor, salvo poi gridare allo scandalo contro il dumping industriale? Volkswagen, Peugeot e Renault, infatti, attraverso i loro bracci finanziari si sono messi ordinatamente in fila all’Eurotower e hanno ottenuto liquidità all’1% di interesse, la Fiat no, nonostante quella fosse l’unica possibilità di finanziarsi a tassi bassi sul mercato europeo, in pratica come se fosse una società con un rating tripla A, invece che doppia B. Volkswagen, attraverso la Volkswagen Bank Gmbh, si sarebbe finanziata per circa 1 miliardo di euro. Altrettanto avrebbe fatto la Peugeot attraverso la Banque Psa Finance, mentre Renault avrebbe partecipato all’asta Ltro per 350 milioni di euro attraverso Rci Banque. Fiat, in teoria, avrebbe potuto partecipare all’asta Bce attraverso Fga Capital, la joint venture paritetica con il Credit Agricole.

La mancata richiesta di finanziamento, invece, è stata sempre giustificata dal Lingotto con “motivi tecnici”. Ovvero? Non andavano i telefoni? Si era inceppata la posta elettronica? La macchinetta del caffè erogava solo cioccolata calda? No, in pratica – come sottolineato all’epoca da MF-MilanoFinanza – non avrebbe avuto abbastanza collaterale da offrire a garanzia del credito a tasso agevolato. Ma come, stando ai proclami del suo management, Fiat saltella allegra su un fiume di liquidità e non aveva collaterale sufficiente per partecipare all’asta Ltro? E poi, scusate, non è stato preso proprio un manager moderno e all’americana per penetrare nei gangli della finanziarizzazione, fino ad allora alieni alle strategie di Fiat? E volete dirmi che Marchionne non era in grado di trovare un paio di centinaia di milioni di collaterale eligibile – vi ricordo che la Bce fino all’altro giorno accettava anche carta da parata greca come garanzia – per intascare denaro fresco e a costo quasi zero dalla Bce?

Ora, partendo proprio dal dato della liquidità sbandierata dal gruppo – e ribadita ancora l’altro giorno da Marchionne a Bruxelles -, ecco la seconda domanda. Se Fiat è così liquida, perché dire no a investimenti in Italia e definirli “rischiosi” finanziariamente? E perché una disputa così sottotraccia ma anche così dura con la Consob, la quale sembrerebbe che voglia dare una bella occhiata ai conti correnti torinesi, ma che invece sta agendo soltanto come braccio armato del governo, inviando segnali politici? Stando a quanto dichiarato, la liquidità a disposizione del gruppo torinese sarebbe addirittura di circa 23 miliardi: a cosa servono quei soldi, solo per completare la scalata a Chrysler, forse? Possibile che quella montagna di soldi non possa essere utilizzata in parte per mantenere e migliorare la produzione in Italia? O, forse, si è già fatta la scelta strategia di andarsene ma non si sa come dirlo al governo?

Quattro conti della serva, grazie sempre a una bella tabella compilata sempre da MF. Il gruppo torinese siede su oltre 22,7 miliardi di cassa, contando le disponibilità liquide, i titoli correnti e le linee di credito non utilizzate. E certamente non tutti questi soldi devono essere tenuti da parte per rimborsare i debiti in scadenza, perché entro fine 2013 ci sono soltanto bond per 1,2 miliardi da rimborsare, che diventano 8,7 miliardi, se si contano tutte le scadenze da qui al 2017. Quanto ai prestiti, la semestrale a fine giugno ne contava per 8 miliardi contro i 7,6 miliardi di fine 2011, quando la nota integrativa al bilancio precisava che 2 miliardi di euro di linee erano in scadenza entro l’esercizio successivo e altri 2,7 miliardi entro i successivi 5 anni, cioé entro fine 2017.

Quindi, anche volendo essere particolarmente prudenti e a volersi tenere liquidità in tasca per coprire tutti debiti in scadenza entro fine 2017 (scelta saggia che stanno facendo molte corporations, ma appare irrealistico che Fiat da oggi al 2017 non vada mai più sul mercato dei capitali per finanziarsi con bond), si arriverebbe a una necessità di poco più di 16 miliardi, ovvero 8,7 miliardi di bond più 4,7 miliardi di prestiti e 2,9 miliardi di altri debiti, in particolare legati alle rate di rimborso dei debiti di Chrysler nei confronti del fondo pensione Veba Trust e del fondo sanitario Canadian Health Care. Facendo quindi due conti, ci sarebbero almeno 7 miliardi liberi per essere investiti.

Questa somma, nella realtà dei fatti, potrebbe addirittura essere superiore in caso di necessità, visto che Fiat è un emittente di bond che piace molto agli investitori, basti pensare all’ultima incursione sul mercato dello scorso luglio.

Due domande semplici semplici, dottor Marchionne, senza astio, né doppi fini. Posso sperare in una sua risposta? Anzi, due.