Produzione manifatturiera greca a dicembre rispetto l’anno precedente: -15,5%. Produzione industriale -11,3%, contro il -7,8% di novembre. Disoccupazione al 20,9%, contro il 18,2% di novembre. Tasso di disoccupazione tra i giovani sotto i 24 anni al 48%, con quasi un giovane in età da lavoro su due a casa. Disoccupazione femminile 24,5%. È fallita! Ve lo volete metterete in testa, altro che annunciare l’accordo raggiunto sulle nuove misure di austerity, casualmente a tre ore dall’Eurogruppo convocato mercoledì in fretta e furia da Juncker. È andata, basta, state soltanto prolungando l’agonia, distruggendo anche le basi minimi sulle quali una Grecia con dracma svalutata poteva ripartire solo per tutelare i vostri interessi. Vostri, più che altro delle vostre banche.



Già, perché la questione greca non riguarda solo un popolo o un gruppo di banchieri e assicuratori decisi a non perdere i propri soldi: no, la corsa al deleveraging per evitare insolvenze legate proprio al default greco e al domino che potrebbe innescare (leggi Portogallo e Spagna), potrebbe essere stata infatti la chiave del rally borsistico partito a fine dicembre, un corso rialzista anomalo e non destinato a durare, stante anche i volumi bassissimi registrati a fronte di picchi come quello raggiunto dal Nasdaq.



Insomma, c’è il forte rischio che quella in atto fino a pochi giorni fa sia stata una bolla rialzista determinata unicamente dalle operazioni di vendita assets per racimolare denaro per pagare i debiti in scadenza o rientrare sui margini: una colossale ricopertura, come avanza nella sua interessante analisi M3 Financial Sense. Prendiamo le opzioni, ad esempio. Queste sono strumenti finanziari che garantiscono il diritto di comprare un determinato numero di azioni di una compagnia a un determinato prezzo, il cosiddetto strike price e ogni opzione controlla 100 azioni. Un’opzione può poi essere put, quando si scommette sul calo del prezzo in futuro o call, quando si scommette sul rialzo. Un’opzione si definisce “in the money” quando il prezzo del titolo è superiore allo strike price della call o inferiore allo strike price della put: se avete una call option del titolo X a uno strike price di 100 dollari e quel titolo oggi vale 129 dollari, la vostra opzione vale 2.900 dollari o 29 dollari per azione.



Quindi, in base a questo meccanismo se compriamo 10mila opzioni dell’azienda X, obblighiamo chi ce le vende a recapitarci 1 milione di azioni X (allo strike price dell’opzione) entro la scadenza dell’opzione. Se la nostra opzione è “in the money”, poi, chi ci ha venduto le opzioni farà hedge sulla sua posizione in modo da onorare l’obbligo. Ma se nel caso di uno status “in the money” limitato, al nostro venditore basterà comprare 250mila azioni X per coprire il suo obbligo futuro, in caso di aumento del valore della nostra obbligazione, dovrà aumentare il suo hedge fino alla cifra piena di 1 milioni di titoli che è obbligato a darci alla scadenza.

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Questa operazione porta con sé, però, un effetto collaterale: quell’acquisto di 750mila azioni dell’azienda X farà salire il prezzo del titolo X, non per motivi strutturali – X annuncia una fusione, un’acquisizione, una trimestrale da record, un nuovo prodotto da lanciare sul mercato -, ma solo perché gli operatori sono obbligati a farlo per scommesse contratte in precedenza. Moltiplicate questo schema per qualche miliardo di operazioni e avrete la soluzione al mistero di un mercato dai volumi bassissimi, ma in rally da oltre un mese e mezzo. Teoricamente, poi, il numero di opzioni dovrebbe essere pari a quello dei titoli sul mercato: per 1 milioni di azioni X, ci potranno essere solo 10mila contratti di opzione venduti. In questo caso si parla di opzioni, sia put che call, “covered”, ovvero con titoli a sufficienza per coprire le opzioni. In teoria, però, perché ovviamente il gioco è quello di vendere più opzioni rispetto alle azioni corrispondenti, fenomeno che ciclicamente da vita ai cosiddetti “short-covering rallies”, ovvero acquisti selvaggi e a ogni prezzo di titoli X per coprire le posizioni. Nel nostro caso, potrebbe trattarsi di un rally di copertura più lungo, vista la propensione al deleveraging di pochi, grandi soggetti.

Ma se le opzioni e i futures sono trattati al mark-to-market alla chiusura di ogni giorno di contrattazione, i derivati no. Di derivati se ne possono vendere quanti si vuole, anche a soggetti che non detengono l’obbligazione o il titolo del soggetto da cui vogliamo assicurarci, ad esempio, in questi giorni, sul rischio di default attraverso un cds. Torniamo alla Grecia. Nelle mani dei creditori privati che stanno trattando ad Atene ci sono, formalmente, 206 miliardi di debito greco (ormai, però, banche e assicurazione riunite nell’Iif ne controllano meno del 40%, grazie alle vendite a hedge funds e pubblico retail pur di scaricare i bilanci), a fronte di 5,3 miliardi di cds sul debito ellenico a 5 anni. Sembrerebbe una proporzione più che accettabile, peccato che non solo i cds greci siano stati venduti allegramente anche a chi non deteneva obbligazioni o titoli greci, ma, soprattutto, che quei cds sono strutturati contro vari swaps o indici azionari, il che comporta che l’asset che deve essere consegnato prima all’atto del default è nulla più che una scommessa contro un indice, una valuta o altro.

Questo comporta che chi detiene le obbligazioni del cds deve acquisire quegli assets in modo da poter pagare i suoi obblighi quando la Grecia andrà in default. Siccome, però, molti investitori hanno emesso più cds di quanti ne abbiano venduti come assicurazione, vanno incontro al rischio di non poter far fronte ai loro obblighi. Ognuno dipende da una serie di controparti a cui dover garantire qualcosa e il timore generato dall’acuirsi della crisi greca è che alcune di quelle controparti non saranno in grado di onorare i propri obblighi. Già, perché l’idea generale è che essendo il default una possibilità molto improbabile, si può vendere protezione contro questa ipotesi a un basso premio, coprendo questa scommessa comprando la tua stessa protezione da un altro soggetto finanziario. Se quest’ultimo, però, non può pagare quanto dovuto, il soggetto primo non può onorare gli obblighi sul cds che ha originato e venduto.

Insomma, il rischio di controparte è sovrano e può scatenare un effetto domino. Nel caso delle Grecia, chi dovrà scontare perdite in caso di default (e stiamo parlando solo di chi detiene realmente debito e cds a sua copertura, non speculatori puri che hanno messo i cds che detengono a leva 1:30 rispetto all’attuale valore del bond), vorrà incassare il premio della sua assicurazione, ovvero del cds. Se però il default sarà tale nei fatti, ma non per le autorità, i detentori di cds incasseranno le perdite sia sui bond che sull’assicurazione, senza poter farne ricadere parte a cascata sulla controparte da cui hanno acquistato. Il rischio enorme, allo stato attuale, è che la maggioranza dei soggetti interessati dai cds greci abbia obblighi eccedenti al cash-on-hand, ovvero si ritroveranno alla fine del processo con introiti per 3 e obblighi per 5: visto che, a cascata, nessuno riceverà i 5 che la sua controparte diretta dovrebbe dargli, il domino sarà pressoché totale.

Ecco quindi che le istituzioni finanziarie più prudenti non aspettano la caduta del domino, ovvero il default greco, ma acquistano in anticipo gli assets sottostanti al fine di onorare gli obblighi dei loro cds: è l’unico modo per evitare l’insolvenza nel momento in cui la bancarotta attiva le clausole e il cds diventa pagabile. Ecco spiegato il rally delle Borse! Ed ecco spiegato perché non si vuole accettare l’ipotesi del default greco, arrivando ad accettare un haircut del 70% pur di poterlo chiamare “swap volontario” e non far scattare le clausole dei cds. I quali,in realtà, sono molto più dei 5,3 miliardi di cui parla l’Isda e sono composti come subprime, ovvero con scommesse su titoli, indici e valute: un domino spaventoso che i banchieri, centrali e non, non possono accettare che vada in mille pezzi.

Se infatti la Grecia decidesse di fare default e non pagare nulla ai detentori, l’intero castello di derivati e il sottostante shadow-banking system, il sistema bancario fantasma di cui vi ho parlato nel recente passato, andrebbe a gambe all’aria. A quel punto, non ci sarebbe bisogno di comprare gli assets sottostanti i contratti, opzioni o derivati e il rally borsistico terminerebbe, molto probabilmente, con un’inversione dei corsi da paura (leggi -4/5%). Ecco perché non si vuole il default greco, per mantenere in piedi l’enorme schema Ponzi globale ancora per un po’, tanto per spremere il limone fino in fondo. Poi, si vedrà. Loro, comunque vada, cadranno in piedi. Forse.