Un paio di settimane fa, il settimanale inglese The Economist ha dedicato la propria copertina e un corposo servizio speciale al capitalismo di Stato, ovvero al controllo sempre maggiore che i governi dei paesi emergenti hanno sull’economia e quindi, indirettamente, sul mercato globale. Figlio naturale della crescita spropositata e squilibrata dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e della crisi post-Lehman che ha ridimensionato il modello occidentale di capitalismo basato sul libero mercato, il fenomeno del capitalismo di Stato è in effetti meritevole di attenzione.

L’Economist lo definisce, con un’azzeccata metafora, “la mano visibile” che muove l’economia, in contrapposizione con la proverbiale “mano invisibile” del mercato. Prendiamo in considerazione, per volumi e cifre, la sola Cina. Lo Stato è il principale azionista delle 150 industrie più grandi del Paese e ha, di fatto, il controllo di altre centinaia: di queste, la sola China Mobile, gestore telefonico statale, è un gigante con 600 milioni di utenti. Di più, le aziende a controllo statale – le cosiddette Soes (State-owned enterprises) – pesano per l’80% del valore del mercato azionario cinese e tre di loro compaiono nella classifica mondiale delle dieci imprese a maggior redditività, contro solo due europee. E l’ultima decade ha visto esplodere questi numeri: le 121 principali Soes cinesi hanno visto crescere i loro assets totali da 360 miliardi di dollari nel 2002 e 2,9 triliardi nel 2010 e, addirittura, durante il biennio 2007-2008 hanno goduto di un extra-boost, visto che in quel periodo l’85% degli 1,4 triliardi di dollari di prestiti bancari sono andati ad aziende a controllo statale.

Inoltre, anche aziende cinesi apparentemente private come la Lenovo godono in realtà di enormi finanziamenti da parte di organismi statali e di veri e propri favori, come l’acquisto da parte del governo di Pechino della divisione personal computer della Ibm per 1,25 miliardi di dollari nel 2004. Ci sono poi gli attivissimi e rapaci fondi sovrani, come la Safe Investment Company, che a dicembre 2011 controllava qualcosa come 568 miliardi di dollari, o la China Investment Corporation, con i suoi 410 miliardi. Insomma, una forza devastante contro cui nessuna azienda privata può concorrere, vista anche la capacità manipolatoria del governo cinese verso lo yuan e il suo potere di interdizione e ricatto politico. Un vero oligopolio, una dittatura che può “creare” interi settori, mentre i concorrenti privati possono solo sperare di poter “operare” negli stessi. Ecco chi sono i nuovi padroni, i masters del mercato, i motori della crescita in un mondo in perenne recessione.

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Tutto vero? Mah. La Cina rallenta. E, con molte probabilità, racconta bugie. L’altro ieri Pechino ha infatti reso noto che l’indice manifatturiero Pmi in Cina è aumentato a gennaio a 50,5 punti dai 50,3 registrati a dicembre, un dato in netta controtendenza rispetto alle previsione generali che puntavano verso un 49,6. Insomma essendo un risultato sopra i 50 punti, segnala espansione dell’economia. Ma c’è da crederci? Molti dati ci dicono di no, uno dei quali particolarmente inquietante. Il dato Pmi di gennaio, infatti, è risultato sopra le previsioni per un inusuale aggiustamento stagionale, visto che dal 2005 in poi il mese di gennaio ha sempre registrato un calo medio dell’1,1, essendo soggetto alla cosiddetta “golden week”, la settimana che preannuncia l’anno nuovo e durante la quale i lavoratori possono non andare in fabbrica la domenica.

Di più, i numeri dell’economia cinese rendono impossibile tutto ciò. Soprattutto l’export, visto che i nuovi ordinativi per componentistica hanno conosciuto un calo dal 49,8 di dicembre al 46,9 di gennaio, dati che non si vedevano dal 2009. Inoltre, a scendere ai livelli più bassi da 35 mesi a questa parte è la componente occupazionale, passata dal 48,7 al 47,1, segnale che il settore ultra-intensivo dell’export non tira più come un tempo. Altri dati. Le importazioni cinesi dal Giappone sono scese del 16,2% in dicembre e quelle da Taiwan del 6,2%, lo Shanghai Container Freight Index ha toccato in novembre il record negativo di 919,44 e il volume di trasporto merci su gomma, rotaia, fiumi e via aerea è sceso a 31.780 tonnellate metriche a novembre dalle 32.340 di ottobre. Piatto per tutto l’autunno il consumo di energia elettrica, mentre, annualizzato, è stato decisamente marcato il calo del tasso di crescita, dall’8,9% di settembre all’8% di ottobre fino al 7,7% di novembre. Male anche gli investimenti residenziali, con il conseguente crollo dei prezzi immobiliari nelle principali 70 città del Paese.

Alla luce di questi dati, e con un’inflazione reale al 16%, come ha fatto la Cina a crescere dell’8,9% nel quarto trimestre del 2011, come annunciato da Pechino? Inoltre, anche l’extra supporto al Pil garantito da ogni singolo yuan di credito è collassato a zero con la stretta sulla liquidità imposta dalla Banca centrale. Insomma, un’economia deformata dall’eccesso di investimento che vede i consumi interni bassissimi a causa dei bassissimi salari. Infine, il dato più inquietante cui accennavamo prima. L’altro ieri l’indice Bdi ha toccato il minimo decennale a quota 662, un calo dell’1,76 intraday e dieci punti più in basso del minimo assoluto di 672 punti toccato durante il picco di crisi post-Lehman: parliamo di un calo del 66,2% in 50 giorni, quando il massimo relativo al 12 dicembre era di 1980 punti.

Ma che cos’è il Bdi, meglio conosciuto come Baltic Dry Index, croce e delizia del mio amico Paolo Rebuffo di RischioCalcolato da almeno un mese? È un indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli delle principali categorie delle navi dry bulk cargo e, nonostante il nome, raccoglie i dati delle principali rotte mondiali e non solo quelle del Mar Baltico. Somma cioè le informazioni relative alle navi cargo che trasportano materiale “dry”, quindi non liquido e “bulk”, cioè sfuso. Riferendosi al trasporto delle materie prime o derrate agricole costituisce anche un indicatore del livello della domanda e dell’offerta di tali merci: proprio per queste sue caratteristiche viene monitorato per individuare i segnali di tendenza della congiuntura economica.

Bene, dati come quelli odierni significano due cose: che non c’è più richiesta di merci (commodities) da Cina e India, quindi recessione globale già in atto ed esplosione della bolla del settore shipping, dovuta a sempre maggiori commesse per nuove navi durante il boom pre-crisi. Con un paio di aggravanti. La prima, direttamente legata alla crisi della navigazione per trasporto merci, riguarda ancora le banche europee, soprattutto tedesche e francesi. Il proliferare di nuove imbarcazioni, figlio appunto del boom delle commodities dal 2005 al 2008, ha portato oggi a una sovrabbondanza di mezzi che non significa per gli armatori solo tariffe più basse, ma anche deprezzamento del valore delle stesse navi. Per Basil Karatzas, ad della Karatzas Marine Advisors, un’azienda di brokeraggio navale e consulenza finanziaria con sede a Manhattan, le banche europee hanno nei loro bilanci prestiti legati allo shipping per 500 miliardi di dollari, 100 dei quali potrebbero evaporare in perdite legate alla loro ristrutturazione causa crisi.

La seconda aggravante riguarda la Borsa, con la mente che torna indietro al luglio 2010, quando il Bdi era a quota 3mila, salvo precipitare in area 1000 nel febbraio 2011: in quei sei mesi, sui listini si ballò la rumba. E se il motore economico globale batte in testa, c’è poco da negare la recessione globale. Come d’altronde hanno già confermato le stime del Fondo monetario internazionale, il quale ha tagliato le previsioni di crescita del Pil globale per il 2012 al 3,3% e per il 2013 al 3,9%, rispetto a stime precedenti relativamente del 4% e 4,5% e ha confermato che il Pil cinese del quarto trimestre del 2011 ha rallentato come non accadeva da 2 anni e mezzo. Un ultimo dato, poi, stupido quanto volete ma esemplificativo: mensilmente JP Morgan traccia le vendite a livello globale di orologi svizzeri di lusso. E se sul finire d’anno i campioni sono stati gli Usa e l’Italia (alla faccia della crisi), rispettivamente con un +26% e +18%, i grandi sconfitti – relativi – sono stati invece proprio la Cina e Hong Kong, finiti per la prima volta in dieci mesi sotto quota 40%, rispettivamente a 29% e 21%. Ritardi nello shipment?

Alla luce di tutto questo e al netto sì degli eccessi reali della finanza anglosassone, ma anche del carattere dispostico e dittatoriale dei regimi che stanno dietro queste Soes (nessun diritto o tutela dei lavoratori, niente sindacati, paghe da fame, turni di 14 ore di lavoro al giorno, sette giorni su sette), non vi pare che sia proprio la “mano visibile” del nuovo capitalismo di Stato, il più pericoloso di tutti i derivati per l’economia mondiale? L’economia sociale di mercato, permettetemi, è tutt’altra cosa.

 

P.S. «Le misure varate all’ultimo vertice europeo del 30 gennaio per fronteggiare la crisi dei debiti sovrani nell’eurozona sono ampiamente insufficienti e i colloqui per lo swap volontario sul debito greco sono ultra-difficoltosi». Lo ha detto ieri, in un sussulto di realismo, il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, durante una conferenza a Lussemburgo. Poi non dite che non vi avevo avvertito. Grazie, signora Merkel.

 

P.S.2: Agenzia France Press: «Si allungano le mani della Cina sul settore energetico portoghese. Lisbona ha infatti annunciato di apprestarsi a cedere per 592 milioni di euro il 40% della Rete elettrica nazionale a una società cinese e a un’altra dell’Oman. In particolare, ha spiegato il ministro del Tesoro, Maria Albuquerque, la China State Grid pagherà 387 milioni di euro per il 25% di Ren mentre la Omani Oil verserà 205 milioni di euro per un altro 15%.  Lo scorso dicembre il governo portoghese aveva già venduto per 2,7 miliardi di euro il 21,35% della società energetica nazionale Energias de Portugal al gruppo China Three Gorges nell’ambito del programma di dismissioni cui era stato condizionato il piano di aiuti da 78 miliardi di Fmi e Ue». A proposito.