«La Spagna non è un Paese a rischio come la Grecia e non sarà necessario un intervento di aiuti come quello richiesto per il Paese ellenico». Parole di Olivier Bailly, portavoce della Commissione europea, a detta del quale «l’Esm ha la capacità legale di ricapitalizzare le banche, ma riteniamo che per la Spagna questo non sia necessario, tanto è vero che non c’è alcun piano di attivazione del nuovo fondo salva-Stati per aiutare le banche della Spagna». Ottimismo obbligato? No, necessità di calmare le acque dopo la dura presa di posizione di Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, il quale ha chiuso la porta a qualsiasi tipo di intervento in favore di Madrid, sia dalla Bce che dai vari fondi comunitari.
Il problema è che tra il volere tedesco e il potere dei mercati, c’è di mezzo un’asta di Bonos biennali e decennali che ieri ha mandato segnali discordanti: buona la bid-to-cover a 3,28, ma rendimenti in aumento, per il titolo a 10 anni dal 5,403% di gennaio al 5,743% pagato ieri e soprattutto per il biennale un rendimento salito al 3,463%, ai massimi da cinque mesi per una scadenza ancora ricompresa nell’arco temporale dell’asta di finanziamento della Bce. Alcuni hanno definito l’asta un successo, ma il trading che ha seguito l’emissione, ha parlato una lingua diversa: il cds spagnolo ha sfondato di nuovo quota 500 punti base, dopo essere stato trattato a 490 nelle prime contrattazioni mentre il rendimento del decennale è volato al 5,9% con tendenza a salire. Insomma, la storia va sempre raccontata tutta.
Il problema, poi, è duplice: da un lato l’aumento dei tassi d’interesse per il Tesoro di Madrid e dall’altro, nonostante le belle parole di Pimco su Italia e Spagna, il fatto che il grosso dei compratori siano banche spagnole, le stesse che Bailly non ritiene vadano salvate, ma sul cui stato di salute mi sono soffermato sia ieri che la scorsa settimana. I mercati hanno reagito in maniera mista: Borse in discesa ma non in crollo, spread in risalita ma non in orbita: come mai? Perché il problema, cari amici, non è la Grecia ieri o la Spagna oggi, ma l’Ue e l’euro in sé, ovvero quale futuro c’è – se c’è – per un progetto che a oggi ha mostrato più criticità che sviluppi positivi: gli aumenti del rendimento pagato da Parigi, sempre ieri, per collocare sul mercato i suoi Oat, così come i cds transalpini oltre quota 200, parlano la lingua di un’elezione, il primo turno delle presidenziali previsto per domenica, che dirà molto più che una parola sul destino della Francia, soprattutto in caso di vittoria di Francois Hollande (al riguardo, per chi è interessato, invito a leggere il report preparato da Ubs sul voto d’Oltralpe visto dai mercati,).
Ma torniamo alla Germania. Dando un’occhiata ai dati del programma Target2 – con il quale, di fatto, Bundesbank e Bce trasferiscono soldi alle banche centrali di Club Med e Irlanda per tamponare le fughe di capitali – si capisce meglio il perché dell’intemerata di Weidmann: la Bundesbank è sotto di 616 miliardi di euro rispetto ai crediti che vanta verso il resto del sistema Bce, un salto di 68 miliardi solo nell’ultimo mese. Finché l’eurozona reggerà, non c’è particolare problema: solo un dettaglio contabile, visto che ogni perdita verrà ripartita tra le banche centrali, quindi anche un eventuale addio greco potrebbe essere gestito e gestibile. Ma se il sistema salta e la Germania se ne va, le perdite saranno enormi per i contribuenti tedeschi: quindi, più l’eurozona va avanti, più gli sbilanci verso Target2 crescono, più sarà costoso e difficile per Berlino chiamarsi fuori dal casinò europeo quando l’incendio sarà divampato del tutto.
Il Target2, di fatto, è l’anello al naso della mucca da cash tedesca. E qui emerge il dato più politico e preoccupante dell’intera vicenda: chi comanda davvero in Germania? La Merkel, intesa come governo e Parlamento o la Bundesbank, intesa come difensore della Costituzione? Non vorrei che sia quest’ultima la più titolata a fare le scelte migliori per il Paese e non mi stupirebbe se, interpellando un tedesco, questo si dicesse più fiducioso nella Banca centrale che nella politica. La Bundesbank preme per una rottura rapida dell’eurozona o per una sua ridiscussione traumatica, attraverso un altro default o ristrutturazione, per rimettere le mani prima che sia tardi sui soldi del Target2 e rompere il circolo vizioso dello schema Ponzi europeo? Difficile dirlo, le politiche della Banche centrali sono cose serie, soprattutto quelle non in agenda ufficiale.
Certamente è un gioco pericoloso, al massacro, visto che in molti banchieri centrali non tedeschi puntano allo stesso risultato, ma per ragioni opposte: portare il decennale spagnolo al 7% di rendimento per obbligare la Bce a una terza asta di Ltro. Ciò che so è che sempre più indicatori di questa crisi mi fanno pensare che ormai siamo giunti a un bivio. O si prenda la direzione della vera Unione tra Stati, con budget condivisi, debito condiviso, tassazione condivisa e unione fiscale (leggi, addio sovranità) oppure il sistema scoppia e allora, se questa è l’intenzione tedesca, il piano sarà quello di farlo deflagrare in fretta, in nome del Target2 e dei soldi dei contribuenti tedeschi.
I dati parlano chiaro, d’altronde: la Bce, il cuore del Target2, è ormai di fatto il bancomat che mantiene in vita le banche di tutti i Paesi periferici, Italia ben compresa. Qualche dato fresco fresco dall’Abi. Sono in continua crescita le sofferenze bancarie, a fine febbraio 2012 le sofferenze lorde sono risultate pari a circa 107,6 miliardi di euro, 269 milioni di euro in più rispetto a gennaio 2012 e 15,3 miliardi in più rispetto a febbraio 2011, segnando un incremento annuo di circa il 16,5%. È quanto emerge dall’Outlook mensile dell’Associazione bancaria, che sottolinea come in rapporto agli impieghi le sofferenze risultano pari al 5,48% a febbraio 2012 (contro il 4,69% di un anno prima). È un dato pressoché spagnolo!
Significa che il 5,5% dei soldi prestati, non torneranno indietro! E da chi si vanno a prendere i soldini che mancano, se non da mamma Bce? Anche perché sempre l’Abi ci dice che il finanziamento netto dall’estero è di 182 miliardi di euro, giù del 32,5% da un anno fa! E alla faccia di Mario Draghi che negava lo stigma per le banche che avessero partecipato all’asta Ltro, in meno di un mese lo spread tra i titoli degli istituti che hanno preso denaro a prestito e quelli che non lo hanno fatto è salito da 50 a 140 punti base. Insomma, senza Ltro il sistema bancario spagnolo sarebbe crollato, ma con il Ltro si sono creati i presupposti di fragilissime e sotto-capitalizzate banche-zombie, realtà che è confermata anche dal rapido deterioramento dello swap euro/dollaro a 3 anni, sintomo che le banche europee sono disposte anche a pagare un premio pur di finanziarsi in dollari, una volta inglobati i soldi a costo 1% della Bce. Insomma, è in atto un duplice salvataggio del sistema bancario europeo: da parte della Bce e della Fed, attraverso il currency swap che questa ha con l’Eurotower.
Ricordate l’estate del 2011, piena crisi, banche americane che non volevano prestare un solo dollaro a quelle europee? Bene, a settembre la Fed entra in gioco e attiva i currency swaps, di fatto tramutandosi in prestatore di ultima istanza internazionale. Ora però negli Usa si guarda allo stato patrimoniale della Bce e si comincia a prestare molta attenzione al rischio di controparte: e se la Bce, magari per l’implosione dell’eurozona o del sistema Target2, andasse a zampe all’aria con la sua leva 1:29? Certo, in quel caso i creditori si rifarebbero delle perdite con l’acquisizione di assets della Bce: prestiti a banche portoghesi? Obbligazioni greche? No, grazie. Tanto più che i prestiti agli istituti lusitani dipendono dalle linee di liquidità della Bce e sono collateralizzati da bonds emessi dal governo portoghese, che dipende anch’esso dalla Bce.
Inoltre, per salvare indirettamente governi e banche europee, la Fed sta dando vita a un processo di debasing del dollaro, un azzardo che potrebbe terminare una volta che a Washington ci si sarà resi conti di ciò che la Germania ha realmente intenzione di fare. A quel punto, anche la strategia Usa verso un’Europa non più competitor globale ma insieme di Stati, cambierà. Ancora una volta, il destino d’Europa risiede a Berlino. Questa, però, potrebbe davvero essere l’ultima.