Ammetto che non sono riuscito a seguire l’ultimo dibattito Sarkozy-Hollande fino alla fine e non solo per la contemporaneità della terz’ultima giornata del campionato di calcio. Non ce l’ho fatta perché era surreale, farsesco, in grado di riabilitare in pochi minuti la tanto vituperata politica italiana: un coacervo di attacchi personali, promesse irrealizzabili, meline diplomatiche per arruffianarsi questo o quell’elettorato indeciso. Non una parola, seria, sulla situazione economica francese. La quale, cari lettori, non è in crisi di sistema da ieri o dal 2008. ma da almeno trenta anni: ultimamente, il tenore del calo ha solo preso velocità.
Basti dire che la quota francese di export nell’eurozona è scesa dal 17% al 13% dal 2000 a oggi, surclassata non solo dalla Germania, ma anche da Belgio e Spagna. Insomma, la Francia sta bruciando ciò che resta della sua passata prosperità, cullandosi nelle illusioni e fingendo di non vedere che il suo declino è una brutale e innegabile realtà. La bilancia commerciale è passata da un surplus del 2,5% del Pil nel 1999 a un deficit attuale del 2,4%, un chiaro indicatore di come la competitività dell’export francese sia in continuo deterioramento, soprattutto per quella fascia di prodotti tech di basso e medio livello che più patiscono la concorrenza delle economie emergenti. E non fatevi ammaliare dai grandi nomi come l’Oreal, Danone o il gigante del lusso Lvmh, l’industria transalpina ha perso 60mila posti di lavoro l’anno nell’ultima decade, la manifattura è scesa al 12% del Pil, dato identico a quello della Gran Bretagna che Nicolas Sarkozy definiva spocchiosamente “un Paese senza industria”.
Nel primo trimestre di quest’anno, in Francia hanno dichiarato bancarotta 16.206 aziende, un trend che potrebbe tranquillamente demolire il record del 2009, quando chiusero i battenti 61.595 imprese. A far paura, oltre il numero spaventoso, è l’inversione di tendenza, visto che nel 2010 andarono a zampe all’aria 58.673 aziende e nel 2011 “solo” 58.195: si torna, quindi, a salire. E se la legge francese appare molto “aperta”, con addirittura tre categoria di bancarotta possibile e l’aumento di fallimenti lo scorso hanno è stato solo dello 0,3% rispetto al 2010, è la composizione a inquietare, visto che sono le grandi aziende a licenziare e poi chiudere. Se le micro-aziende con massimo due impiegati rappresentano ancora la maggioranza dei casi di fallimento (11.565), aziende più grandi e potenzialmente con risorse in grado di farle resistere alla crisi stanno letteralmente crollando. I casi di fallimento per imprese con fino a 9 dipendenti (3.490) sono saliti dell’1,6%, quelli per aziende con un massimo di 49 dipendenti (1.028) del 5,2%, quelli per ditte con un massimo di 99 addetti (69) dell’11,3%, quelli di imprese con massimo 200 dipendenti (40) addirittura del 73% e quelli per ditte con più di 200 impiegati (14) del 16,7%.
Il problema, però, è che chiunque vincerà le elezioni presidenziali, a occupare lo scranno dell’Eliseo per i prossimi cinque anni sarà comunque il protezionismo, il male oscuro della Francia. Stando a un sondaggio dell’Ifop, l’82% dei francesi crede che la globalizzazione sia una cosa negativa per il suo Paese, il 75% che la competizione con paesi come Cina e India avrà conseguenze negative per il lavoro francese nella prossima decade, il 69% pensa che la globalizzazione peggiora il deficit di budget francese, il 70% ritiene che l’unica soluzione per la globalizzazione sia un incremento dei dazi sui prodotti importati da nazioni in via di sviluppo, il 62% pensa che la Francia dovrebbe erigere unilateralmente barriere doganali e commerciali contro l’import da paesi in via di sviluppo se l’Ue non si deciderà a farlo e solo il 22% degli interpellati pensa che un mercato aperto sia una cosa buona per la Francia.
E cosa propongono i due candidati presidenti per tamponare una situazione simile? Una riforma del mercato del lavoro in stile tedesco, come stanno facendo (o cercano di fare) Italia e Spagna? Tagliare il deficit di budget? No, litigano in tv e dicono ai francesi ciò che vogliono sentirsi dire, ovvero che il mondo è cattivo, la competizione è cattiva, il mercato è cattivo e l’unica risposta è l’orgogliosa autarchia nazionale basata sui sussidi agricoli a pioggia dell’Ue e sulla spesa pubblica fuori controllo. Insomma, lavorare poco, andare in pensione presto e vivere bene a spese dello Stato: vi ricorda qualcosa o qualcuno? Stando a dati del Fmi, la porzione di Pil dello Stato ha raggiunto il 56,8% nel 2010 e quest’anno si attesterà al 55,2%, proporzioni scandinave, ma senza la capacità di spesa e la flessibilità del lavoro che esiste nei paesi del Nord. E cosa fa Hollande di fronte a questo? Promette l’assunzione di altri 60mila insegnanti, sottolineando che bloccherà il deficit alzando le tasse, ma senza compiere tagli: ovvero, il Leviatano francese non solo non sarà riformato ma crescerà sempre di più.
Stato, Stato, Stato: questa la ricetta sia di uno che dell’altro contendente. Il governo francese pesa per il 20% del Pil, una cifra folle che frena la crescita ed è alla base del declino transalpino, ma i due contendenti non hanno dubbi: serve più Stato. Stando a dati del Fmi, la Francia ha una delle aspettative di vita più lunghe nel mondo sviluppato e, contemporaneamente, una delle età pensionabili più basse: solo il 39,7% delle persone tra i 55 e 64 anni stanno ancora lavorando, contro il 56,7% del Regno Unito e il 57,7% della Germania.
La tassazione sul costo del lavoro è tra le più alte al mondo, quasi il 50% e inoltre la Francia – a differenza di Germania, Olanda e Belgio – ha alzato il livello di protezione del lavoro negli ultimi 20 anni. Il salario minimo è di 9 euro l’ora, un +0,6% rispetto alla media salariale e molto più alto di quello degli altri paesi Ocse: il risultato, oltre a un appiattimento dei livelli di produttività francese, qual è? Barriere in entrata per i giovani e una disoccupazione di lungo termine cronica: rigidità e Stato, il mix letale che qualcuno invece vorrebbe spacciare per medicina miracolosa.
Hollande vuole alzare questo livello ulteriormente, mentre Sarkozy si è detto d’accordo con le critiche avanzate dal Fmi, ma ha sottolineato come “l’ambiente politico attuale non è favorevole”: come dire, faccio come Hollande ma uso dei sotterfugi. Se la crescita continuerà a flettere quest’anno e nel 2013, la ratio debito/Pil potrebbe raggiungere il 100% e a quel punto sarà downgrade generale della tripla A, non solo quello a più riprese minacciato da Standard&Poor’s.
Anche perché, già oggi, le cifre reali sono altre. Il Pil ufficiale della Francia è di 2.774 miliardi di dollari con un debito nazionale così composto: debito pubblico ammesso 2.261 miliardi, prestiti alla nazione 214,9 miliardi, debito bancario garantito (dato ammesso) 479 miliardi, garanzie per Dexia 55,48 miliardi per un debito nazionale totale di 3.010 miliardi. C’è poi debito europeo della Francia, così composto: liabilities verso la Bce 569 miliardi di dollari, costi per il Budget Ue 23,2 miliardi, liabilities verso i Fondi di stabilizzazione 110 miliardi, liabilities verso il Fondo per l’assestamento macro finanziario 203 miliardi, garanzie per il debito Eib 137,6 miliardi, per un totale di debito europeo della Francia di 1.043 miliardi.
Unendo le due voci di debito, nazionale ed europeo arriviamo a 4.053 miliardi. Quindi, la ratio debito/Pil della Francia non è quella ufficialmente ammessa dell’86,1%, ma del 146%. Eppure, nonostante l’incertezza politica e questi numeri, ieri la Francia ha collocato 7,4 miliardi di euro in titoli di Stato a lungo termine, registrando tassi di interesse in calo. Limato il rendimento sui bond a 10 anni, che si è attestato al 2,96% rispetto al 2,98% dell’ultima asta, mentre un’altra classe di titoli decennali ha mostrato una diminuzione ancora più significativa, passando al 2,85% dal 3,29% dell’ultima asta di gennaio.
Come mai? Perché era un’asta senza alcuna aspettativa: i mercati sanno già che la Francia non può permettersi una traiettoria tax’n’spend di questo livello per altro tempo e il sistema bancario è in sofferenza. Che sia Hollande o Sarkozy il prossimo presidente, nulla cambierà: in assenza di una Thatcher transalpina, ci penseranno i mercati e la troika a dettare la politica francese. Gli investitori puntano su questo. O sull’altro scenario possibile: la frattura dell’eurozona guidata proprio da una Francia capopopolo dei cosiddetti Pigs, contro il neonato asse Germania-Italia.