Ma come, le economie di mezzo mondo sono in recessione, anche la locomotiva cinese rallenta, eppure il prezzo del petrolio sale in area 115 dollari al barile? Geofinanza allo stato puro. Il prezzo dell’oro nero, infatti, è completamente scollegato dai fondamentali ed è entrato in rally grazie a tre variabili che la speculazione sta già prezzando, in onore dei contratti futures e della vergognosa possibilità di operare sulle commodities senza voler realmente acquisire il materiale (imponiamo l’obbligo di consegna e vedrete che, per magia, la speculazione sulle materie prime scomparirà, dopo che qualche bell’ufficio della City verrà invaso da barili di greggio o sacchi di soia tra gli sguardi increduli di operatori e clienti).

Eccole: certezza di un nuovo stimolo a livello globale delle banche centrali (Fed in testa), timori per un attacco israeliano all’Iran che destabilizzi il Medio Oriente e preoccupazioni riguardo gli approvvigionamenti dal mare del Nord. Come spiegare, altrimenti, un aumento del 30% del prezzo in sei settimane in queste condizioni generali? Quindi, si gioca. Da un lato stando long sui futures o, magari, piazzandosi short, visto che nessuno di questi tre fattori può definirsi una scommessa sicura e se verrà meno il prezzo potrebbe crollare in tempi rapidissimi. Insomma, il mercato è in decoupling sui fondamentali, basando la propria forza su fattori che sono tutt’altro che garantiti. A metà del 2008, subito prima l’esplosione della crisi, il petrolio toccò il massimo storico di 147 dollari al barile, salvo crollare a 36 dollari solo sei mesi dopo. Insomma, oggi come allora i livelli sono ben superiori al range tra i 50-80 dollari che viene visto come un floor naturale per il prezzo del petrolio: certo, i lavori di manutenzione previsti a settembre nel mare del Nord porteranno con loro un taglio del 17% della produzione di streams britannici e norvegesi, ma i timori appaiono sovrastimati, visto che il periodo di calo appare molto limitato e a fronte di una domanda reale per la crescita che da qui a tre mesi non appare certo destinata a esplodere.

C’è poi la disputa tra Iran e Israele, con quest’ultimo pronto a un attacco prima delle elezioni presidenziali Usa di novembre e Teheran che minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz, da dove passa un quinto dell’export petrolifero mondiale, se verranno colpiti. Ma perché dovrebbe farlo, Teheran? Da Hormuz passa anche il suo di petrolio e il resto dell’export, inoltre i caccia statunitensi sono a distanza ravvicinata, quindi difficilmente un blocco potrebbe durare molto. E, invece, guarda caso, mercoledì il blogger israelo-americano Richard Silverstein ha pubblicato sul suo sito “Tikun Olam” (“Riparare il mondo”, in ebraico) un estratto di un presunto dossier che gli sarebbe stato dato da una fonte israeliana di alto livello, che a sua volta l’ha ricevuto da un ufficiale delle Forze di Difesa israeliane. Il documento è stato passato perché, secondo la sua fonte, «questi non sono tempi normali e temo che Bibi (Netanyahu, premier d’Israele, ndr) e Barak (ministro della Difesa, ndr) facciano maledettamente sul serio».

Se c’è un Paese dove queste cose non succedono, perché i servizi segreti ti fanno sparire e nessuno fa domande quando c’è di mezzo la sicurezza nazionale, è proprio Israele: quindi, se volete credete a questa bufala, ma io proprio no. Il dossier rivela il piano di attacco in tre fasi: nella prima si ricorrerebbe alla tecnologia più sofisticata per mettere ko Internet, i telefoni, la radio, la tv, le comunicazioni satellitari, le connessioni in fibra ottica degli edifici strategici del Paese, comprese le basi missilistiche sotterranee di Khorramabad e Isfahan. Per la seconda fase sarebbe previsto il lancio di decine di missili balistici, in grado di coprire una distanza di 300 chilometri, contro la Repubblica islamica dai sottomarini israeliani posizionati vicino al Golfo Persico. Infine, la terza fase, con il lancio di altri missili – questa volta da crociera – per mettere ko i sistemi di comando e controllo, di ricerca e sviluppo e le residenze del personale coinvolto nel piano di arricchimento dell’uranio.

Ora, al netto del voler credere alla buona fede di Silverstein, un dossier del genere lo può preparare qualsiasi esperto militare, l’ottimo e nostrano Gianandrea Gaiani potrebbe fare anche di meglio. E, guarda caso, in contemporanea con lo scoop dell’Assange di Israele, ecco che la Reuters rende noto come l’ambasciata dell’Arabia Saudita in Libano abbia ordinato, tramite un sms e senza alcuna ragione specifica, ai suoi connazionali di lasciare immediatamente il Paese. Insomma, altro panico, altra instabilità nell’area. E cosa è successo mercoledì a New York in contemporanea con la pubblicazione di queste notizie. Come vedete nei due grafici più in basso: Brent in euro e Wti in dollari al picco delle contrattazioni intraday, con il Brent denominato in euro oltre i massimi del 2008 e in approccio ai massimi assoluti. Che meraviglia di disinformazione, anzi l’informazione manipolata: d’altronde, Gordon Gekko ne fece un totem già negli anni Ottanta.

 

 

 

Tant’è, da ieri nel mondo la convinzione che l’attacco sia più vicino ha una conferma in più: buy the rumors, sell the news. Vale per le azioni, i bonds, i futures: tutto, anche la guerra. Vera o falsa che essa sia. Molti analisti della City, infatti, parlano chiaramente di enorme sovrastima del rischio di una guerra tra Iran e Israele e del fatto che Teheran non intende chiudere lo Stretto. Nel frattempo, però, le minacce pesano psicologicamente sui mercati e portano i prezzi al rialzo. Ancora di più rischia di farlo la possibilità di un intervento della Fed, visto che alla fine del 2008, quando acquistò 3,2 triliardi di dollari in securities a lungo termine per stimolare l’economia, indirettamente pompò miliardi nei mercati degli assets e iniettò liquidità proprio nelle commodities, tra cui il petrolio. Durante il primo round di QE, tra il novembre 2008 e il marzo 2010, il prezzo del petrolio è più che raddoppiato, mentre nel corso del secondo round, tra novembre 2010 e marzo 2011, aumentò del 30%. Bofa-Merrill Lynch non ha dubbi: un terzo round di QE da 600 miliardi di dollari in settembre spedirebbe in alto i prezzi delle commodities, con quello del petrolio destinato a salire almeno del 14%.

Il problema è che questa certezza non c’è, visto che Jim O’Neill di Goldman Sachs Asset Management ritiene «quantomeno da dibattere la possibilità di una terza ondata di QE da parte della Fed, stante le condizioni dell’economia Usa». Stesso argomento per Dean Maki, economista di Barclays Bank a New York: «Non vedo affatto un qualcosa di convincente a favore di un QE3 a settembre». Insomma, leviamo dai mercati i tre props – QE3, crisi in Medio Oriente e nei Mari del Nord – e vedrete ridimensionata la domanda fondamentale di petrolio e quindi il suo prezzo. D’altronde, lo stesso Dipartimento dell’Energia Usa, uno dei grandi fornitori di previsioni sul petrolio, ha detto chiaramente che l’offerta a livello globale ha ecceduto la domanda con un ampio margine, nonostante l’embargo sul petrolio iraniano, creando cuscinetti d’emergenza sufficienti a tamponare inaspettati shock della domanda e delle forniture.

Insomma, il mercato reale del petrolio è dell’orso, non del toro come appare in queste ore. Ma, guarda caso, la speculazione è salita subito in giostra, con un aumento dell’esposizione netta a futures sul petrolio da tutte e due le sponde dell’Atlantico. Dati della Commodity Futures Trading Commission statunitense e della InterContinental Exchange parlano chiaramente di un netto aumento delle posizioni long sul Brent e sullo Us Crude, nonostante tre mesi di declino dell’interesse finanziario verso il settore e di bassi volumi trattati. Il problema è che in un situazione simile, se arriva la svendita, arriva in grande stile e facendo non solo rumore, ma anche danni.

Insomma, se da Jackson Hole non arriveranno parole chiare da parte di Ben Bernanke su un nuovo QE, il rischio di un crollo dei prezzi all’inizio di settembre si farà significativo. Qualcuno si farà male, molto, ma qualcun’altro farà valanghe di soldi operando su contratti, che poi non onorerà con la consegna del bene. Lo dico e lo ripeterò fino alla morte: i futures sulle materie prima sono fondamentali per l’economia globale, per le industrie, i governi, le linee aeree, i produttori, ma chi sulle commodities specula dal suo ufficio di Canary Wharf o di New York dovrebbe vedersi obbligato a noleggiare container o magazzini dove stivare quanto acquistato. Altrimenti, il gioco della speculazione e della disinformazione non finirà mai.