Sempre peggio. L’aggiornamento sull’utilizzo della linea di swap della Bce con la Fed di New York dimostra che la penuria di dollari in Europa sta diventando sempre più preoccupante: a partire da ieri, infatti, sono salite a 12 da 9 della scorsa settimana le banche del Vecchio Continente che hanno chiesto prestiti a 7 giorni in biglietti verdi, il numero più alto da febbraio e l’ammontare totale è stato di 8,5 miliardi di dollari, il secondo più alto di tutto il 2012.

Insomma, con il mercato interbancario europeo chiuso a doppia mandata, è di nuovo il turno per quello in dollari di implodere. Ma dagli Usa negli ultimi giorni sono arrivati altri dati molto interessanti riguardo le banche europee. Stando al resoconto settimanale sugli assets delle banche commerciali, il numero di cash depositato presso istituzioni finanziarie statunitensi sta toccando un nuovo massimo assoluto, qualcosa come 1,9 triliardi di dollari, l’ammontare più alto dall’inizio del 2012 e soltanto a pochi “spiccioli” dal record assoluto di 1,936 triliardi toccato nel luglio del 2011.

Guardate il grafico più in basso. Come vedete a crescere sono stati i depositi in dollari delle banche straniere con domiciliazione negli Usa, le quali hanno portato il loro cash balance ai massimi storici, qualcosa come 918 miliardi di dollari. Insomma, al netto delle detenzioni cash della banche Usa rimaste immutate negli ultimi tre anni, sono le banche straniere – leggi europee – ad aver messo le ali al loro capitale verso il mercato rifugio degli Usa, spostando euro attraverso l’Atlantico e depositandoli in dollari presso le sussidiarie.

Soltanto da aprile scorso a oggi le detenzioni cash in dollari delle banche europee negli Usa sono salite di 315 miliardi, guarda caso con timing quasi perfetto con il riacuttizzarsi della crisi del credito dopo che l’effetto placebo della seconda asta Ltro era svanito. Questo cosa significa? Primo, non essendo quel denaro stato utilizzato per acquistare securities statunitensi, possiamo pensare che il capitale rimasto inerte nei forzieri d’Oltreoceano sia un cuscinetto che le varie banche europee hanno creato in ossequio alle regolamentazioni di Basilea o di altri requisiti di capitalizzazione.

Di più, il dato dei depositi delle banche statunitensi ci dice che queste hanno disperato bisogno di liquidità, quindi il meeting di Jackson Hole potrebbe dirci qualcosa di più rispetto una nuova misura di stimolo da parte della Fed, un qualcosa già emerso dalla pubblicazione delle minute del Fomc, nelle quali la Banca centrale affermava chiaramente che «ulteriori politiche accomodanti saranno probabilmente assicurate a breve, a meno che l’economia non mostri un rafforzamento sostenibile e sostanziale» (i mercati, però, hanno mostrato entusiasmo solo per un paio d’ore, prezzando un ulteriore rinvio). Tanto più che gli spostamenti di denaro da un mercato a un altro non tangono minimamente il livello aggregato delle equities globali.

Insomma, senza nuova moneta di fresca stampa, i mercati azionari globali cercheranno inutilmente risposte in Asia per poi spostarsi in Europa e negli Usa, in un vertigo terminale che potrebbe significare incapacità di fare trading anche per gli algoritmi più sofisticati: insomma, siamo alle soglie di una sell-off sugli indici azionari in vista dell’autunno. Ma il  dato che ancora più ci interessa legato ai depositi delle banche europee negli Usa è che spostando euro e convertendoli in dollari nelle loro sussidiarie, gli istituti del Vecchio Continente hanno tenuto artificialmente basso il cambio dell’euro sul dollaro negli ultimi quattro mesi: a chi può aver fatto comodo? Forse all’export tedesco? Quanto denaro hanno spostato Deutsche Bank e Commerzbank presso le loro sussidiarie d’Oltreoceano, dopo aver attivamente partecipato al taroccamento del Libor con il beneplacito di governi e autorità monetarie, ben contente che i tassi spinti arbitrariamente al ribasso aprissero la strada ad acquisti obbligazionari? E, già che ci siamo, non sarebbe il caso che qualcuno chiedesse a Unicredit e Intesa SanPaolo se per caso, oltre a comprare Bot e Btp, parte dei soldi ottenuti dalle aste Ltro non siano per caso finiti nelle sicure casse statunitensi, invece che nel sistema creditizio per finanziare imprenditori e famiglie strozzati dalla crisi? Ma torniamo alla Germania e alle sue banche.

Recentemente Joshua Rosner, managing director della Graham Fisher & Co, ha pubblicato un interessante report sulle implicazioni che la crisi dell’eurozona potrebbe avere per Berlino. Il testo, intitolato “Eurozone crisis: no more safe havens”, è un atto d’accusa durissimo verso i regolatori e i leader politici tedeschi e un chiaro avvertimento ai cittadini di quel Paese: la vostra rabbia per la crisi in atto sta prendendo la direzione sbagliata e confondendo il bersaglio.  

Scrive Rosner: «Più che prendersela unicamente con le nazioni periferiche che richiedono salvataggi, la rabbia dei contribuenti tedeschi dovrebbe essere diretta verso i modellatori dell’unione monetaria europea, le banche con controlli interni ridicoli ed esposizione alla leva eccessiva, funzionari e tecnocrati che hanno fallito nel regolare in maniera consona l’industria bancaria interna, le agenzie di rating che hanno fallito nell’offrire analisi rispetto alle capacità del credito sovrano e i leader politici che fin dall’inizio della crisi hanno posticipato la risoluzione dei problemi, facendo così aumentare i costi per i contribuenti».

Insomma, i maestrini hanno ben poco da agitare la bacchetta. Quando poi si affronta il capitolo Deutsche Bank, la lettura si fa ancora più interessante e rende meno peregrina la mia ipotesi rispetto all’aumento vertiginoso del capitale in dollari messo a riposo negli Usa. Al netto del fatto che la redditività delle banche tedesche, siano esse Landesbank, casse di risparmio o banche commerciali, è molto più bassa rispetto a quella dei loro partner europei, il gigante bancario teutonico oggi è più grande del 40% rispetto al 2006 e pesa come l’80% dell’intera economia tedesca. E nonostante Deutsche Bank distorca i dati della sua ratio di esposizione alla leva escludendo l’esposizione ai derivati (target definition), quella ratio (assets/capitale Tier 1) a oggi è pari a 40 a 1, ovvero i tedeschi tutto rigore sono esposti alla leva il 50% di più di quanto fosse Lehman Brothers al momento del suo fallimento.

Forse, si chiede Rosner, «dando un’occhiata a esposizione, proiezioni sulle perdite ed esposizione alla leva del settore bancario, i contribuenti tedeschi hanno basi razionali per una seria preoccupazione». E ancora. Se l’eurozona collassasse, per scelta o per un effetto domino innescato dall’uscita di uno o più Stati membri, le implicazioni per la Germania sarebbero decisamente serie. A parte l’impatto sulle esportazioni, le banche tedesche più internazionalizzate sarebbero costrette a bussare a Berlino per essere stabilizzate a causa delle perdite inflitte dal default di molte controparti. Un’analisi di Credit Suisse stima che in uno scenario simile, lo shortfall per Deutsche Bank sarebbe di 35 miliardi di euro, visto che soltanto l’esposizione di credito diretta a Italia e Germania pesa per qualcosa come 30 miliardi di euro. E l’analisi non calcola e non contempla le esposizioni indirette correlate. Vero, cara frau Merkel?