Due perle. La prima: il capo di Commerzbank, Martin Blessing, ritiene che Atene avrà bisogno di un nuovo taglio del debito. “La situazione in Grecia è ancora lontana da un effettivo miglioramento“, ha detto Blessing, che poi ha aggiunto, “alla fine vedremo un nuovo taglio del debito per la Grecia al quale dovranno partecipare tutti i creditori“. Impagabile. La seconda: la Spagna potrebbe proporre all’Europa di utilizzare per il bilancio pubblico le risorse avanzate dai 100 miliardi di euro del salvataggio bancario già ricevuto, pari a circa 60 miliardi. In questo modo – scrive El Pais – Madrid eviterebbe di dover chiedere un salvataggio completo, che imporrebbe nuove condizioni di risanamento al governo di Mariano Rajoy.
Secondo il quotidiano, la Spagna, pur senza dover sottoscrivere il protocollo d’intesa con le autorità europee con le relative condizioni di salvataggio, vorrebbe comunque ottenere l’attivazione del programma di acquisto dei titoli di Stato da parte della Banca centrale europea. E poi cosa vuole Rajoy, una parte delle riserve auree dei Paesi membri per avere collaterale di qualità? L’azzeramento del debito? Sole e assenza di pioggia per decreto? Questo solo per farvi capire perché, a fronte dell’ottima asta di Bonos decennali, ieri le Borse erano in negativo e lo spread in cauta risalita.
Ma al di là delle politiche miserie di questa Europa, oggi trattiamo un tema che ci toccherà tutti dalla prossima primavera, se non prima. Nonostante la siccità da record che ha colpito gli Usa sia terminata, infatti, i suoi effetti collaterali sono destinati a restare, tanto che nel suo ultimo report Rabobank parla chiaramente di prezzi alimentari in aumento del 15% e più a seguito della macellazione di massa in atto negli Stati Uniti, destinata a colpire l’offerta una volta che le attuali scorte saranno terminate.
La siccità che ha colpito Usa, Sud America e Russia è stata la peggiore da un secolo a questa parte e ha colpito pesantemente la produzione di cereali utilizzati per l’alimentazione animale. Per reazione a questo aumento dei costi, gli allevatori Usa hanno cominciato macellazioni di massa di maiali e altro bestiame, offrendo sul breve un aumento dell’offerta ma creando le condizioni per un netto aumento dei prezzi sul lungo termine, non appena la produzione rallenterà. C’è poco da fare, se l’allevatore non riesce a creare profitto a causa dell’aumento dei prezzi dei cereali per nutrire le bestie, non rimane che ridurre gli stocks macellando gli animali, ma, al tempo stesso, non rimpiazzandoli negli allevamenti.
Attualmente questa scelta sta mantenendo i prezzi particolarmente bassi per eccesso di offerta, ma all’inizio del 2013 questa sarà evaporata e si giungerà a una sottoproduzione in grado di generare uno shock sul mercato, proprio in contemporanea con il cosiddetto “fiscal cliff”, che toglierà ulteriore capacità di spesa ai consumatori statunitensi e globali.
“La liquidazione di massa degli animali contribuirà al raggiungimento dei nuovi massimi per i prezzi del cibo“, scrive Rabobank nel suo report, sottolineando come “la carne di maiale è quella che conoscerà l’aumento più netto e rapido, con un +31% entro giugno 2013, mentre quella di manzo salirà almeno dell’8%. Questo aumento del costo della carne e dei prodotti caseari si combinerà con il già alto prezzo dei cereali, portando a un aumento generale dei prezzi dei generali alimentari almeno del 15% entrogiugno del prossimo anno“. Qualcosa come un +175% rispetto al 2000.
Ma chi pagherà il prezzo più caro per questa nuova crisi? Le economie avanzate come nel 2008, visto che al netto di un’inflazione del 2,5% nel Regno Unito (non distante dall’obiettivo della Bank of England del 2%), Rabobank prevede un netto aumento del tasso dovuto proprio alla crisi del cibo del prossimo anno? No, quando il mercato comincerà a comprare futures sulla carne di maiale come se non ci fosse un domani (ricorda “Una poltrona per due” ma è la realtà, cari lettori) a pagare il prezzo più alto rischiano di essere due attori globali che già stanno perdendo spinta: ovvero, Cina e India.
Se infatti i generi alimentari pesano per meno dell’8% del Cpi (Consumer price index) statunitense, i due giganti asiatici sono decisamente più suscettibili alle variazioni dei prezzi, visto che il cibo pesa relativamente per il 47% e il 31% del Cpi nazionale. Inoltre, il maiale è la “carne rossa” più consumata in Cina, quindi un aumento shock come quello che prevede Rabobank dovuto al crollo dell’offerta potrebbe portare a sommosse per il cibo come quelle vissute in alcune regioni della Cina nella primavera del 2011. E una tensione sociale di questo genere non andrebbe a inserirsi nel corpo sano di un gigante che continua a crescere a ritmi del 7% l’anno.
I dati diffusi ieri dalla Hong Kong & Shanghai Banking corporation (Hsbc) indicano infatti che la produzione industriale cinese rimane debole: il flash della banca sul Purchase manager index (Pmi) per settembre segna infatti il 47,8%. Pur con un leggerissimo miglioramento rispetto al 47,6% di agosto, l’indice rimane dunque al di sotto della soglia di guardia del 50% e conferma che l’economia cinese sta risentendo della stagnazione in Europa e Stati Uniti.
Di più, un report di Pwc dimostra come dalla fine del 2011 i prestiti a rischio per le prime dieci banche cinesi sono saliti del 333%, avendo toccato la cifra record di 489 miliardi di yuan dai 112,9 della fine dello scorso anno e quindi ponendo le basi per un aumento esponenziale dei cosiddetti non-performing loans (Npls), ovvero crediti di difficile esigibilità garantiti da patrimoni immobiliari che il sistema bancario vanta verso i privati.
Sono le stesse banche cinesi a confermare questi dati: capite, quindi, che al di là degli screzi a orologeria con il Giappone, potrebbe essere una crisi alimentare a far traballare il gigante dai piedi d’argilla. Crisi vera o creata ad arte? Questo potrà dircelo soltanto il tempo, sicuramente sono in molti a non piangere per il ridimensionamento della Cina. Quali rischi questo porti con sé, rimane un mistero.
PS: Ricordate il mio articolo del 17 agosto scorso vero? Bene, la Cftc, l’organismo statunitense di vigilanza sui mercati dei derivati e dei contratti a termine, sta collaborando con le autorità britanniche al fine di individuare l’origine del misterioso crollo dei prezzi del petrolio registrato nella giornata di lunedì e proseguito il giorno seguente, un secco -6%. Ad annunciarlo è stato uno dei commissari che compongono l’agenzia americana, Bart Chilton, in un’intervista rilasciata a Dow Jones Newswire.
L’anomalia si è verificata quando i valori del Brent e del Wti hanno perso oltre 4 dollari in pochi minuti alla fine della seduta newyorkese. Chilton ha precisato che la Cftf non esclude che possa essere stata effettuata una vera e propria manipolazione, dal momento che il problema non dovrebbe essere stato causato da un solo ordine sbagliato. Il commissario ha anche sottolineato come, al momento del crollo del prezzo, il mercato fosse dominato dagli attori specializzati nel trading ad alta frequenza, sistema di compravendita automatica che sfrutta complessi algoritmi informatici. Et voilà, come volevasi dimostrare.