Ma siamo proprio sicuri che lo scudo – formale – fornito dalla Bce ai debiti europei sotto stress non abbia qualche sgradevole effetto collaterale? Il rally obbligazionario che ha portato i costi del finanziamento dello Stato spagnolo ai minimi da dieci mesi, infatti, ha distratto tutti da un altro indicatore: ovvero, il sempre crescente stock di debito di Madrid. Il deficit di budget spagnolo, infatti, nel 2012 ha ecceduto il 9% per il quarto anno di fila, il tasso di disoccupazione è il più alto d’Europa, siamo ormai alla terza recessione in quattro anni e il costo del salvataggio bancario ha già bruciato tutti i 62 miliardi tra tagli e nuove tasse imposti dal governo, stando agli economisti di Societe Generale, Lombard Street Research e Applied Economic Research Foundation. Stando a previsioni del Fmi, poi, il debito raggiungerà il 97% del Pil quest’anno.
Tranciante il giudizio al riguardo del capo economista per l’Europa di Societe Generale, James Nixon: «Semplicemente, gli spagnoli non stanno compiendo alcun progresso». L’ultima volta che il debito spagnolo veniva trattato a un livello così basso, il decennale rende attorno al 5%, era all’inizio di marzo del 2012, subito dopo la seconda alluvione di liquidità alle banche offerta dalla Bce con l’asta Ltro, ma ora il quadro appare differente. Tanto più che il governo Rajoy ha cominciato lo scaricabarile. Il vice-premier, Soraya Saenz de Santamaria, ha infatti dichiarato che «è difficile gestire una situazione nella quale ti trovi ad avere un deficit del 9%, quando era stato promesso in patria e all’estero un obiettivo del 6%», chiaro attacco al lascito del governo socialista precedente. «Stiamo recuperando credibilità e fiducia sui mercati, un qualcosa che si fa in fretta a perdere, ma che costa tempo e fatica ritrovare», ha poi concluso.
In effetti, il Tesoro spagnolo ha piazzato 5,75 miliardi di euro di titoli a 12 e 18 mesi martedì scorso, eccedendo il target prefissato di 5,5 miliardi, ma da Royal Bank of Scotland gettano acqua sul fuoco: «Il mercato sta ignorando argomenti macro del tutto irrisolti, la Spagna non è sostenibile». Certo, le ottime aste di fine 2012 e inizio 2013 garantiranno a Rajoy, forse, denaro sufficiente per evitare un salvataggio europeo e mantenere l’indipendenza finanziaria, ma Gilles Moec, economista per l’Europa a Deutsche Bank, ha qualche dubbio: «Certo, il 2013 per il debito sovrano spagnolo è iniziato alla grande, ma l’intera aura di positività che c’è attualmente attorno ai periferici può essere ribaltata molto facilmente, soprattutto se i deludenti dati sui deficit del 2012 metteranno in dubbio la credibilità dei piani fiscali per l’anno in corso».
Nonostante cinque pacchetti di riforme di austerity, poi, il governo Rajoy ha ottenuto davvero poco. L’innalzamento delle tasse su redditi, risparmio, proprietà, aziende, vendite, tabacco e carburante – manca solo l’aria – hanno fruttato, fino allo scorso novembre, solo 7 miliardi di nuove entrate, contro i 20 preventivati nei piani del governo. Inoltre, gli introiti fiscali nei primi undici mesi del 2012 sono cresciuti solo dell’1,1% a 153 miliardi di euro, peccato che i costi per il finanziamento del governo centrale siano rimasti inalterati a 136 miliardi di euro. Inoltre, il quadro per quest’anno rischia di peggiorare, visto che per Ignacio Conde-Riuz, economista all’Applied Economic Research Foundation di Madrid, «poiché i pagamenti dei bonus nel pubblico impiego saranno riattivati e saliranno anche i costi del sistema pensionistico, un aumento di 10 miliardi di spesa pubblica. Al netto di queste cifre, il target per il 2013 è semplicemente impossibile. Sarà un anno davvero molto complicato».
E come se questo non bastasse, oltre alla Grecia che ha già finito i soldi dell’Ue per salvare le sue banche, ecco che arriva un altro fronte aperto, quello di Cipro. Per l’agenzia di rating Moody’s, infatti, il merito di credito di Nicosia è ormai a soli due gradini dal livello default, ma le limitate proporzioni demografiche, geografiche ed economiche dell’isola sembrano deporre a favore di una generale assenza di allarmismo sul tema. Non è così, per diverse ragioni. La prima è la situazione spaventosa del sistema bancario cipriota, seduto su assets per 152 miliardi di euro, otto volte e mezzo il Pil di soli 17,8 miliardi. Ma non è tutto, visto che 23 miliardi di euro, ovvero il 27% dell’intero portafoglio di credito degli istituti, sono non performing loans, il 127% del Pil. Secondo, a complicare non solo finanziariamente ma anche politicamente la situazione c’è poi la questione del “denaro nero” degli oligarchi russi depositato sui conti ciprioti, un pozzo offshore portato alla luce lo scorso novembre dal Bundesnachrichtendienst, la versione tedesca della Cia, il quale quantificava in 26 miliardi di euro la black money russa che aveva trovato rifugio presso gli istituti ciprioti, svelava come a Nicosia si distribuissero facilmente passaporti ciprioti a facoltosi cittadini dell’ex Urss e che un qualsivoglia tipo di salvataggio sarebbe servito unicamente a garantire il denaro sporco con i soldi dei contribuenti europei, tedeschi in testa.
Terzo, Cipro necessita di 17,5 miliardi di euro, circa il 100% del suo Pil, 12 dei quali andrebbero direttamente alle banche, in base all’accordo di massima che dovrebbe essere siglato il prossimo 10 febbraio prima dell’Ecofin. Il problema è che in base alla Costituzione tedesca, il ministro delle Finanze non può votare in sede europea per l’esborso di fondi senza la preventiva approvazione del Parlamento, dove si deve raggiungere la maggioranza qualificata del 73,9%. Un livello a forte rischio, visto che a oggi sia l’opposizione socialdemocratica della Spd che i Verdi sono orientati per il “no”.
In un’intervista pubblicata ieri dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt, il Commissario per gli Affari economici e monetari dell’Ue, Olli Rehn, ha dichiarato che «quella di un haircut in stile greco non è un’opzione per Cipro», sottolineando poi come «la Spd è un partito profondamente filo-Ue, quindi sono certo che voterà a favore del pacchetto di aiuti se troveremo una soluzione che sia accettabile per i contribuenti e che risolva finalmente e per sempre la questione del riciclaggio di denaro a Cipro». In meno di un mese, pare arduo. A otto mesi dalle elezioni politiche in Germania, pressoché impossibile. Mosca, nel frattempo, vigila e magari si prepara alla minaccia: o salvate Cipro o basta acquisti di debito europeo, finora magri ma soprattutto qualche rognetta sulla fornitura di gas.
P.S.: Come avrete letto o sentito al tg, la Bundesbank ha deciso di rimpatriare il proprio oro detenuto presso la Fed di New York e la Banca di Francia, nel primo caso riducendo l’ammontare, nel secondo azzerandolo, entro il 2020. Avevamo già dato questa notizia a novembre, ma ora c’è la certezza, certificata da un comunicato di mercoledì della Bundesbank. Ora, al netto del fatto che mi piacerebbe che anche in Italia si aprisse un dibattito sullo stato di salute del nostro oro detenuto all’estero (visto che siamo quarti al mondo per riserve), due domande.
Primo, nel suo comunicato, la Buba certifica che la sua decisione di azzerare le riserve in Francia «riflette il cambio di condizioni dall’introduzione dell’euro. Visto che la Francia, come la Germania, ha l’euro come valuta nazionale, la Bundesbank non è più dipendente da Parigi come centro finanziario per scambiare oro con riserve di valute internazioni in caso di necessità». Scusate ma la Buba ci ha messo dieci anni a scoprire che la Francia ha la stessa moneta della Germania?
Secondo, guardate il grafico più in basso. Compara le riserve auree totali disponibili della Fed (in giallo) e la quantità d’oro tedesco di cui la Bundesbank richiede il rimpatrio (in rosso). È meno del 5% del totale, perché quindi ci vogliono sette anni? Non sarà che tra tanto oro c’è anche molto tungsteno? Oppure che quell’oro c’è solo sulla carta, ma è sparso da qualche parte nell’iperuranio delle operazioni repo mondiali o piazzato come collaterale di miliardi di contratti, derivati e non?