Come vi avevo detto nel mio articolo di sabato scorso, a breve succederà qualcosa in Grecia. E così è. A poco meno di un mese dalle elezioni tedesche e con il nuovo governo ancora da formare, quello attualmente in carica per l’amministrazione generale del Paese sta facendo ben oltre il suo compito e si sta occupando di ben altro che dell’ordinato funzionamento dello Stato. Stando a quanto scritto dal quotidiano Die Zeit, l’esecutivo starebbe preparando il piano per il terzo salvataggio greco, basato su quattro “trucchetti” per colmare lo shortfall di budget greco, definito “high-single-digit-billion”, ovvero miliardario per un ammontare alto ma a una singola cifra. Caso strano, dopo settimane di crescita epica, la Borsa di Atene da un paio di giorni, ritraccia.



Il piano si baserebbe sulla riallocazione di fondi, l’assistenza della Bce, espansione del credito e riduzione del debito esistente. Come? Die Zeit, citando fonti finanziarie non identificate, ritiene che i creditori sposteranno i fondi non utilizzati per il salvataggio e destinati alla ricapitalizzazione bancaria nel nuovo programma, per coprire il gap di finanziamento da 4 miliardi. Il nuovo programma potrà essere ulteriormente finanziato attraverso la vendita di debito governativo a breve termine presso banche private, le quali potranno usare quei bills come collaterale presso la Bce. Dopo di che, i creditori decideranno per un finanziamento addizionale alla Grecia fino al 2016 una volta che l’attuale programma sarà terminato il prossimo anno, visto che la famosa cifra miliardaria ma singola è necessaria per finanziare il Paese fino all’inizio del 2016. Infine, i creditori considereranno l’estensione delle maturazione del credito e l’abbassamento dei tassi per aiutare il Paese a sopportare il carico del debito.



C’è un problema, però. Anzi, due. Primo, il fondo di ricapitalizzazione bancario non solo è già ruotato in finanziamento governativo ma è già sotto di 5 miliardi, quindi non c’è proprio nulla da riallocare. Secondo, senza un altro haircut, il problema non si risolverà, si butteranno soltanto altri soldi al vento. È un dato di fatto, proseguire con una politica di tagli e di austerity non potrà che portare con sé un unico epilogo, dopo sei anni di recessione: l’uscita dall’eurozona, visto che i 240 miliardi di prestiti ottenuti dal 2010 a oggi non sono serviti assolutamente a nulla, se non a ripagare le banche detentrici di obbligazioni. In compenso, il tasso di disoccupazione è al record assoluto, con quello giovanile al 50%. Il governo greco ha reso noto nella bozza di budget per il 2014 che l’economia dovrebbe crescere dello 0,6%, grazie a una ripresa degli investimenti e dell’export: il problema è che se si prosegue con ulteriori tagli, questo minimo di ottimismo verrà stroncato sul nascere.



Servono misure per stimolare lo sviluppo economico e la crescita, ma questo non pare nelle corde della troika, la quale sembra non capire che in termini di output la Grecia è ancora sotto del 20% rispetto al livello pre-recessione e che per attrarre capitali e investimenti non si può puntare sull’austerity. Se si vuole davvero sbloccare la situazione, serve un altro haircut verso i detentori sovrani di debito ellenico, questa volta includendo la Bce, il principale prestatore di Atene in questo momento. E proprio questo vuole evitare la Germania attraverso il suo piano alternativo, il quale oltre a essere quantomeno irrituale, visto che non si capisce come un governo dell’Ue stia preparando un piano di salvataggio al di fuori delle istituzioni e dei simposi europei, appare finalizzato a un unico epilogo: garantire ad Atene di restare in vita fino alla fine del programma di salvataggio atteso per il prossimo anno e poi scaricata bellamente al suo destino, visto che i quattro “punti” del piano fino al 2016 appaiono quantomeno impossibili da gestire e da porre in essere, salvo forse l’emissione di debito a breve.

Con che diritto l’esecutivo tedesco, oltretutto in carica unicamente per la gestione degli affari generali in attesa del nuovo governo, prenda questa iniziativa resta una domanda cui nessuno, temo, darà una risposta. In compenso, c’è qualcuno che ha deciso di dire basta alle ricette della troika, l’Irlanda, la quale nel suo settimo budget di austerità in sei anni porrà in essere misure di tagli fiscali e tasse per un corrispettivo dell’1,5% e non dell’1,8% del Pil come concordato con i funzionari di Bce, Fmi e Ue. D’altronde, gli irlandesi ne hanno avuto a sufficienza di uno shock fiscale combinato pari al 19% del Pil e di un collasso a doppia cifra della fornitura di moneta: oltretutto, al netto di un’economia ultra-aperturista al business e con una bilancia commerciale solida. Insomma, l’Irlanda è rimasta competitiva nonostante la gabbia monetaria dell’euro e certamente l’ultima cosa di cui ha bisogno sono lezioni di libero mercato da Bruxelles e dai suoi burocrati. Nell’indice della Banca Mondiale sulla facilità di fare business, l’Irlanda è al 15mo posto, il miglior Paese dell’Ue dopo la Finlandia: per capirci, il Portogallo è 30mo, la Spagna 44ma, l’Italia 73ma e la Grecia 78ma. Da notare che prima di entrare nell’euro, l’Irlanda era al 7mo posto di quella classifica.

Ci sono però note negative, come ad esempio il deficit di budget al 7,3% del Pil e la ratio debito/Pil al 123%, molto vicino al punto di non ritorno: ma siccome quest’ultimo dato è stato pesantemente aggravato dalle misure di austerity, potremmo ritrovarci nella situazione per la quale Dublino potrebbe dover ricorrere a una ristrutturazione del debito proprio per l’aggravarsi delle condizioni dovute alla medicina sbagliata delle varie autorità di vigilanza, visto che per evitare questa ipotesi serve crescita interna. L’Irlanda, d’altronde, è anche un laboratorio di come il mercato obbligazionario sovrano sia sostanzialmente un casinò: nei giorni più oscuri della crisi, la Franklin Templeton comprò un decimo di tutto lo stock di debito irlandese e così fecero altri grossi investitori: hanno fatto una fortuna. Oggi il decennale irlandese paga un rendimento del 3,67% ma nonostante questo Moody’s continua a dare rating “junk” al debito di Dublino, scomodando rischi di stagnazione economica legata alla traiettoria del debito. Col decennale che paga il 3,67%, si mantiene la valutazione “spazzatura”? Follia totale.

Il debito privato del Paese è pari al 200% del Pil, mentre gli assets che lo sottendono hanno subito un crollo del valore, legato soprattutto al calo del 57% del prezzo degli immobili, mentre i mutui a 180 giorni prezzano un tasso record del 17%. C’è però il tesoretto, reso meno determinante proprio dall’euro: le esportazioni di beni e servizi dell’Irlanda sono pari al 108% del Pil, contro il 39% del Portogallo, il 32% della Spagna, il 30% dell’Italia e il 27% della Grecia. E, soprattutto, una tassazione sulle imprese che è una vera e propria calamita per le aziende estere, soprattutto le major statunitensi. In tal senso, ieri, il ministro delle Finanze, Michael Noonan, è stato molto chiaro verso le autorità europee rispetto a un nodo legale per la residenza fiscale di Apple: «Voglio essere cristallino, l’Irlanda vuole essere parte della soluzione di queste sfida globale a livello di tassazione, non parte del problema». Sono quasi certo che dopo quello sullo sforamento del budget, da Dublino arriveranno altri no verso la troika e le sue ricette, proprio per evitare di finire come la Grecia.

Magari sarebbe il caso di rifletterci su, anche da noi, invece che farci scrivere dall’Europa una legge di stabilità che alla voce crescita è pari allo zero. Ma fa la gioia del nostro commissario liquidatore, Olli Rehn, visto che sarà emendata dall’Europa e una volta che i padroni ci diranno cosa va e non va, toccherà eseguire gli ordini. Ce lo chiede l’Ue.

P.S.: Uscendo dai confini europei, una notizia giunta ieri dagli Usa merita attenzione. Chase Bank ha confermato che andrà con la mano pesante quanto a controlli sul capitale: dal 17 novembre sarà bloccato ogni flusso di denaro in uscita dagli Usa. Alla faccia dell’accordo-farsa sul tetto di debito e del default scongiurato. Shock in vista? Quasi certamente, vista l’esposizione dei fondi sulle equities europee, livello che avrebbe già innescato un segnale contrario di vendita sui mercati. Su 235 manager di fondi interpellati da Bank of America-Merrill Lynch, uomini che supervisionano assets per 643 miliardi di dollari, il 46% si è definito “overweight” sulle equities europee, su dal 36% di settembre e il livello più alto dal 2007. Le prossime settimane ci diranno se sarà davvero così.