Sarà pure in atto la ripresa, ma, giuro, io non la vedo. Ciò che vedo, chiari, sono i dati resi noti ieri dalla Bce, in base ai quali la creazione di massa monetaria M3 è scesa ancora all’1,4%, il ritmo più lento da due anni a questa parte, mentre i prestiti ad aziende e privati sono scesi addirittura del 2,1% in ottobre, il peggior calo mai registrato. Detti così sono numeri che dicono magari poco, ma vi basti sapere che l’obiettivo prefissato dalla Bce per la crescita di massa monetaria M3 era del 4,5%. In Italia i crediti alle aziende sono scesi del 5,7% anno su anno, in Portogallo del 6,6% e in Spagna addirittura del 19,3%. Già, il Paese che tutti ci dicevano essere uscito per primo dalla recessione, presenta numeri simili.
Ora, pur non essendo keynesiano, devo concordare con l’economista inglese sul fatto che non può esistere una ripresa senza credito. Quindi, delle due l’una: o Mario Draghi dà vita a un’asta Ltro con vincoli di destinazione dei capitali verso le imprese e le famiglie (sullo stile della manovra di stimolo della Bank of England) oppure azzarda un taglio di ulteriori 15 punti base del costo del denaro, magari accompagnato da tassi negativi sui depositi. Una cosa è certa, qualcosa occorre fare e in fretta. Perché purtroppo, piaccia o meno, la macchina della propaganda funziona fino a un certo punto, poi si sgonfia.
Con un crollo di quasi il 20% nella creazione di credito, la Spagna appare sempre più uno zombie. Ma si sa, queste cose non fanno vendere i giornali, né salire l’audience dei talk show. La decadenza di Berlusconi, quella sì che è un bell’argomento, quella sì che l’altro giorno ha monopolizzato l’attenzione di tutti i media e tutti i cittadini. Distraendola da altro. Ovvero, da quanto deciso nel Consiglio dei ministri. E non mi riferisco alla telenevola dell’Imu. Mi riferisco al colpo di mano con cui il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha violato la legge 262/05 che prevedeva la nazionalizzazione della Banca d’Italia, tramutando la stessa in una public company nell’ambito della già citata e trattata rivalutazione delle quote contenuta nella Legge di stabilità.
Ciascun partecipante al capitale di Bankitalia, anche un investitore europeo, non può possedere, direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al 5%, mentre per le quote in eccesso non spetta il diritto di voto e i relativi dividendi sono imputati alle riserve. Ai partecipanti al capitale di Bankitalia, si legge ancora nel testo, possono essere distribuiti esclusivamente dividendi annuali, a valere sugli utili netti, per un importo non superiore al 6% del capitale.
Nei fatti, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico con un capitale sociale di 156 mila euro diviso in 300 mila quote con un valore unitario pari a 52 centesimi cadauna. Una serie di privatizzazioni e acquisizioni nel panorama bancario italiano ha però fatto sì che il 94,33% del capitale della Banca centrale sia ora in possesso di enti non pubblici, situazione che portò sul finire del 2005 – governo Berlusconi – all’approvazione da parte del Parlamento della legge 262, in base alla quale entro 31 dicembre 2008 si sarebbe dovuto ridefinire l’assetto proprietario di Bankitalia. E invece? E invece lettera morte, anzi la palese violazione di quella legge che doveva riportare di fatto Palazzo Koch in mano pubblica.
Direte voi, dov’è lo scandalo? In questa parola, “progetto Bankoro”. Un piano a cui il governo sta lavorando da prima dell’estate e che ha avuto una prima uscita semi-pubblica nel mese di settembre, sotto forma di forum-dibattito riguardo la sua efficacia e liceità. Di cosa si tratta, nelle intenzioni degli ideatori, è presto detto: è un piano che, se attuato, «renderebbe possibile una nuova dignità all’assetto proprietario della Banca d’Italia, la risoluzione degli immobilizzi delle banche italiane nelle quote della stessa (con beneficio della loro patrimonializzazione e della capacità di erogare risorse) e la contribuzione di un importo non marginale (13-14 miliardi di euro) al rilancio della nostra economia che necessita di risorse per le imprese e gli investimenti».
Il problema è che la Banca d’Italia detiene 79 milioni di once di riserve auree pari a oltre 2.400 tonnellate (superate nell’eurozona solo da quelle della Germania, pari a 109 milioni e nel mondo da Usa e Fmi), ma diversamente da altre banche dell’Eurosistema e dalla Bce, la Banca d’Italia non ha mai venduto oro dal 1999, da quando vige il “Central Bank Gold Agreement”. Vendere l’oro, avete letto bene. Ma loro le cose le sanno mascherare alla grande, ecco quindi che il “progetto Bankoro” non prevede la vendita di oro italiano, ma solo di rivalutarlo per liquidare le partecipazioni dei privati nel capitale della Banca d’Italia.
Il perno della proposta sta nella valorizzazione dell’oro iscritto nel bilancio della Banca d’Italia con il suo conferimento a un’entità sua affiliata e il conseguente pagamento alle casse dello Stato dell’imposta sulle plusvalenze che verrebbero realizzate. Con tali somme, lo Stato si renderebbe acquirente di quelle stesse quote attraverso un veicolo finanziario costituito ad hoc. Insomma, c’è il forte rischio che stiano per mettere le mani sull’oro italiano, senza nemmeno dirlo alla gente e attraverso una sorta, nella migliore delle ipotesi, di scatola cinese o, nella peggiore, di uno schema Ponzi. Ma noi tutti eravamo troppo impegnati a piangere o gioire per la decadenza di Berlusconi e loro il Consiglio dei ministri lo hanno fatto proprio durante questa funzione laica a uso e consumo del popolo incarognito da vent’anni di guerra civile latente.
Attenzione alle prossime mosse e informatevi bene, perché molti giornali hanno banche nei cda e potrebbero sottovalutare o nascondere la notizia. E attenzione, di questi tempi l’oro può diventare davvero un bene su cui qualcuno vuole puntare per mettere a posto qualche buco e magari finanziare qualche ricapitalizzazione, più o meno d’emergenza. È di un settimana fa la notizia che il Venezuela ha sottoscritto un accordo con la banca d’affari americana Goldman Sachs su 1,45 milioni di once di oro puro, pari a più di 45 tonnellate. Si tratterebbe dell’oro depositato presso la Banca d’Inghilterra e ancora non rimpatriato: ai prezzi attuali, quei lingotti valgono intorno a 1,8 miliardi di dollari. Su questi, Caracas ha pattuito un accordo con scadenza nel 2020, che prevede il pagamento da parte di Goldman Sachs di una sorta di “affitto” alla Banca Centrale del Venezuela, sulla base di un tasso di interesse, dato da una combinazione tra dollari e un equivalente call BBA Libor all’8%.
È stato aperto anche un account, ossia un margine, per cui la Banca Centrale dovrà versare a Goldman Sachs più oro nel caso in cui il prezzo dei lingotti sui mercati scendesse, mentre la banca americana dovrà versare più dollari per il caso opposto di aumento delle quotazioni. Nel 2020, tali margini torneranno ai legittimi proprietari, ossia l’oro in più depositato al Venezuela e i dollari in più a Goldman Sachs. L’accordo, in sostanza, è una sorta di contratto di affitto di oro alla banca d’affari, in cambio di un pagamento periodico degli interessi sul valore mutevole dei lingotti. E, colmo dei colmi, è la stessa Goldman Sachs a prevedere un crollo del valore per oro, rame, ferro e soia del 15% il prossimo anno! Casualmente, poi, l’accordo scade nel 2020, ovvero un anno prima di quando la Federal Reserve dovrà riconsegnare alla Bundesbank i lingotti depositati presso Fort Knox.
A vostro modo di vedere, la Fed ha convenienza che il prezzo dell’oro sul medio termine, salga o scenda? E se per caso l’oro tedesco si fosse tramutato in tungsteno dipinto o fosse in giro per il mondo nell’oscuro universo del leasing, l’oro venezuelano – vero, fisico – non farebbe un gran comodo alla Fed, onde evitare una crisi diplomatica con un Paese alleato? Attenti, sento puzza di enorme fregatura.