Babbo Natale è arrivato in anticipo a Piazza Cordusio. Il 24 dicembre scorso, infatti, Unicredit ha ceduto 950 milioni di crediti in sofferenza al fondo Cerberus European Investments, un’operazione pro soluto – ovvero, chi cede il prestito non è poi tenuto a rispondere della sua eventuale inesigibilità – su un portafoglio di crediti non garantiti e in sofferenza derivanti da contratti di credito al consumo e prestiti personali. Il portafoglio ceduto ha come oggetto esclusivamente crediti derivanti da contratti di finanziamento regolati dal diritto italiano per un ammontare, al lordo delle rettifiche di valore, di circa 950 milioni di euro e con un coverage superiore al 90%.



E qui casca l’asino. Se infatti Unicredit ha dovuto sopportare sofferenze per quasi un miliardo su vecchi contratti di credito al consumo – ovvero quelli molto in voga prima della crisi che ti permettevano di comprare, a rate e con interessi alti, dal tostapane all’automobile – vuol dire che quel credito ormai è poco più che carta del salumiere o figurine Panini, visto che come confermato dalla stessa banca il coverage su quel portafoglio ammonta a circa il 90%, quindi a bilancio dovrebbe valere all’incirca un ottantina di milioni. Quanto ha pagato Cerberus per quel portafoglio? Non si sa. La cifra non è stata comunicata da Unicredit, ma c’è da scommettere che sicuramente non si avvicina agli 80 stimabili, al netto delle svalutazioni, come valore di quel portafoglio. Cinquanta? Quaranta? Trenta? Comunque sia, spiccioli.



Non la pensano così i vertici della banca, a detta dei quali l’operazione costituisce parte dell’attuale strategia di cessione di asset non core, finalizzata al rafforzamento del profilo di credito dell’istituto. Insomma, supervisione e stress test cominciano davvero a fare paura. E se ha paura Unicredit, pensate come devono sentirsi Mps, Bpm, Ubi, Banca Etruria, Carige. L’operazione sarà finalizzata entro il 28 febbraio 2014 e l’impatto economico-finanziario sarà registrato nella prima trimestrale del 2014.

«L’importante è partire con una o due transazioni», aveva detto lo scorso 17 dicembre l’ad, Federico Ghizzoni, anticipando che il processo di cessione di portafogli di crediti in sofferenza era in corso e che gli interessi manifestati erano concreti. Così è stato, oltretutto i primi sono stati interessi esteri: ma a quale prezzo? Ripeto, spiccioli. Anche perché se la cessione di crediti problematici appare cosa positiva, è proprio l’importo a smorzare gli entusiasmi e gettare nuova luce sul mondo delicatissimo che sta attraverso il sistema bancario del nostro Paese: quei 950 milioni di euro sono poca cosa a fronte dei 46 miliardi di euro di crediti problematici netti totali di Unicredit, la quale, nel frattempo, ha sì ridotto l’esposizione nei confronti dei prestiti Ltro ricevuti dalla Bce complessivamente per 5 miliardi, ma ne ha ancora 21 da rimborsare. E la finestra dei tre anni scade tra poco, esattamente nel 2014, l’anno che sta per cominciare.



C’è da stare attenti, come vi ripeto da settimane: a livello europeo si sta stravolgendo l’idea stessa di banca, si stanno riscrivendo le regole dei salvataggi e dei fallimenti, si è ufficializzato il principio del bail-in, trasformando correntisti e obbligazionisti in involontari “cavalieri bianchi” degli istituti in difficoltà. Ma tutti a parlare di Forconi, Renzi, legge elettorale. I dati invece parlano chiaro, poi: a ottobre in Italia i prestiti delle banche alle imprese sono scesi del 4,9% su base annua, mentre i cosiddetti “non performing loans” (i crediti deteriorati che vanno da quelli praticamente inesigibili chiamati “sofferenze”, a quelli che vantano buone probabilità di recupero detti “incagli”) sono cresciuti del 22,9%, il massimo dal 1998.

E il perché di questa discrasia – che poi tale non è – appare chiaro: la Bce ha creato un loop in base al quale, dal punto di vista tecnico e finanziario, agli istituti di credito è convenuto più fare carry trade sui titoli di Stato di Spagna e Italia piuttosto che erogare risorse all’economia reale. D’altronde, non ci voleva un premio Nobel per capire che sarebbe finita così: con prestiti triennali in favore delle banche da rimborsare all’1% per un controvalore di 1.040 miliardi di euro, di cui 290 in favore degli istituti italiani, la tentazione di far soldi con titoli che rendevano il 5% era tanta. Così come la moral suasion da parte dei governi affinché questo accadesse, in modo che le aste risultassero un successo e lo spread restasse placido ai minimi. Il problema è: questa mancanza di liquidità ha penalizzato aziende industrialmente sane, i cui debiti solo oggi sono finiti nella categoria dei “non performing loans”? Insomma, la Bce ha involontariamente aggravato la crisi dell’economia reale con la sua scelta di politica di stimolo?

C’è da dire una cosa: senza quelle due aste Ltro la Spagna sarebbe fallita e noi saremmo finiti sotto commissariamento diretto della troika, con qualche istituto di credito già nazionalizzato o salvato. Stando ai risultati di una simulazione di Morgan Stanley pubblicati da Il Sole 24 Ore, fare carry trade tra dicembre 2011 e febbraio 2012 sui bond italiani a 5 anni (che rendevano in media il 5,5%) offriva un utile netto dell’1,9% e un Roe (Return on equity) del 95%. Considerando invece la media dei rendimenti dei bond italiani tra febbraio e marzo (3,42%) il Roe si è attestato al 40%. Ai tassi attuali (2,79%) il Roe è ulteriormente diminuito, ma è ancora in vantaggio (21% carry trade, 6% quello derivante da un prestito alle piccole medie imprese). Discorso analogo per il carry trade sui titoli spagnoli: anche in questo caso il Roe è crollato (63% in primavera, oggi 22%) per via del calo dei rendimenti, ma resta superiore a quello generato da un prestito nell’economia reale (8%).

 

(1- continua)