La parola non è stata pronunciata, ma con alcuni giri di parole si è palesata di fronte agli occhi di tutti, tanto da far crollare l’euro/dollaro di 120 pips in un nanosecondo: deflazione. Ovvero, assenza di crescita e inflazione alta. Un incubo. Al termine del board della Bce, Mario Draghi, si è presentato di fronte ai giornalisti e ha snocciolato cifre: resta invariato allo 0,75% il tasso di rifinanziamento pronti contro termine, mentre il tasso sui depositi e il tasso marginale rimangono rispettivamente a quota zero e 1,50%. Poi, le questioni più stringenti. Per Draghi «l’inflazione è sotto il 2% nei prossimi mesi e la nostra politica resta accomodante», ma parlando di guerra delle valute e super-euro il governatore ha detto che l’attuale cambio è vicino alla media di lungo periodo: «L’apprezzamento dell’euro è in una certa misura il segno di un ritorno di fiducia. Tuttavia, la Bce monitorerà attentamente il suo impatto sull’inflazione».
Per quanto riguarda la ripresa, la debolezza economica dell’Eurozona «proseguirà nella prima parte del 2013, poi più tardi, grazie anche alla politica monetaria accomodante, dovrebbe iniziare un graduale miglioramento dell’economia. I governi, però, continuino le riforme per la crescita». Ed ecco palesarsi lo spettro: rischi inflattivi, anche per l’euro forte e ripresa quasi nulla, uguale deflazione. Infine, un cenno al mercato interbancario: per Draghi, «le banche coinvolte nella prima iniezione di liquidità della Bce (Ltro) hanno già ripagato 140,6 miliardi, una scelta che è a discrezione degli istituti e che quindi riflette un miglioramento della fiducia del settore finanziario».
E questo, a mio avviso, è il tema più interessante di tutti quelli toccati da Draghi. Si stanno infatti creando le condizioni per una nuova crisi di liquidità nel sistema finanziario europeo? O, peggio, in caso questa occorra, le banche saranno costrette a battere cassa nuovamente alla Bce, nonostante l’iniezione da un triliardo di euro garantita con le due operazioni di finanziamento a lungo termine Ltro? Proprio i dati sui due primi venerdì di repayment di quel prestito all’1% per tre anni, infatti, hanno mandato segnali decisamente discordanti che Draghi non ha voluto però sviscerare, limitandosi a un cauto ottimismo.
Due venerdì fa le banche europee hanno infatti ridato alla Bce ben 137 miliardi, mentre sei giorni fa soltanto 3 miliardi. Al netto che restino da ripagare 878 di miliardi nella finestra triennale di prestito e che gli analisti si attendano un aumento degli esborsi nel corso del mese di febbraio, appare complicato districarsi tra i segnali inviati al mercato da queste due prime scadenze. La prima pareva infatti un chiaro sintomo di ritrovata salute da parte del sistema bancario, mentre la seconda ha lasciato interdetti gli osservatori, i quali hanno cominciato a sviscerare dati e precedenti, giungendo come prima conclusione al fatto che il contante in eccesso nel sistema finanziario europeo sia ormai in linea con le operazioni di riduzione sull’open market. Certo, i 3 miliardi della scorsa settimana potrebbero essere figli di una sopraggiunta cautela, ovvero il fatto che le banche – godendo di una finestra lunga per il repayment – stiano bilanciando con attenzione costi e benefici del finanziamento sul mercato attraverso emissioni obbligazionarie rispetto a quelli garantiti dalla Bce.
Altro segnale di dubbia interpretazione è quello giunto dalle banche spagnole, le quali a gennaio hanno ripagato 41 miliardi di euro, un terzo del take-up iniziale, grazie soprattutto a Santander e Bbva (32 miliardi), le cui condizioni di finanziamento paiono migliorate nettamente, mentre altre banche iberiche hanno ridato a Francoforte 9 miliardi, il 12% del take-up. C’è però chi vede in questa scelta un qualcosa di rischioso, giocata in chiave di diluizione dei guadagni e destinata a vedere il resto della cifra incamerata dalla Bce restare nei bilanci per un po’.
E se le banche di alcuni paesi core come Commerzbank e Kbc hanno già ripagato interamente quanto preso in prestito (tra l’altro un ammontare molto limitato), molti analisti pensano che le banche dei paesi cosiddetti periferici sfrutteranno i conti del quarto trimestre del 2012 per allungare i tempi del loro repayment con la Bce, un segnale che i mercati potrebbe interpretare sia come resistenza, sia come difficoltà nel funding e che potrebbe, nel medio termine, fungere da elemento grippante per il mai resuscitato mercato interbancario, innescando in questo momento una nuova, possibile crisi di liquidità. Tanto più che la Bce è già alle prese con l’aumento del tasso Eonia, ovvero il tasso cui fanno riferimento le operazioni a brevissima scadenza e che è anche utilizzato come riferimento per diversi strumenti derivati, figlio legittimo proprio delle attività di rimborso da parte delle banche del prestito Ltro.
Cosa farà Draghi per contrastare questo aumento? Il sentiment generale è che non agirà in maniera troppo aggressiva, ma qualcuno punta il dito sull’errore compiuto dopo il primo Ltro, quello a un anno scaduto nel 2010, quando si ritenne l’aumento del tasso unicamente un sintomo di miglioramento dello stato di salute delle banche. Tanto più che la situazione appare nettamente connessa con quella degli spread sovrani dell’area euro periferica, il cui rischio di correzione dei corsi dopo il rally innescato dal firewall garantito dalla Bce appare crescente per due motivi. Primo, appunto l’aumento dei costi di finanziamento legato ai repayments verso la Bce, stante i 137 miliardi del primo venerdì che hanno innescato una crescita dei tassi sul money market e su quelli delle scadenze core a breve. Un qualcosa che riduce la possibilità di carry e l’attrattività stessa di detenzione di titoli periferici rispetto al Bund, stante anche gli aumenti dei rendimenti di quest’ultimo.
Secondo, la fine della finestra di allentamento garantito dalla Bce in un contesto di ripresa ancora fragile, un qualcosa che se segnalato e prezzato dai mercati potrebbe portare a un rapido e netto aumento dei costi di finanziamento per le banche, come già segnalato da un movimento in tal senso del Monetary Trasmission Index della Spagna. Insomma, la Bce deve agire senza fare troppo rumore, perché la percezione che le armi in suo possesso in sostegno del sistema bancario siano terminate, potrebbe innescare nuovamente una crisi di fiducia, destinata a diventare presto di liquidità. Sta tutta qui la battaglia di primavera della Bce, una battaglia di fondamentale importanza poiché questi mesi di calma apparente, a mio avviso, sono da considerarsi i più pericolosi di tutti quelli che abbiamo vissuto finora.
P.S.: Et voilà, ci avevo visto lungo fin dall’inizio. Il bersaglio dello scandalo Mps è Mario Draghi, l’intento molto chiaro: destabilizzare la Bce in un momento delicatissimo di ripresa fragile e incertezza finanziaria ancora altissima, stante il rischio di un ritorno della febbre sugli spread sovrani periferici. Ci ha pensato ieri il Wall Street Journal di Rupert Murdoch ha lanciare il siluro, mentre tutti giocavano a freccette: Monte dei Paschi di Siena era così a corto di soldi alla fine del 2011 che ha negoziato un prestito segreto di quasi 2 miliardi di euro da parte della Banca d’Italia. La Banca d’Italia decise di sottoscrivere il prestito a ottobre 2011 perché Mps, la terza banca del Paese, era a corto di liquidità e aveva in gran parte esaurito le sue possibilità di impegni con la Bce, secondo fonti anonime della Banca d’Italia che giocano a fare la “gola profonda” del WSJ, non rendendosi conto che così non solo tradisce il Paese ma si rischia di creare le condizioni per la terza crisi dell’eurozona, questa volta molto probabilmente fatale. Per il WSJ, né Bankitalia, né Monte dei Paschi divulgarono allora la notizia del prestito, per la preoccupazione che rendendola nota avrebbero creato panico sui mercati finanziari, hanno detto persone vicine alla vicenda. Al contrario, in una conference call con analisti e investitori, i vertici di Mps descrissero la posizione di liquidità della banca come solida, perché l’istituto aveva coperto le necessità di rifinanziamento anche per il 2012.
Sapete cosa vi dico? Che se così è stato Mario Draghi ha fatto non bene ma benissimo, le banche non si lasciano fallire nemmeno se piene di immondizia: si cacciano i manager, si cerca di ripulire i bilanci, si creano bad bank come hanno fatto quei damerini tutto rigore dei tedeschi o gli spagnoli o i britannici con Rbs e Lloyds Tsb (taccio per carità di patria le porcherie assortite che ci ha propinato negli ultimi cinque anni la Fed), ma non le si fa fallire o non le si tramuta in prede per l’avvoltoio estero di turno. Guardate che ciò che avrebbe fatto Draghi lo hanno fatto – in maniera coperta o scoperta – tutti i banchieri centrali del mondo e anche gran parte dei governi: il WSJ e gli Usa, poi, devono soltanto tacere, con tutto quello che hanno combinato del 2008 a oggi.