Ieri ilsussidiario.net ne ha già parlato, ma ritengo sia necessario ribadire il concetto, vista la gravità dell’accaduto e le sue ripercussioni sul sistema Italia. Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti: è quanto emerge da un report di Standard & Poor’s in cui si prevede un sempre maggior ricorso alle emissioni obbligazionarie da parte del nostro tessuto produttivo per far fronte alla stretta creditizia. Attualmente, rileva l’agenzia di rating, le imprese italiane attingono il 92% del loro fabbisogno finanziario di breve e lungo termine dalle banche, ma «questa provvista sta diventando meno disponibile in quanto le banche italiane hanno avviato un percorso di riduzione della leva finanziaria». Questo fenomeno, «insieme all’allentamento della legislazione d’impresa e fiscale per le medie imprese che è stata introdotta in Italia, probabilmente incoraggerà l’emissione di più obbligazioni». Già lo scorso anno le imprese italiane hanno emesso un ammontare netto di 20 miliardi di euro di bond colmando, peraltro solo in parte, il taglio dei finanziamenti del sistema bancario.

Secondo S&P’s, in uno scenario di «crescita zero» in cui le imprese emettano bond solo per rifinanziare il debito esistente, la percentuale di obbligazioni sul totale dei finanziamenti potrebbe salire all’11%-14% nei prossimi cinque anni. In presenza di una ripresa della crescita economica, il funding attraverso bond potrebbe arrivare fino al 14%-17%, sostenuto dalla crescita degli investimenti fissi. L’agenzia americana ritiene che «un più ampio ricorso al mercato dei bond possa aiutare a migliorare la struttura di capitale delle imprese italiane e ridurre i rischi di rifinanziamento, perché potrebbe allungare le scadenze del debito e diversificare la base degli investitori».

Tuttavia, la sostituzione del debito bancario con quello obbligazionario sarà un processo «lungo e arduo» a causa dello «scarso interesse» da parte degli investitori istituzionali italiani per le emissioni delle medie imprese (in media l’80% delle obbligazioni sono state sottoscritte da investitori esteri) e «dell’assenza di un mercato sviluppato del private placement». Così, in mancanza di una ripresa nell’economia italiana alla fine del 2013, Standard & Poor’s ritiene di poter abbassare ulteriormente i rating delle aziende italiane da essa valutate, in quanto l’indebolimento della loro performance operativa sta pesando sulla qualità del loro credito.

Negli scorsi 15 mesi, i downgrade di compagnie italiane effettuati sono stati più del doppio dei miglioramenti del rating. Insomma, un quadro a tinte non fosche ma patibolari. A cui va a unirsi un altro, problematico aggravio. Francia e Italia, infatti, stanno lottando in sede europea contro il piano della Bce, da molti definito ambizioso, di far condurre delle due diligence esterne sui bilanci di 140 banche europee, rappresentanti l’80% degli asset bancari del continente. Due le finalità: capire quali bilanci bancari non permettono i prestiti e perché e assicurare un chiarimento rispetto alle perdite per azionisti e depositari in caso di salvataggi con fondi statali. Insomma, a occhio e croce la Bce sta facendo capire che nutre più di un dubbio sulla bontà dei bilanci presentati dalle principali banche europee. Il piano sarebbe decisamente in stato avanzato, visto che i risultati si attenderebbero per l’inizio del prossimo anno.

Ora, cosa io pensi delle banche e del loro comportamento – nella maggior parte dei casi – è noto, ma questa faccenda degli auditors esterni mi puzza e allora ho voluto chiedere un parere al mio banchiere popolare di riferimento, uno per il quale fare banca significa ancora gestire il risparmio ed erogare credito, non fare speculazione a leva. Ecco cosa mi ha risposto: «Speriamo di non morire asfissiati tra stress test Eba e due diligence Bce! La situazione è ben strana: la Bce per assumere la vigilanza sulle banche, vuole che i conti siano verificati. Ma fino a oggi le vigilanze nazionali cosa hanno fatto? È il solito problema “strategico”: come faccio a pararmi al meglio da ogni responsabilità? Gioco inutile, tanto nessuno mai è chiamato poi a rispondere di errori gravi (vedi il Fmi sul caso Grecia: lacrime di coccodrillo dopo aver affamato milioni di persone). Ma è un gioco pericoloso e costoso. Non bastano i limiti folli dati da Basilea3, adesso ci aggiungiamo un bello scenario da superstress, così sotto a ricapitalizzare (o meglio, nazionalizzare) le banche, con tanti saluti alla democrazia economica. La Germania comunque è a posto: avendo messo il limite per il totale attivo a 30 miliardi di euro per il passaggio della vigilanza alla Bce, le sue banche regionali sono ben al riparo da questo gioco al massacro!».

Capite perché quando ho un dubbio mi rivolgo a lui? Ma lui è un banchiere popolare, del territorio, dell’ultimo miglio: come fare però per sbloccare gli incagli del grande sistema bancario denunciati da Standard&Poor’s e che stanno condannando a morte migliaia di piccole e medie imprese? Ho chiamato un amico a Londra e lui mi ha indirizzato a un suo conoscente, Peter Walsh, che lavora per MatchCapital, un’azienda che si occupa di reperire finanziamenti per piccole e medie imprese al di fuori del sistema bancario. Bene, la chiacchierata con Peter mi ha aperto un mondo.

Prima di entrare nel merito di come funzioni questo funding alternativo, vi invito a fare ciò che ho fatto anch’io: andate sul sito www.startupbritain.org e cliccate il pulsante “push me” che appare sulla schermata iniziale. Uscirà il numero di start up nate e registrate presso la Companies House britannica da inizio anno, aggiornato ogni giorno: quando ieri pomeriggio l’ho fatto, eravamo a quota 227.682. E siamo a inizio giugno. Certo, direte voi, quante sopravviveranno al tempo? Magari meno della metà, ma sono sempre grandi numeri e nel frattempo si creano posti di lavoro.

Il perché di questo fiorire è semplice: in Gran Bretagna è facile trovare capitale privato per dar vita a un’impresa, bypassando il canale bancario. È il Bengodi delle cosiddette Sme (Small medium enterprises), le nostre Pmi. Bene, MatchCapital dove lavora Peter Walsh fa questo, intercetta e canalizza il potenziale investitore privato per piccole imprese, garantendo a queste ultime il cosiddetto “maximum investor audience”, ovvero l’ampliamento della platea dei partecipanti potenzialmente interessati al finanziamento di quel business specifico. Inoltre, in Gran Bretagna lo Stato è davvero business friendly, visto che esistono due schemi particolari per finanziare le Pmi attraverso i privati, il Seed Enterprise Investment Scheme e l’Enterprise Investment Scheme. Diversi, ma accomunati da un particolare di non poco conto: prevedono generose deduzioni fiscali per gli investitori privati nel settore equities.

Il Seis si basa sul concetto di crowd-funding, ovvero attraverso piattaforme on-line che mettono “in vetrina” la tua idea di start up e permettono al privato che ci crede di investirci del denaro direttamente tramite il sito, attraverso una sorta di asta. In Gran Bretagna sono già una grande realtà e presto saranno la rivoluzione nel mercato delle start up statunitensi, quando il governo darà il via libera definitivo al nuovo Jobs Act. Ci sono tre tipi di modello nel crowd-funding: All or Nothing (AoN), ovvero se l’obiettivo del finanziamento della start up è raggiunto l’imprenditore prende i soldi; se non è raggiunto, niente. C’è poi il Keep it All (KiA), ovvero, sia che l’obiettivo di finanziamento vada o no a buon fine, l’imprenditore si prende i soldi raccolti meno la commissione per la piattaforma. Toccherà poi a lui decidere se rifondere il denaro ai contributori se i progetti che ha messo in cantiere non saranno resi possibili dal finanziamento insufficiente. C’è poi il Bounty, che prevede come i fondi raccolti vadano a chiunque riesca a completare il progetto (un po’ come i bounty killer del West, qui ci sono bounty-imprenditori che si inseriscono e provano a portare a termine il progetto altrui).

Il crowd-funding si può utilizzare sia per racimolare capitale (equity) che per prestare denaro e coinvolge un amplissimo numero di piccoli investitori e finanziatori. Ci sono poi le aziende come MatchCapital che non sono una piattaforma di crowd-funding ma un team di esperti con anni di lavoro nella City che per aiutare le Pmi che si rivolgono a loro contattano e propongono l’investimento a banche private, fondi di venture capital, piccole aziende di private equity e i cosiddetti Ultra High New Worth Individuals, ovvero i nuovi privati miliardari con il fiuto e il pallino per gli investimenti e gli affari (magnati russi, arabi, qualche outsider).

Provare a pensarci anche in Italia, magari partendo da quei due schemi governativi che invogliano i privati a investire e aiutano i piccoli imprenditori e lavorare e prosperare? Pensiamoci, perché di solo settore bancario le Pmi non possono più campare – a oggi dipendono da quel canale di finanziamento per quasi il 90% – e non tutti possono permettersi emissioni obbligazionarie. Anzi, ben pochi di quelli che in questi giorni stanno facendo i conti con la prospettiva del fallimento.