Penso che uno dei motivi del successo di cui gode ilsussidiario.net sia il fatto di non rincorrere le notizie, ma di andarle a cercare e poi seguirle, fino a quando questo percorso non assume un nesso chiaro che diventi elemento qualificante per decodificare la realtà sempre più complessa che ci contorna. Per questo, a distanza di una settimana esatta, torno a parlare del caro-petrolio, argomento assurto all’onore delle cronache giusto il tempo per raccogliere la rabbia di chi si trovava a fare il pieno prima di partire per le vacanze e poi subito abbandonato. Bene, ci sono delle novità. La prima, il prezzo del WTI sta scendendo, per ora di poco sotto la soglia dei 110 dollari al barile, ma il rischio di una correzione al ribasso molto netta è nelle cifre: peccato che non ne godrete a livello di approvvigionamento dal benzinaio. Secondo, gli Stati Uniti si affrancano sempre di più dalla dipendenza del petrolio estero, almeno stando ai dati che vedono l’import ormai alla quota fissa di 7,5 milioni di barili al giorno, il dato più basso dal 2000 e tre milioni in meno della media del 2006.

Un dato che fa sensazione, poiché quei tre milioni in meno al giorno moltiplicati per sette ci danno 21 milioni di barili in meno alla settimana di petrolio importato in soli sette anni. Eppure il prezzo del WTI resta più o meno in area 110 dollari al barile, nonostante il rallentamento dell’economia cinese e il contemporaneo boom dell’energia ricavata dallo scisto negli Stati Uniti. La risposta a questa discrasia è una sola, speculazione, e a confermarlo è non solo il minimo premio pagato venerdì scorso dal WTI, il benchmark statunitense, sul Brent, ma anche i timori di molti analisti rispetto a una possibile, brusca correzione. Addirittura un flash crash sul mercato dei futures, stante la disconnessione del prezzo dal fondamentali, la massa di scommesse rialziste operate da grandi banche e la possibile fluttuazione che i dati macro attesi questa settimana da Usa e Cina potrebbero innescare.

Per Thomas MacMahon, direttore della Pan Asia Clearing Enterprise ed ex amministratore delegato del Singapore Mercantile Exchange, «ogni commodity con un valore fondamentale può essere soggetta a correzioni molto nette», tanto che un sondaggio condotto da Cnbc vede 15 analisti su 30 convinti di un’inversione dei corsi già questa settimana, mentre 11 restano bullish rispetto al prezzo del WTI. A far temere un flash crash è il possibile impazzimento, in caso di correzione netta e inattesa, degli algoritmi che governano il trading ad alta frequenza, i quali potrebbero portare a un significativo calo dei prezzi in un arco di tempo molto breve. Per Warren Gilman, presidente della CEF Holdings, «applicando la scenario del flash crash azionario al mercato del petrolio, potremmo tranquillamente ritrovarci con un calo di 10 dollari al barile nell’arco di un solo giorno. La volatilità in tutti i mercati è cresciuta negli ultimi anni, divenendo di fatto la norma quando capitano cambiamenti di direzione dei mercati».

Qualcuno esclude ipotesi così estreme, ma comunque ammette che il WTI è eccessivamente attivo sul mercato futures: un trend che non può proseguire molto in assenza del supporto dei fondamentali. Tanto più che la CFTC, l’ente statunitense che regola il mercato delle commodities, proprio sul finire della scorsa settimana ha certificato che le scommesse al rialzo sul prezzo del petrolio sono ai massimi da sempre (il record è stato toccato il 16 luglio), segnale che potrebbe anticipare una correzione in tempi brevi. Insomma, una messe tale di scommesse rende il mercato petrolifero molto vulnerabile a possibili corse alla liquidazione di quelle posizioni, scenario che potrebbe essere innescato sia da dati macro che da un rafforzamento del dollaro (e mercoledì gli Usa hanno vissuto l’incubo di Borsa debole, spread sui Treasuries in rialzo e dollaro che si apprezzava sull’euro). Accadde lo stesso lo scorso 17 settembre, quando l’eccesso di posizioni long anticipò il flash crash che vide il Brent calare di 5 dollari al barile in un’ondata di vendite che lasciò senza parole anche i traders più esperti.

E che il mercato del petrolio sia sempre più terreno di caccia per la speculazione lo ha confermato lunedì la condanna comminata sia dalla CFTC statunitense che dalla FCA britannica contro Michael Coscia, fondatore e proprietario della Panther Energy Trading, per manipolazione del mercato, proprio alla vigilia dell’audizione al Senato Usa riguardo la possibilità per le banche d’affari di operare sul mercato delle commodities (esemplificativo il nome dell’incontro, “Examining Financial Holding Companies: Should Banks Control Power Plants, Warehouses, and Oil Refineries?”). Coscia, utilizzando un algoritmo ad alta frequenza, eseguiva una serie di grossi ordini di acquisto e vendita al fine di far abbassare il prezzo di gas e petrolio, per poi rivendere le commodities traendo profitto dall’aumento del loro valore sul mercato. Nello spazio di un secondo, Coscia si vedeva garantiti migliaia e miglia di dollari frutto unicamente di manipolazione del mercato: in sei settimane, ottenne un profitto di 217mila dollari dal trading sul Brent e 71mila da quello sul WTI, almeno stando a quanto potuto ricostruire dalla FCA.

Direte voi, niente che faccia crollare il mercato o possa pilotarne i movimenti. Certo, ma quanti Coscia ci sono al mondo? E quante banche d’affari, i cui movimenti sui futures da soli valgono le manipolazioni di 10mila Coscia messi insieme? Inoltre, c’è anche un altro segnale che parla la lingua della speculazione pura e semplice, confermatomi da un operatore del settore a Londra. Ovvero, il fatto che l’indice di Borsa egiziano, EGX 30, sia in rally, sintomo che chi investe non teme un peggioramento della situazione nel Paese e anzi resta per sfruttare i rialzi dovuti all’entusiasmo per una transizione rapida e la meno cruenta possibile. Insomma, nessun timore per il Canale di Suez che giustifichi il petrolio a quei livelli. Anzi.

E cosa fanno in un mercato simile gli operatori? Si chiama SAR, acronimo di stop and reverse trade, cioè si opera ponendo come stop loss alla posizione il massimo del giorno precedente, in modo da evitare bagni di sangue in caso di crollo improvviso e soprattutto utilizzando quel numeratore come benchmark di posizione: se si chiude la giornata di trading troppo vicino alla count back line, è ora di uscire dal gioco. Questa tattica si utilizza per trading sul Nymex Oil e permette di far chiudere posizioni long e contemporaneamente aprirne una short, utilizzando i nuovi massimi e minimi come punti di calcolo, come riferimenti. Quando si opera così è solo per un motivo: si sa che il rally è artificiale, gonfiato e quindi si sale in giostra ma con accorgimenti che permettano non solo di non farsi male, ma, anzi, di poter guadagnare da un’inversione dei corsi dei prezzi.

Lo so, sembra fantascienza, ma quando la prossima volta andate dal benzinaio, pensate che il salasso che state per subire è per la gran parte dovuto a questi giochini. Al mondo, solo il 3% delle posizioni futures sul petrolio prevedono la consegna fisica della commodity: il resto è speculazione pura. Che fare? Imporre l’obbligo di consegna del bene o vietare alle banche d’affari di trattare future su commodity energetiche e alimentari, i metalli preziosi sono altra cosa, lì è un vero e proprio schema Ponzi globale delle banche centrali per il leasing (a proposito, fossi in Enrico Letta chiederei al Tesoro di fare una bella verifica del nostro oro alla Fed, esattamente come ha fatto la Bundesbank).

Qualcuno con le chiavi del potere in mano proporrà mai questa rivoluzione? Se vuole fare la fine di Mattei, lo faccia. È triste dirlo, ma fino a quando la situazione non sfuggirà di mano pesantemente, certi interessi non possono essere toccati. Qui, nel frattempo, spacchiamo il capello in quattro per il cosiddetto caso kazako, con la Bonino che stranamente ritrova la favella e bombarda in tandem con Repubblica, Governo e Quirinale. Mah…