Accidenti, da dove cominciare? C’è l’imbarazzo della scelta tra le varie sciagure che l’eurozona ci ha proposto nelle ultime 48 ore! Cominciamo, per ritualità e protocollo istituzionale, da Mario Draghi, il quale al termine del board della Bce – che ha deciso di mantenere i tassi al minimo dello 0,50% – ha tenuto la consueta conferenza stampa, ribadendo quanto segue: «I tassi resteranno ai livelli attuali o a un livello più basso per un periodo di tempo esteso: un periodo prolungato non è sei o dodici mesi». E ancora: «Ci sono molte ragioni per un calo dei tassi e altrettante per non ridurli. I recenti dati sulle indagini hanno mostrato alcuni ulteriori miglioramenti rispetto ai bassi livelli toccati dall’economia dell’area euro e la linea accomodante della Bce dovrebbe contribuire a supportare prospettive di ripresa più avanti nell’anno, con le pressioni sui prezzi che resteranno basse a medio termine, anche se soggette a volatilità. La nostra uscita dalle misure non convenzionali resta lontana, comunque la Bce ha una mente aperta».



Insomma, Draghi ha ripetuto per centesima volta la medesima manfrina, evitando accuratamente di parlare di eventuali acquisti di bond sul mercato secondario o interventi di emergenza: detto fatto, come tanti bravi cani di Pavlov, Borse e spread hanno festeggiato come fosse Capodanno. Ma banalità a parte, veniamo agli atti pratici, al sangue e alla carne della crisi. Ieri la Spagna ha assegnato tutti i 4 miliardi di euro di titoli di Stato a 3 e 5 anni, ma ha dovuto pagare tassi più alti. Il rendimento medio sulla scadenza 2016 è salito al 2,875% dal 2,706% dell’asta di giugno e il tasso sui titoli 2018 è aumentato al 3,792% dal 3,592% precedente. Niente di che, ma sufficiente a far aumentare ancora un po’ gli spread, sia iberico che italiano, nei confronti del Bund: il primo in area 315, il secondo 300, fino alla morfina di Draghi.



Per una volta, però, la Spagna non paga pegno soltanto per colpe sue, ma per una situazione generale esogena: l’aumento dei tassi generalizzato imposto dalla Fed e la situazione portoghese, Paese cui Madrid è pesantemente esposto. Mercoledì, infatti, Lisbona ha spaventato i mercati e rimesso proprio lo spread al centro del dibattito europeo. Le dimissioni del ministro degli Esteri portoghese, Paulo Portas, a capo del partito di minoranza della coalizione di governo, hanno gettato il Paese in una crisi politica che ha immediatamente aperto sui mercati gli scenari di un voto anticipato e di un rallentamento – se non di uno stop – al programma di salvataggio da 78 miliardi di Ue e troika, a causa anche delle dimissioni del ministro delle Finanze, Vitor Gaspar. «Preoccupato» del rinfocolarsi della crisi lusitana anche il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che però si è detto fiducioso circa una stabilizzazione della situazione e una conferma da parte del Paese degli impegni presi.



Il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, ha fatto appello a un grande senso di responsabilità da parte di tutte le forze politiche e leader, invitando i partiti portoghesi a trovare una rapida soluzione alla crisi politica al fine di non precludere il termine del programma concordato con i finanziatori internazionali. E qui gli esperti si dividono. A detta degli analisti di Bank of America-Merrill Lynch, «per superare con successo il programma è necessario decidere tra un altro programma completo e una linea di credito precauzionale, molto probabilmente di tipo “enhanced conditions credit line” a difficili condizioni. Ma non saremmo sorpresi se i partner europei, per evitare di dover avere a che fare con problemi di sostenibilità del debito nel breve periodo, cercassero di andare verso l’opzione più morbida». Per Barclays, invece, «lo scenario che vediamo più probabile è quello di elezioni anticipate. L’impatto di mercato di questa crisi politica potrebbe essere molto significativo per il Portogallo, anche se questo potrebbe non tramutarsi automaticamente in un evento critico per il resto dell’area euro. Certamente, la decisione di Portas ha innescato un sell-off obbligazionario che potrebbe proseguire».

E in effetti, mercoledì alla Borsa di Stoccarda, dove si trattano bond e derivati, i titoli lusitani erano in svendita, con ribassi per certe scadenze anche oltre il 10%. Chi cerca di offrire un po’ di ottimismo è Bob Parker di Credit Suisse, a detta del quale «la situazione portoghese non è paragonabile a quella greca, visto che qui il programma di privatizzazioni è stato un successo e il governo terrà». In effetti, il Portogallo ha già raggiunto i due terzi del 10% di target di consolidamento fiscale richiesto dai creditori, ma il contemporaneo ritorno nel mirino della Grecia rischia di porre i mercati in modalità “tutta l’erba, un fascio”. E, forse, con qualche ragione. In base allo scenario ottimistico della troika, il debito portoghese dovrebbe toccare il picco del 124% del Pil nel 2014, ma ogni minimo ritardo nell’applicazione del piano di riforme potrebbe mandarlo fuori giri e farlo salire molto di più e molto rapidamente, stante anche la crescita sempre più stagnante. Di più, soltanto un mese fa – un mese, non un anno – si parlava di ritorno pieno del Portogallo sui mercati del finanziamento prima del previsto, ovvero prima della primavera 2014, target per l’uscita dal programma di salvataggio: l’altro giorno il decennale pagava l’8% di rendimento, andando così sui mercati Lisbona fallisce prima dell’inizio del campionato di calcio.

Qualche cifra ancora. Negli ultimi due anni, il governo portoghese ha basato le sue politiche di deficit su misure una tantum: nel 2011 il loro valore era pari al 3% del Pil (permettendo al deficit di scendere dal 7,4% al 4,4% del Pil), mentre nel 2012 soltanto dell’1,7%, portando il valore del deficit dal 6,4% al 4,7% del Pil. Nel primo trimestre di quest’anno, siamo già al 7,1% del Pil, con la sola voce del deficit al 10,6%. Il tutto, con le previsioni sul deficit per quest’anno già riviste al rialzo del 5,5%. Insomma, mission impossible. Punto. Inoltre, con la domanda interna crollata al pari della spesa pubblica, l’export dovrebbe performare a livello cinese – dei tempi d’oro – per riuscire a pareggiare i conti. Il gap di competitività tra Portogallo e Germania, costo per unità lavorativa, continua ad ampliarsi, dopo una traiettoria di avvicinamento, a causa del no della Corte costituzionale lusitana a ulteriori misure di svalutazione interna, ovvero interventi ancora punitivi sui salari.

Inoltre, in Portogallo le liabilities di aziende a controllo statale pesano per il 9% del Pil e non sono contabilizzate nei livelli di debito ufficiale, oltretutto con il forte rischio che alcune di esse debbano chiedere aiuto allo Stato per non fallire del tutto: per il Fmi le liabilities contingenti totali sono al 15% del Pil. Quindi, facendola breve, il Portogallo non avrebbe bisogno di maggiori sforzi, maggiore austerity, bensì di altri soldi: già vedo la testolina della Merkel mimare il gesto del “nein”. E se per caso lo spread andasse fuori controllo? Beh, direte voi, c’è sempre il bazooka della Bce, l’Omt. Peccato che né Portogallo, né Irlanda siano eligibili, visto che lo stesso Draghi ha detto chiaro e tondo che per utilizzarlo occorre che il Paese in questione abbia «pieno accesso ai mercati, visto che il fondo non è un sostituto». Quindi, Italia e Spagna sì: Lisbona no.

E, infatti, nonostante il miele che giungeva da Francoforte, ieri il rendimento del decennale lusitano è salito di 14 punti base al 7,60%, quello del biennale addirittura di 60 al 5,66%, il livello più alto dal 20 novembre scorso. Ad aggravare il tutto poi, come anticipato, la spada di Damocle della Grecia che incombe, visto che Atene potrebbe rimanere per tre mesi senza aiuti se non convincerà i creditori internazionali di essere sui binari giusti per portare a termine le riforme: si tratta di 8,1 miliardi di euro vitali per la sopravvivenza dello Stato e la risposta dovrà essere fornita entro oggi. Il problema è che, nonostante la acrobazie e le riunioni fiume presiedute dal ministro delle Finanze, Yannis Stournaras, il premier Samaras non solo ha escluso ulteriori tagli, ma sta tentando di abbassare il target di introiti prefissato per le privatizzazioni, dopo il flop dell’ente nazionale del gas. Inoltre, è emerso un buco da 1 miliardo nel fondo assicurativo della sanità pubblica, cifra che i creditori vorranno vedere coperta o garantita prima di qualsiasi via libera.

Detto fatto, ieri quei cervelloni di Bruxelles si sono resi conto che stiamo di fronte a un altro precipizio e hanno convocato in fretta e furia un Eurogruppo – penso sia il 9374mo – sulla Grecia per lunedì. E, nonostante gli andamenti di vendita alla Borsa di Stoccarda, le banche hanno sì scaricato un po’ di meraviglioso e sanissimo debito greco, ma convocare una riunione urgente per qualcosa che si conosce da mesi significa che qualcuno ha la testa nella ghigliottina: non so voi, ma io sento puzza di operazione d’emergenza in stile Cipro. Vi basta? A me no. Nonostante il poco clamore che la riguardi, poi, anche un’altra grande malata che si pensava risanata è tornata ufficialmente in recessione, l’Irlanda.

In base ai dati pubblicati il 27 giugno, il Pil dell’ex “Tigre celtica” ha subito una contrazione dello 0,6% nel primo trimestre del 2013, mentre il dato del trimestre precedente è stato rivisto, segnando una flessione dello 0,2%. Il Paese, che aveva già subito un calo dell’1% del Pil nel terzo trimestre 2012, è tornato in recessione per la prima volta dal 2009, questo nonostante gli investimenti dei colossi tecnologici come Apple, Google, Ibm, il piano di salvataggio di Ue-troika e le misure di austerità introdotte dal governo di Dublino. Il risultato è frutto del calo della domanda di consumi interni, strettamente legato al tasso di disoccupazione ormai a quota 14%: le spese personali sono calate del 3% dal quarto trimestre 2012 al primo di quest’anno, mentre l’export – dinamo della ripresa post-default – è sceso del 3,2%. A

Ccidenti questi periferici come stanno messi male. Beh, non che la maestrina Germania scoppi proprio di salute. Giusto ieri l’Associazione tedesca dei costruttori di macchinari e impianti (Vdma) ha infatti tagliato le stime sulla produzione per l’anno in corso, dopo il primo calo registrato dal 2009, a causa di un inizio inaspettatamente debole. Il gruppo che rappresenta circa 3000 aziende, per lo più di medie dimensioni, ha detto tuttavia che il settore superrerà presto le sue difficoltà e tornerà a crescere nei prossimi mesi. Secondo i costruttori, la produzione di macchinari accuserà una contrazione dell’1%, quest’anno, rispetto all’aumento del 2% previsto in precedenza. No, avete capito? Si prevedeva +2% e cara grazia al Signore se il calo, in un settore fondamentale dell’economia tedesca, si ferma all’1%!

Direte voi: e l’Italia? Torniamo un attimo alla conferenza stampa di Draghi. Rispondendo alle domande dei giornalisti sulle operazioni sui derivati effettuate in passato dal Tesoro italiano, il numero uno della Bce, dopo aver ricordato come furono compiute nell’esclusivo bene del Paese, ha dichiarato: «Sono chiuse e sono state lodate dall’Eurostat e dalla Commissione Europea e non ci sono numeri da fare in quanto è stato già tutto comunicato e messo in conto». Ora, l’ultima cosa che intendo fare in vita mia è unirmi alla pletora sbaritante di moralisti e verginelle che sputano sentenze su derivati e swap senza nemmeno sapere cosa siano. Per quanto riguarda il contratto che ha fatto gridare allo scandalo il Financial Times, vedeva l’attività in derivati mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile. Insomma, qualsiasi Paese con uno stock di debito come quello italiano sarebbe irresponsabile se non avesse fatto operazioni simili, non il contrario: se si devono emettere titoli a breve termine, il rischio di aumento del tasso pagato sul debito all’atto del rinnovo di quelli in scadenza viene neutralizzato, per la parte coperta, dalla gamba a ricevere dello swap (quella a tasso variabile) e il costo effettivo viene limitato al corrispettivo tasso fisso da pagare.

C’è poi dell’altro. La quantificazione delle perdite potenziali compiuta dal Financial Times, circa 8 miliardi di euro, si basava infatti su un’elaborazione con criteri di mercato che attualizzerebbe i flussi attesi alla scadenza. Peccato che il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto mark-to-market, non sia in nessun caso assimilabile alla realizzazione di una perdita realizzata: questo avviene esclusivamente in presenza di specifiche clausole. Insomma, quelle potenziali perdite derivano unicamente dalla volontà eventuale delle banche contraenti il contratto di far valere la clausola di risoluzione anticipata unilaterale, ovvero decidere quando si vuole di chiudere il contratto facendo emergere un debito mark-to-market a carico dello Stato che non era stato contabilizzato.

Bisogna quindi vedere l’esistenza di quelle clausole, nate perché le banche si stavano rendendo conto di concedere troppi benefici iniziali allo Stato, una sorta di compensazione: più che swap, infatti, sono spesso cambiali che garantiscono di ricevere dalla banca x subito a fronte di un pagamento di x+y a una determinata data, permettendoti di abbassare lo stock subito (imbelletti i conti a breve) e spalmare il debito e, oltretutto, non contabilizzare perché si tratta di un derivato e non di un prestito. Anche in caso di volontà di recesso, si può poi rinegoziare con la banca: ovvero ti pago più soldi, ma tu non applichi la clausola e non mi costringi a liquidarti pronta cassa. Con noi finora non è andata così. È successo lo scorso anno con Morgan Stanley, più di 2 miliardi che il governo Monti ha dovuto pagare senza fiatare. Temo succederà ancora entro l’autunno. Questa estate, infatti, puzza lontano un miglio di deja vu del 2011: non essendoci Berlusconi come capro espiatorio, ci penseranno gli swap a spedirci tra le braccia della troika. Spero di sbagliarmi, altrimenti al Meeting di Rimini ci sarà parecchio di cui parlare d’Europa. 

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