Con la chiarezza che ne contraddistingue l’operato, degna di un manoscritto in sanscrito, i governatori della Federal Open Market Committee ci hanno comunicato, per la 1264ma volta, che sono divisi sulle tempistiche del “taper”, cioè della riduzione degli acquisti di bond. Le minute dell’ultima riunione del 30-31 luglio del Comitato monetario della Fed rese note mercoledì sera ci dicono infatti che alcuni membri vorrebbero che la riduzione iniziasse «presto», forse dunque già in settembre, mentre altri consigliano «pazienza» spostando l’arco temporale verso fine anno o inizio 2014. In particolare, Esther L. George, che rappresenta il distretto della Fed di Kansas City, ha votato contro il documento finale, chiedendo un «segnale più esplicito sulla riduzione degli acquisti di titoli nel breve termine», esprimendo preoccupazione su questo «approccio illimitato». In pratica, i membri del Fomc non sembrano completamente d’accordo sull’avviare a settembre il graduale ritiro degli stimoli, anche se questa ipotesi non è esclusa formalmente, poiché il documento parla di approccio concorde alla tempistica decisa da Ben Bernanke, la quale pone come termine del programma di stimolo il momento in cui il tasso di disoccupazione raggiungerà il 7%.

Parole in libertà, insomma e nessuna indicazione precisa. Tanto che ieri mattina le Borse hanno festeggiato dopo tre giorni di ribassi, segnale che la Fed non fermerà gli acquisti nel breve termine. Al massimo, li rallenterà scendendo da 85 a 70 miliardi al mese: una bella sommetta, comunque. Ma al di là di quanto riportato dalla grande stampa, è una e solo una la frase contenuta nelle minute che davvero conta. Questa: «Alcuni partecipanti hanno poi messo in evidenza che gli sviluppi finanziari occorsi durante i periodi di intermeeting potrebbero forse aver aiutato il sistema finanziario a intraprendere un cammino più sostenibile, visto che questi sviluppi erano associati con lo svelarsi di posizioni speculative insostenibili o un incremento in termini di premi da livelli straordinariamente bassi». Insomma, i membri del Fomc hanno ammesso candidamente, mettendolo nero su bianco, che la loro azione ha creato una bolla insostenibile sui mercati, esposti come non mai alla leva.

Il grafico a fondo pagina spiega la situazione meglio di mille parole: ogni volta che la Fed ha annunciato un nuovo programma di stimolo, è partito un rally in Borsa. Totalmente artificiale, però, reso possibile solo dai soldi di Bernanke e dal margin debt di cui abbiamo parlato poco tempo fa: come può la Fed uscire da questa situazione, dar vita al “taper”, senza che il mercato conosca un crollo? È semplicemente impossibile. E a pagare il prezzo più caro a questa euforia suicida, la stessa che ieri ha messo le ali ai piedi delle Borse, sarà l’Europa, la quale non può contare sulla leva monetaria delle misure di stimolo perché la Bce non ha quest’arma nel suo statuto e mandato. Ha solo dei palliativi, dei pannicelli caldi, delle scorciatoie e delle mezze vie d’uscita, ma non ha l’arma della manovra di stimolo.

Un dato di fatto appare inoppugnabile, infatti, riferendoci alla crisi dei debiti sovrani europei: la tregua garantita dal discorso di un anno di Draghi, quello della difesa dell’euro a qualsiasi costo, si basa su un bluff. Efficace, certamente, ma sempre un bluff. Il famoso programma Omt, quello che avrebbe visto la Bce comprare bond italiani e spagnoli illimitatamente per placare gli spread, nei fatti legalmente non esiste ancora. Quindi, se per caso domattina partisse un attacco speculativo sull’obbligazionario sovrano, la Bce dovrebbe inventarsi qualcos’altro, magari una terza asta Ltro per riempire di denaro le banche e far in modo che queste comprino debito, invogliate dal carry trade sul differenziale dei tassi. Finora Draghi e il suo bluff hanno funzionato, superando la crisi spagnola, quella portoghese, lo stallo post-elettorale nel nostro Paese e anche la minaccia rappresentata dalla Corte costituzionale tedesca: la promessa dell’Eurotower è stata sufficiente affinché nessuna di queste crisi degenerasse in sell-off. Anzi, ieri le Borse hanno galoppato come puledri grazie non solo alla Fed ma anche al dato dell’indice preliminare Pmi composito dell’eurozona, che comprende settore manifatturiero e quello servizi, che ad agosto è risultato pari a 51,7, sopra la stima del consenso di 50,9 e dopo il 50,5 di luglio, registrando il massimo dal giugno 2011. Ovvero, essendo sopra 50, fase di espansione dell’economia.

Ma d’altronde ieri è stata la giornata della fantasia al potere per quanto riguarda i dati macro. Il China Flash Pmi di Hsbc, infatti, ha stupito tutti: dopo aver vissuto il peggior rallentamento da un anno a questa parte in luglio, l’indice che riguarda Pechino è salito in agosto da 47,7 a 50,1, quando le attese erano di 48,2. Quindi, espansione anche per la Cina, il miglioramento mese-su-mese più marcato da tre anni a questa parte. Peccato che le vendita di scavatrici Caterpillar, anno su anno, siano crollate del 28%, sintomo che settori chiave come edilizia e infrastrutture non vanno proprio con il turbo, i nuovo ordinativi per l’export sono ai minimi e la disoccupazione cresce al ritmo più alto da anni. Miracoli della statistica. Fidatevi, questi indici sono falsi al pari delle promesse di eterna fedeltà alla maglia dei calciatori. Credete pure alla fine del tunnel, quindi, se siete in vena di ottimismo post-vacanziero, ma la realtà è che le sfide non sono affatto finite. Anzi, iniziano ora. Vediamone alcune.

La Grecia è di fatto nuovamente sull’orlo del collasso, lo dicono i numeri e l’altro giorno ha dovuto confermarlo anche il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, a detta del quale il Paese ellenico avrà bisogno di un terzo piano di salvataggio anche dopo il 2014 (l’Ue, tronfia della sua ontologica ipocrisia, ha negato, ribadendo la bontà e la sufficienza del piano attuale in scadenza il prossimo anno). L’Italia per ora beneficia degli acquisti da carry trade degli investitori giapponesi, ma ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per il governo Letta, viste le continue minacce da parte dei due principali partiti della coalizione: e l’eco di quel report di Mediobanca Securities di giugno, nel quale si prefigurava il salvataggio europeo di Roma entro sei mesi, ancora rimbomba.

La Spagna è sempre alle prese con lo scandalo corruttivo del partito di Mariano Rajoy, fatto che in giugno mise il turbo allo spread e che potrebbe riproporsi con l’arrivo dell’autunno, al netto del terzo salvataggio di Bankia che non potrà essere rimandato oltre novembre. E forse non sarà la sola ad averne bisogno. Lunedì, infatti, la Banca di Spagna ha reso noto il dato delle sofferenze bancarie nel mese di giugno, salite all’11,6% dall’11,2% di maggio, diretta conseguenza della stagnazione economica che vede privati e aziende combattere in maniera sempre più impari con i debiti da onorare. È il peggior dato da cinquant’anni a questa parte. I dati Eurostat, poi, parlano chiaro: le politiche di austerity stanno facendo esplodere le ratio debito/Pil in Italia (130%), Portogallo (127%) e Spagna (88%), per non parlare della Grecia (161%).

Da qui a fine settembre, poi, ci sono cinque appuntamenti tanto importanti quanto delicati. Il 5 settembre il governo giapponese annuncerà la fornitura di liquidità per il 2014 e lo stesso giorno è attesa la decisione della Bce sui tassi di interesse. Il 9 settembre ripartono i lavori del Congresso Usa, mentre il 18 la Fed riunisce il Comitato monetario e dovrebbe decidere, una volta per tutte, sul destino del programma di stimolo. Il 22 settembre si terranno le elezioni generali in Germania, vero spartiacque per capire quale sarà la politica europea nei confronti della crisi, dopo anni di austerity a senso unico imposta dal tandem Merkel-Schaeuble. Il 30 settembre, infine, è la deadline al Congresso per la decisione sul Budget federale, una spina nel fianco che il governo Obama deve a ogni costo eliminare se non vuole che il governo traballi pericolosamente, dopo la crisi sul caso Nsa e Snowden.

Non a caso, Paul Krake, fondatore della View From The Peak di Hong Kong, avverte: «Abbiamo di fronte a noi molti eventi a rischio nelle prossime sei settimane: il tapering, le elezioni tedesche, le decisioni di politica fiscale giapponesi: i mercati saranno incredibilmente volatili. Penso che per quanto riguarda l’indice S&P’s 500 andremo incontro a una correzione del 5%, forse qualcosa di più, ma guardando la questione in prospettiva non mi pare una tragedia. Questo perché nonostante ci sia ormai la convinzione che la Fed comprerà meno bond, comunque resta il fatto che li comprerà, magari a ritmo ridotto». Per quanto riguarda la Germania, Krake ha le idee chiare: «Quella tedesca è l’economia più importante d’Europa, ci sarà certamente una risposta positiva se la Merkel vincerà. Al contrario, se dovesse perdere, i mercati potrebbero crollare». C’è poi il Giappone, chiamato a decidere sulla cosiddetta “tassa sui consumi” da portare dal 5% all’8% in aprile del prossimo anno e al 10% a ottobre del 2015, un passo fondamentale per rimettere ordine nei conti del Paese, ma anche una mossa rischiosa per l’ancora debole traiettoria di crescita nipponica. La decisione è attesa tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, ma Krake avverte: «Se ci sarà un ritardo, questo potrebbe causare una sell-off sulle equities giapponesi e un apprezzamento dello yen, visto che quanto accaduto sarà vissuto sul mercato come uno scenario risk-off».

Detto questo, restano due le variabili davvero importanti che potranno mettere a nudo il bluff di Draghi: la liquidità giapponese e la decisione della Fed sul cosiddetto “taper”. Se infatti la Federal Reserve riterrà che l’economia Usa si sia ripresa sufficientemente e che il tasso di disoccupazione abbia raggiunto il target prefissato potrebbe non solo bloccare il programma di stimolo, ma, anzi, dar vita a una minima contrazione del credito: questo porterebbe inevitabilmente con sé un generale aumento dei rendimenti obbligazionari a livello globale. Giova ricordare, infatti, che sono stati gli acquisti di asset della Fed fin dal 2009 e i timori per l’inflazione ad aver tenuto i rendimenti a minimi record nell’ultimo periodo.

E se le aspettative sull’inflazione restano ancora una variabile, da quando i funzionari della Fed hanno cominciato a parlare di possibile rallentamento degli acquisti, i rendimenti dei Treasuries sono saliti di 100 punti base in maggio e giugno. Il 12 agosto scorso, per capirci, il Btp e il Bonos a 10 anni venivano trattati sui mercati rispettivamente a 160 e 200 punti base di spread sul decennale Usa: questo va benissimo finché il Treasury paga il 2,6%, come faceva quel giorno (già oggi è al 2,92%), ma come reagirà la Bce se il rendimento del titolo Usa salirà al 4,5%, spedendo il debito italiano e spagnolo in zona rossa di solvibilità? Come l’esperienza ci ha insegnato, passato il 7% di rendimento, i guai cominciano a farsi davvero seri e le crisi si autoalimentano a velocità doppia del normale.

 

Un segnale chiaro di quanto la Bce tema una risalita dei rendimenti statunitensi lo ha fornito, involontariamente, lo stesso Mario Draghi, quando lo scorso luglio ha reso noto che l’Eurotower lascerà i tassi al minimo per un esteso periodo di tempo: un altro bluff o la volontà reale di lasciare salire l’inflazione più del normale prima di agire sui tassi? A propendere per la prima ipotesi, paradossalmente, è stata lunedì scorso l’azionista di maggioranza della Bce, ovvero la Bundesbank, incredibilmente all’opera per sminuire la Bce di fronte ai mercati. Nel suo bollettino mensile, la Banca centrale tedesca ha infatti voluto ridimensionare la portata innovatrice della cosiddetta “forward guidance” introdotta dalla Banca centrale europea con l’anticipazione dei tassi futuri: per la Buba, «non è un impegno incondizionato e non cambia la strategia di politica monetaria». Complimenti per toni e timing. Come vi dico da giorni, ormai, titoli azionari e di Stato europei – soprattutto periferici – stanno beneficiando del cosiddetto “contrarian trade” che spinge gli investitori alla ricerca di alti rendimenti su asset con rating basso, il problema e la grande incognita stanno nel fatto che siamo soltanto alle fasi iniziali dell’uscita dall’infinito programma di stimolo Usa e gli effetti del timore generalizzato per il “taper” potrebbero colpire anche noi.

Gli eventi di questa settimana, per i paesi europei, ricordano un po’ la crisi degli Stati baltici – con deficit di conto corrente spaventosi – quando scoppiò la crisi nel 2007. Per un po’ i paesi più deboli dell’eurozona furono protetti dall’unione monetaria, ma quando si cominciò a invertire il flusso di capitale tra Nord e Sud, anche l’eurozona entrò in cortocircuito. I regimi di cambio fisso fanno questo: spacciano senso di sicurezza, quando invece possono solo garantire un po’ di respiro prima dell’inevitabile correzione. Quindi, gli scossoni di questa settimana sui mercati emergenti hanno riportato gli investitori verso le economie sviluppate, ma con un occhio particolare a chi può contare su una crescita che si autosostiene e alimenta, soprattutto dall’interno. Se il rendimento del Bund, a circa l’1,93% dall’1,2% di maggio, dovesse continuare a salire, magari avremo uno spread non stellare, ma il nostro 4,5% diverrebbe subito meno attraente per chi cerca sì profitto ma anche un bilanciamento del rischio. E basti vedere il rating di credito nostro e della Germania per capire dove si indirizzeranno gli inflows. In caso contrario, ovvero con il ritorno all’avversione per il rischio e alla ricerca di stabilità anche a basso rendimento, i Bund verrebbero comprati con il badile, mentre il nostro spread e quello spagnolo potrebbero finire in orbita. Con le conseguenze che questo comporta.

Insomma, siamo solo all’inizio del taper, il peggio potrebbe essere prezzato dopo le elezioni tedesche. C’è poi un ultimo ma fondamentale effetto collaterale del bluff di Draghi: ovvero, lo scudo della Bce ha tolto pressione ai vari governi affinché agissero su percorsi riformatori al fine di dimostrare ai mercati i progressi compiuti. E, com’era abbastanza ovvio, senza pressione addosso, i governi hanno tracheggiato, invece di riformare. Ora il conto è sul tavolo. E va saldato.