Le banche italiane, al pari di quelle francesi e spagnole, hanno ridimensionato il portafoglio di titoli di Stato a luglio, stando a dati resi noti dalla Bce. In particolare, a luglio il portafoglio di titoli di Stato delle banche italiane si è ridotto di 6,3 miliardi di euro, a fronte dell’aumento di 10,8 miliardi segnato a giugno. Il calo è più evidente in Francia, dove le vendite nette di titoli di Stato da parte delle banche sono state pari a 21,7 miliardi per uno stock che scende ai minimi da agosto 2012, mentre in Spagna il calo è stato di 5,8 miliardi, contro il +16,5 miliardi di giugno. Niente paura, le vendite sono la diretta conseguenza della necessità di imbellettare i bilanci in vista della supervisione autunnale da parte della Bce e degli stress test dell’Eba del prossimo anno. Tanto più che, al netto delle vendite, sono oltre 420 i miliardi di titoli di Stato che sono ancora nei bilanci dei nostri istituti.

Quindi, il rischio sistemico rimane, in caso tornasse l’incubo spread legato ad attacchi speculativi. Ieri si è tenuta l’asta di Btp a medio e lungo termine per 6 miliardi di euro e il risultato è stato con luci e ombre. I 3,5 miliardi con scadenza a dicembre 2018 sono stati collocati a un tasso del 3,38%, in rialzo rispetto al 3,22% dell’asta precedente e ai massimi da giugno. Mentre i 2,5 miliardi con scadenza a marzo 2024 sono stati collocati a un tasso del 4,46%, stabile rispetto all’asta precedente. Non entusiasmante la ratio bid-to-cover, rispettivamente di 1,22 e 1,52 ma visto la situazione generale dei mercati, meglio guardare il bicchiere mezzo pieno. Restano però molte incognite sul cammino del nostro Paese, prima delle quali il fatto che da qui a fine anno restano 116 i miliardi di euro da collocare sul mercato, buona parte dei quali dopo la decisione della Fed dei prossimi 17 e 17 settembre e dopo le elezioni tedesche: insomma, si naviga a vista.

Come fanno un po’ tutti, d’altronde. Il passo indietro americano sulla Siria, forse propedeutico a un pronunciamento del Consiglio di sicurezza dell’Onu che garantisca qualche altro giorno di riflessione dopo i toni ultimativi delle scorse ore, dimostra che, al di là delle valutazioni politiche e militari, è anche – o, forse, soprattutto – la reazione dei mercati a pesare sulle decisioni di Washington. I tassi Usa, infatti, hanno ripreso a salire, con il Treasury a 10 anni che ieri nel pre-market americano prezzava un rendimento del 2,82%, a fronte invece di un arretramento degli spread dei Paesi periferici dell’Ue e del decennale giapponese. Insomma, la rotation ha retto bene per due giorni ma ora si torna alla fuga dal debito statunitense: chi sta vendendo? In giugno Giappone e Cina scaricarono 40 miliardi di titoli di Stato Usa, la Russia 5: si sta forse combattendo una guerra siriana parallela nelle sale trading? Di certo c’è poco in questi giorni convulsi, se non il fatto che i capitali non stanno tornando nei mercati emergenti: rupia indiana e lira turca continuano il loro crollo inesorabile, le Borse vanno male e i rendimenti obbligazionari salgono. 

Qualcuno comincia a pensare che gli Usa stiano per ripetere l’errore drammatico dell’autunno del 1998 ma oggi le economie emergenti hanno un peso e un volume tale da mandare scossoni seri sui mercati globali. Oggi come oggi Russia, Sud Africa, Indonesia, India, Ucraina, Brasile, Turchia, Thailandia e Kazakhistan stanno tutti operando politiche monetarie e su tassi nel tentativo di arginare il crollo delle loro monete, manovre che hanno come effetto collaterale l’aumento dei tassi nelle economie avanzate. Esempio chiaro, la vendita di debito Usa a giugno, quando però né la crisi asiatica, né quella siriana erano in atto a questo livello: all’epoca solo il rischio “taper” della Fed muoveva al rialzo i rendimenti dei Treasuries, all’epoca comunque oltre 110 punti base più bassi di oggi. Quanto avranno scaricato i creditori esteri degli Stati Uniti in luglio? E in agosto? Visto il trend dei rendimento a stelle e strisce, parecchio. Certo, oggi le economie emergenti siedono su riserve pari a 9 triliardi di dollari, quindi resistono meglio alle crisi ma l’uso di quel denaro, comunque, porterà con sé una contrazione monetaria, non esattamente un balsamo per economie già in crisi. Le politiche monetaria dell’Asia, poi, rappresentano un costo non solo per quei Paesi: il cosiddetto “currency risk”, ovvero il rischio legato a apprezzamenti/svalutazioni monetari, pesa infatti sull’estero. Per il 90% nel caso della Malesia, dell’81% per la Thailandia, del 79% per la Corea e del 74% per l’India. 

Il rischio è quello di uno shock commerciale deflazionario verso l’Occidente, Europa compresa. Una situazione simile, nell’ottobre 1998, costrinse la Fed a salvare l’hedge fund LTCM e a tagliare i tassi per due mesi consecutivi. L’allora capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, descrisse così la situazione: «La probabilità di un collasso sistemico era sufficientemente grande da rendere davvero impossibile non agire». Oggi, con i mercati emergenti che contano per la metà del Pil globale, che effetto avrebbe sui mercati un deja vù del 1998? D’altronde, la Fed e gli Usa non possono nemmeno moralmente – ammesso e non concesso che vi sia ancora una morale in questo mercato – restare indifferenti nei confronti del destino delle economie emergenti: tassi a zero e manovre di stimolo hanno spinto verso quei Paesi miliardi e miliardi di dollari di liquidità, tanto che fino al 2008 l’inflow netto verso quelle nazioni era di 4 triliardi di dollari, cifra che oggi è raddoppiata. Oltretutto, nella maggior parte dei casi quel denaro è servito soltanto a una sorta di carry-trade ciclico.

Prendiamo il caso del Brasile: nonostante il boom e il denaro degli investimenti esteri, è ancora al 130 posto della classifca della Banca Mondiale per quanto riguarda la facilità di fare business, l’output industriale è fermo al livello pre-Lehman del 3% e anche il traino delle commodities ha perso vigore. Per dirla con Matt King di Citigroup, «è come per certi depliant turistici. Una volta guardati bene i numeri del Brasile, si scopre che la realtà è molto meno bella di quella vendutaci dalla brochure».  

Attenzione, quindi: se davvero sarà guerra in Siria e se il prezzo del petrolio raggiungerà i 150 dollari al barile come pensa Societe Generale, la bilancia commerciale di molti dei Paesi asiatici in crisi andrà completamente fuori controllo, le monete crolleranno, le Banche centrali dovranno intervenire e gli shock verso Occidente diverranno più forti e meno gestibili. Il rallentamento del percorso bellico, ieri è immediatamente coinciso con quello del rally sia di oro che di petrolio, un bene per le nazioni emergenti, un male, ancorché ancora relativo, per gli Usa.

L’Europa sta lì, nel mezzo, come al solito divisa e completamente incosciente di quanto stia accadendo sui mercati: come dicevo ieri, la guerra di Siria è prima di tutto una partita a scacchi economica ma nessuno sembra avere il coraggio di ammetterlo. Oggi come oggi, è molto più efficace un conflitto combattuto a colpi di futures, opzioni e tassi d’interesse che con missili e bombe: non dobbiamo negarlo, purtroppo la realtà è questa e la realtà è sovrana. L’Europa non si rende conto del rischio che corre, ovvero trasformarsi nella pallina di una partita di ping pong tra Usa ed economie emergenti. Se l’uno perde, si fa male. Se l’altro perde, pure. Come può la Bce tacere e non alzare la voce contro la criminale inazione e mancanza di chiarezza della Fed? Come può accettare il nostro governo lo squilibrio valutativo dell’Eba che penalizza mortalmente le nostre banche rispetto le altre dell’Unione, con Bankitalia che sembra più interessata a farsi bella con la Bce dicendo sì ad ogni sopruso piuttosto che tutelare il nostro sistema creditizio? Guardatevi attorno. Jackson Hole, quest’anno, sembra l’edizione del Festival di Sanremo vinta da Jalisse: chi conta non c’è, è l’anno degli esordienti. E, sostanzialmente, di chi non conta nulla come Madam Lagarde, elegantissima ma totalmente ininfluente nelle decisioni che realmente muovono i mercati.

Ammetto di essere professionalmente affascinato da quanto ci aspetta nei prossimi mesi ma anche spaventato da un fatto. Mercoledì il Financial Times, il quotidiano che per almeno cinque è stato in servizio permanente effettivo nel negare il colossale schema Ponzi posto in essere dalla Fed, sentenziava quanto segue: »Il mondo è condannato a un infinito ciclo di bolle, crisi finanziarie e collassi valutari». In una parola sola, iperinflazione. Non avete idea di quanto mi costi dirlo ma sono almeno due anni e mezzo che ripeto come un disco rotto quanto il Financial Times ha sempre negato, almeno fino all’altro giorno. Stiamo entrando in una fase nuova, mai vissuta e quindi tutta da interpretare. Per questo ho forti timori per l’Italia, argomento cui ho dedicato l’attacco della mia rubrica di oggi: in un’Europa divisa, se non ci attrezziamo in fretta e non capiamo che sul mercato siano soli e senza alleati, rischiamo di essere quelli che pagheranno il prezzo più alto a una spirale che vada fuori controllo.  

La Germania non si farà il minimo scrupolo a sacrificare noi, Spagna, Portogallo e Grecia sull’altare dell’euro-marco. E’ l’ora della coesione e della responsabilità. E anche dell’egoismo, se servirà: nessuno ci ha mai regalato nulla, né aiutato nei momenti più difficili. Anzi. E ora di far pagare qualche conto arretrato, vedi la vendita di nostri titoli di Stato fatta da Deutsche Bank nella primavera del 2011, gridandolo al mondo. Non è cattiveria, è sopravvivenza. E non scherzo, il prossimo Natale potremmo già vivere in un mondo completamente diverso, dal punto di vista economico e sociale. La parola d’ordine deve essere una sola: prima, l’Italia.