Agli Usa serve la guerra. E in fretta. Ieri il decennale statunitense prezzava un rendimento del 2,94%, il massimo da luglio 2011, mentre il Bund di pari scadenza pagava uno yield del 2%: insomma, i capitali sfuggono ancora dai beni rifugio ma l’aumento del prezzo del greggio parla la lingua di un attacco che potrebbe diventare imminente. Ma ieri è stata anche la giornata dell’Europa, anzi della Bce. La politica monetaria della Banca centrale europea resterà infatti accomodante finché necessario, secondo quanto indicato nella guidance di luglio e pertanto i tassi di interesse resteranno allo 0,5% o a livelli più bassi ancora a lungo. Lo ha confermato il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa a seguito del consiglio direttivo della Bce. 



Draghi ha riconosciuto che nell’area euro la crescita è tornata positiva nel secondo trimestre dopo sei trimestri negativi e che i dati più recenti confermano l’atteso graduale miglioramento: “Gli indicatori confermano le aspettative di una graduale ripresa economica”. La Bce si attende che il Pil dell’Eurozona si contragga quest’anno dello 0,4% dal -0,6% stimato a giugno, per poi crescere dell’1% nel 2014 rispetto al +1,1% previsto prima dell’estate. Tuttavia, Draghi ha rilevato che la disoccupazione nell’area rimane elevata e che l’aggiustamento dei bilanci pubblici continuerà a pesare sull’attività economica. 



Ed ecco il punto. Per Simon Tilford del Centre for European Reform, “sembra che l’Europa si sia anestetizzata alle cattive notizie. La realtà è che le economie di Spagna e Italia si contrarranno di un ulteriore 2% nel 2013, la Grecia sta per conoscere una contrazione di un altro 5-7%, mentre il Portogallo tra il 3 e il 4%. Quindi, il di là dell’ottimismo di certi dati, la crisi economica nel sud Europa si sta aggravando e i tassi di interessi reali stanno già salendo ad alti livelli”. La preoccupazione maggiore, per Tilford, “sta nell’aumento del 15% della ratio debito/Pil di Portogallo e Spagna nell’ultimo anno, del 18% per l’Irlanda e del 24% della Grecia. La ratio italiana è salita del 7% raggiungendo il 130% del Pil, un livello che io definisco punto di non ritorno”. 



Ecco, cari lettori, il frutto avvelenato dell’austerity pura voluta da Germania e troika. Nonostante le belle parole e i dati artefatti, in agosto la Spagna ha visto 99mila persone lasciare il mondo del lavoro in un singolo mese, molte delle quali stanno espatriando: nel 2012 ben 45.530 spagnoli si sono registrati alla National Insurance britannica. C’è poi il tasso di disoccupazione giovanile: 62,9% in Grecia, 56,1% in Spagna, 39,5% in Italia, 37,9% a Cipro e 37,4% in Portogallo, insomma una vera e propria “lost generation”. Inoltre, anche il famoso dato PMI manifatturiero dell’eurozona sopra quota 50 che ha fatto gridare al miracolo molti osservatori non garantisce pressoché nulla: accadde lo stesso nel 2012 e quale sia stato l’epilogo lo sappiamo tutti. 

C’è poi la trasmissione del credito, completamente bloccata nonostante la massa monetaria M3: i prestiti alle aziende sono calati dell’1,9% in luglio, dato quasi totalmente giustificabile dai timori per gli imminenti stress test. In compenso, l’euro è forte. Troppo forte per economie in queste condizioni. La divisa europea ha guadagnato il 30% sullo yen nell’ultimo anno, il 25% contro la rupia indiana e il 20% contro il real brasiliano: non una bella notizia. E poi i tassi, saliti di 70 punti base in Europa da quando la Fed, lo scorso maggio, ha cominciato a parlare di “tapering”: una vera e propria condanna a morte per le Pmi di Italia, Spagna e Portogallo che devono finanziarsi sul mercato. E ora l’aumento del prezzo del petrolio che potrebbe portare con se l’attacco alla Siria, 15 dollari al barile da giugno, potrebbe assestare il colpo finale alle economie in crisi. 

L’Italia, poi, rischia di dover fare i conti con un ulteriore calo dei consumi interni se passerà l’aumento dell’Iva. Praticamente, l’inferno economico perfetto. E la Bce cosa ha fatto? Nulla, se non schierare il cannone anti-spread, ovvero quel meccanismo OMT che di fatto non esiste legalmente e che prima o poi i mercati saranno tentati di sfidare. Verrebbe da dire, meglio così, visto che quando intervengono, spesso e volentieri le banca centrali fanno disastri, soprattutto rispetto ai timori inflazionistici legati proprio all’aumento del prezzo del petrolio. Nel 2008, nel 2011 e ora? 

C’è poi la questione sostanziale: se anche la ripresa si concretizzasse in Europa, anche a un buon ritmo, un 20% di disallineamento tra la competitività del lavoro tra Nord e Sud Europa resterà la causa dei problemi dell’eurozona, pressoché insanabile al netto dell’inazione in tal senso della Bce. 

Ho timori, seri, per l’autunno. Per due motivi. Primo, mentre Draghi spacciava altro metadone in conferenza stampa, Angela Merkel rendeva noto che a suo modo di vedere “è necessaria una contrazione delle politiche di stimolo a livello globale”, frase che ha fatto crollare il cross euro-dollaro e fatto capire che la Bundesbank, dopo il voto tedesco, intensificherà le pressioni su Draghi affinché tiri i remi in barca, anche e soprattutto su eventuali acquisti obbligazionari d’emergenza. Secondo, il presidente dell’Eurogruppo, lo sciagurato Jeroen Djsselbloem, ha finalmente fatto cadere il velo di ipocrisia delle istituzioni europee e ammesso che “nonostante la potenziale necessità di un terzo salvataggio sia una preoccupazione, è chiaro che al netto dei recenti progressi, i problemi della Grecia non saranno completamente risolti nel 2014”. Via libera, quindi, al terzo salvataggio da 10-15 miliardi di euro, prolungando il programma di salvataggio − e l’agonia − della Grecia fino a tutto il 2015. 

Draghi era nervoso ieri, si coglieva anche dal tono della voce. E l’inversione dello spread tra noi e la Spagna è ormai dietro l’angolo. Attenti ai primi temporali d’autunno.