A guardare la fotografia dall’esterno e non conoscendo la protagonista, l’Italia sembra magari non in grandissima forma ma non certamente in recessione. Anzi, in ripresa. Ieri l’ultima conferma: i dati Pmi elaborati da Markit ci dicono che nel nostro Paese l’attività manifatturiera è cresciuta a dicembre al ritmo più sostenuto da aprile 2011, sostanzialmente in linea con il complesso della zona euro. Detto fatto, il differenziale tra Btp e Bund decennali, dopo aver chiuso il 2013 a 215 punti base, viaggiava ieri sui minimi degli ultimi due anni e mezzo, dirigendosi verso i 200 punti base. Lo spread a metà giornata era infatti a 203 punti, mentre il rendimento del decennale italiano scendeva per la prima volta dallo scorso maggio sotto il 4%, al 3,99%. Bene anche il differenziale Bonos/Bund a 204 punti base, con un rendimento del decennale spagnolo al 4%. Insomma, in gran bel segnale di fiducia. Ma c’è da crederci?

Parlando con la Reuters, un dealer di una primaria banca italiana leggeva così la situazione: «Il tono è decisamente positivo. Il movimento era stato anticipato dai future nelle ultime sedute dell’anno, ora vediamo una ripresa sostenuta dei flussi d’acquisto, sia da parte della clientela italiana che da quella internazionale. Da un lato i segnali positivi che continuano ad arrivare dall’economia, dall’altro il superamento della cautela di fine anno, legata alla chiusura dei bilanci bancari in vista dell’asset quality review della Bce, stanno offrendo supporto». Sarà, ma soltanto tre giorni fa l’ultima asta dell’anno ha registrato rendimenti in rialzo per il Btp a 10 anni, salito al 4,11% dal 4,01% di un mese fa, mentre quello del quinquennale è rimasto sotto il 3% al 2,71% (2,89% nell’asta di fine novembre). Bassa anche la richiesta, con il bid to cover del Btp quinquennale calato da 1,65 a 1,28 e quello del Btp decennale da 1,53 a 1,34. Insomma, l’asta fa il pieno ma sconta criticità e dopo tre giorni il mondo si scopre avido di Btp e Bonos, spingendo i rendimenti al ribasso, tanto che qualche operatore si azzarda a parlare di trend per questa compressione degli spread?

C’è da dire che un calo sotto 200 è un ottimo risultato ma può voler dire tutto e niente, visto che il differenziale italiano nel corso del 2013 ha subìto le vicende politiche ma ha anche fortemente risentito della situazione finanziaria internazionale e della ripresa disomogenea, andando più volte in altalena, come ben rendicontato da MF. Il Btp/Bund è passato dagli oltre 300 punti base dei primi giorni di gennaio ai 215 del 30 dicembre, i valori minimi dal 2011. Esattamente un anno fa lo spread scendeva sotto quota 300 toccando quota 287 punti, il fatidico “obiettivo” dell’allora premier dimissionario Mario Monti.

In quei primi giorni del 2013 il differenziale tra Btp e Bund decennali, aiutato anche dalle notizie provenienti dagli Stati Uniti dove in extremis la Camera dei Rappresentati approvava la legge per evitare il baratro fiscale e porre fine allo “shutdown”, calava a 283 punti. Il momento più critico per l’indicatore risale a fine marzo, quando la situazione politica di stallo post-elettorale sembrava senza sbocco e si prospettavano nuove elezioni. Il 28 marzo lo spread tocca i 360 punti, picco dal settembre del 2012: sono i giorni del preincarico di Napolitano a Bersani per formare un governo, un tentativo destinato a fallire. Il 24 aprile il capo dello Stato affidava l’incarico a Enrico Letta di formare il governo e l’esecutivo ottenne la fiducia il 30. Il 7 maggio lo spread torna sotto i 250 punti: un crollo di oltre 100 punti in poco più di un mese. Due mesi e il timore per il “taper” della Fed fa impennare lo spread oltre i 290 punti e il 24 giugno si torna così sopra quota 300 punti base, con un tasso del decennale che tocca il 4,84%, il massimo dal 6 marzo. Segue un’ulteriore discesa, tanto che a ridosso di Ferragosto lo spread si fissa a 231 punti, il minimo da due anni.

Settembre è il mese della sfida con la Spagna. Il 9 settembre avviene l’aggancio dei Bonos ai Btp, a distanza di un anno e mezzo dall’ultima volta in cui i due differenziali si erano toccati, a quota 256 punti. Il pareggio segue una settimana di sedute nelle quali si erode progressivamente la distanza tra i due valori, con il differenziale spagnolo che resta stabile e quello italiano che continua ad allargarsi per via delle solite incertezze sulla tenuta del governo Letta. L’ultima parte dell’anno lo spread, nonostante nulla sembri rafforzare la tenuta dell’esecutivo – anzi, l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Pd anima ancora di più i dissidi e amplia i distinguo in seno al partito -, resta stabile per quasi tutto il mese di dicembre, oscillando annoiato tra i 220 e i 230 punti base. Ieri, poi, l’abbandono di quota 4% per il rendimento del nostro decennale, una soglia psicologica importantissima.

Ora, qualcosa non torna: chi sta comprando il nostro debito? Non i grandi fondi, a parte forse Pimco ma che non penso stia operando con il badile. Non certo investitori esteri in grande stile, visto che la quota di detenzione straniera del nostro debito rimane attorno al 33%. Le nostre banche, forse? Loro negano, anzi in vista della “Asset quality review” stanno scaricandone un po’ di quei quasi 450 miliardi di titoli pubblici italiani che hanno in pancia. Più di 25 di quali, nei bilanci della terza banca del Paese, Mps, a sempre maggior rischio di nazionalizzazione dopo la vittoria della Fondazione e lo slittamento a maggio dell’aumento di capitale da 3 miliardi. E le altre banche? Tutte sanissime? Non direi proprio e oltretutto con lo spauracchio dell’eliminazione del concetto di risk-free per il debito sovrano in sede di stress test: quanto andrà parametrato quel rischio? Quanto capitale andrà accantonato a garanzia delle detenzioni non più a rischio zero?

Eppure lo spread scende. Scende perché forse chi sa sempre le cose in anticipo, sa anche che Mario Draghi sarebbe pronto a inondare di liquidità le banche un’altra volta con un’asta Ltro, visto che i soldi a tre anni delle precedenti vanno a scadenza quest’anno e molte banche italiane sono in ritardo con i pagamenti verso l’Eurotower. Insomma, siamo alle soglie di un finanziamento per onorare il debito da parte dei nostri istituti: è questo che si festeggia con lo spread a quota 200? Peggio degli americani che prendono carte di credito su carte di credito per onorare i pagamenti di ognuna. Oppure si festeggia perché la Bce sta dando vita ancora una volta a un back-door funding, ovvero ricompra dalle banche i titoli di Stato che lei, per statuto, non può acquistare direttamente e li mette però a bilancio?

Una cosa è certa è l’ho testimoniata due giorni fa: tutto questo appetito per l’obbligazionario sovrano non c’è se due aste di sterilizzazione sono andate a vuoto in quindici giorni, l’ultima con un ammontare di “buco” record. Come fa quindi a scendere lo spread? Vi ricordate i due articoli che ho dedicato due settimane fa alle banche centrali come nuovo motore immobile non solo dei mercati ma anche delle scelte politiche dei Paesi? Bene, il grafico a fondo pagina elaborato da JP Morgan: ci dice ciò che fino a pochi mesi fa era sconveniente dire nei salotti buoni dell’economia. Ovvero, che i rallies che abbiamo visto e stiamo vedendo sono tutti garantiti artificialmente dalla liquidità a costo zero delle banche centrali a seguito delle varie scelte delle stesse (l’Operation Twist della Fed, il discorso di Draghi sul salvataggio a qualsiasi costo dell’euro e il lancio dell’Abenomics in Giappone), a dispetto di qualsiasi fondamentale macro. Non è che le traiettorie dello spread siano traiettorie anch’esse, se non artificiali, quantomeno manipolabili alla bisogna?

Vi ho parlato fino alla noia dei guai delle banche spagnole (sofferenze, legame al settore immobiliare, eccesso di esposizione sovrana) e ci ritroviamo con lo spread del Bonos a 10 anni che flirta con quota 200: ma stiamo forse impazzendo? Perché un investitore dovrebbe comprare titoli di Stato a rischio, quando i prezzi salgono e il rendimento cala? Solo le banche hanno ancora margine di profitto da carry-trade, rispetto ad altri impieghi, come ad esempio i prestiti alle imprese, visto che quei soldi li hanno presi all’1%. Ma se arriverà, come temo arriverà, uno shock sul sistema bancario, fosse anche un deleverage più forte di quanto atteso in sede di supervisione, cosa accadrà allo spread?

Occorre chiederselo e seriamente perché quel valore non racconta più la storia di un Paese reale, non è l’indicatore della salute macro dell’economia nazionale ma soltanto uno strumento più politico che economico in mano alle banche centrali. E ai poteri forti.