La Russia, anzi il conflitto russo-ucraino, pare magicamente scomparso dalle cronache, quasi tutto fosse stato risolto dall’incontro e dal memorandum di intenti firmato al vertice Asem tenutosi a Milano il 16 e 17 ottobre scorsi da Putin e Poroshenko: è proprio così? È tutto risolto oppure sottotraccia non solo la guerra asimmetrica non è finita ma anzi sta dando vita a scenari geopolitici molto importanti, nel silenzio totale dei grandi media. Io propendo per la seconda ipotesi e suffrago, o almeno provo a farlo, questa mia tesi fornendovi delle cifre e dei fatti.

Tra il 7 e il 9 ottobre scorsi, dieci giorni prima del vertice Asem, il Cremlino diede via libera al più importante intervento monetario della Banca centrale russa dall’inizio della crisi con l’Ucraina, con l’istituto che comprò rubli ininterrottamente per tre giorni per un ammontare di oltre 2 miliardi di dollari, 1,75 dei quali comprati nei primi due giorni e altri 420 milioni di valute estere vendute dalla Banca overnight. Insomma, bloccare il crollo del rublo è costato e con il calo del costo del petrolio (argomento di cui parleremo diffusamente dopo), questa cifra pare destinata a salire da qui a fine anno, raggiungendo a detta di alcuni analisti i 30 miliardi di dollari, dopo che la moneta russa ha perso il 14% contro il biglietto verde nell’ultimo trimestre.

L’impatto netto dell’intervento monetario si è sostanziato in un calo del 10% delle riserve russe, scese a un minimo da quattro anni a questa parte la scorsa settimana, toccando quota 456,8 miliardi di dollari: non siamo al livello del 2008, quando da agosto a fine anno per tentare di bloccare il crollo della valuta sparirono 160 miliardi di dollari, ma la cifra è comunque sostanziale. Tanto più che la Banca centrale, su ordine anche questa volta del Cremlino, ha già garantito linee di credito alle principali aziende del Paese, colpite dalla crisi e dalle sanzioni, le quali da qui a fine devono ripagare debito in dollari per altri 54,7 miliardi.

Insomma, costi della crisi. Ma anche alcuni benefici. Primo, la fuga di capitali ha rallentato e di molto nel terzo trimestre, passando da 23,7 miliardi di dollari del secondo a 13 miliardi e, anzi, in giugno si è registrato il primo inflow di capitale dal settembre 2013, pari a 11,6 miliardi. Secondo, il surplus di conto corrente russo si è rivelato significativamente più solido, a quota 11,4 miliardi di dollari contro gli 8,8 attesi. Terzo, grazie alla scelta – un po’ politica, un po’ strategica – di de-dollarizzare alla massima velocità, la Russia ha ripagato 52,8 miliardi di debito estero, riducendo il suo ammontare ai minimi dal 2012, come ci mostra il grafico a fondo pagina.

Ma chi sta investendo in Russia? Il 13 ottobre scorso, alla vigilia del vertice Asem, Mosca e Pechino hanno siglato 38 accordi legati al settore energetico, del commercio ma anche finanziario durante la visita del premier Li Keqiang a Mosca, il quale ha dato il via libera anche a uno swap valutario per l’ammontare di 150 miliardi di yuan (25 miliardi di dollari). Insomma, la Cina sta facendo shopping – travestito da accordi bilaterali – anche in Russia, forte delle sue riserve valutarie e dalla sua predominanza commerciale. La domanda che sorge spontanea, a questo punto, è la seguente: al netto delle storiche relazioni tra i due paesi, Vladimir Putin, per timore che la crisi intacchi troppo l’economia del Paese e quindi la sua leadership, non starà spalancando un po’ troppo la porta alla Cina, di fatto cedendo una fetta di sovranità sotto forma di futura dipendenza economico-commerciale?

Con ogni probabilità sì, ma è una scelta dettata dall’esigenza di evitare che il crollo del prezzo del petrolio si sostanzi nello spettro del crollo dell’Unione Sovietica, visto che a metà anni Ottanta ci vollero solo due anni di prezzi in declino per mettere in ginocchio il Paese, schiantando del tutto l’Urss in soli altri due anni. L’ex Premier russo, Yegor Gaidar, fissa il punto focale nel settembre del 1985, quando l’Arabia Saudita smise di difendere il mercato del petrolio e inondò il mercato: «L’Unione Sovietica perse 20 miliardi di dollari all’anno, denaro senza il quale la nazione non poteva sopravvivere». La crisi fu aggravata dall’import di cibo, che dissanguò le casse, situazione resa ancor più grave dalla scelta del leader di allora di non imporre razionamenti da tempo di guerra, bensì di vendere le riserve d’oro e cercare credito politico verso l’Occidente.

Per Gaidar, «il collasso dell’Urss dovrebbe servire di lezione a tutti coloro i quali costruiscono la loro politica sull’assunto in base al quale i prezzi del petrolio resteranno per sempre alti. La storia ci insegna invece che una stabile superpotenza fu distrutta in pochi anni». Stando a calcoli del Fmi, la Reer (Real effective exchange rate) russa è cresciuta del 130% tra il 2000 e il 2013, ovvero durante il super-ciclo del petrolio, ma l’export non petrolifero russo nello stesso periodo è sceso dal 21% all’8% del Pil. Insomma, sinistri echi del 1985. Con i medesimi protagonisti, oltretutto, la Russia da un lato e l’Arabia Saudita dall’altro.

Stando a quanto raccontato dal biografo di Ronald Reagan, Paul Kengor, trent’anni fa Ryad decise di far crollare il prezzo del petrolio per rafforzare la sua alleanza strategica con Washington, fornendo un’arma letale in un periodo molto delicato e decisivo della Guerra Fredda. Una tesi confermata anche dal figlio dell’ex presidente Usa, Michael Reagan: «Mio padre disse ai sauditi di inondare il mercato con petrolio a basso costo», un piano che di fatto fu organizzato dall’ex direttore della Cia, William Casey. E ancora oggi sulla scena c’è lui, il principe Bandar – divenuto poi capo dei servizi segreti sauditi – che lo scorso anno passò quattro ore proprio con Vladimir Putin nella sua dacia fuori Mosca, un incontro i cui contenuti furono trascritti dal Cremlino e resi noti per imbarazzare Ryad.

Da quanto riportato, il principe offrì alla Russia un accordo per far salire a livello globale i prezzi di petrolio e gas, ma solo se lui avesse abbandonato al suo destino il regime siriano e il suo leader, Assad: Bandar rassicurò Putin del fatto che quanto stava dicendo aveva il completo benestare e sostegno di Washington. L’accordo non fu raggiunto e ora a Mosca sono certi della vendetta saudita, in accordo con Washington, capace di far crollare del 24% il prezzo del petrolio da giugno a oggi: «Questa è una manipolazione politica e i sauditi sono stati manipolati, una situazione che potrebbe finire male», ha tuonato Mikhail Leontyev di Rosneft, il gigante petrolifero russo. E con il Brent attorno agli 85 dollari, la questione si sta facendo seria: stando a calcoli di Deutsche Bank, il prezzo di break-even (pareggio) per il budget saudita è di 99 dollari al barile, di 100 dollari per Russia e Oman, di 126 per la Nigeria, di 136 per il Bahrain e di 162 per il Venezuela: la prossima riunione dell’Opec a novembre ci farà capire di più sulle dinamiche nel mondo arabo e sui loro addentellati con la geopolitica mondiale. Una cosa è certa, la Russia ha paura e si sta muovendo in anticipo, addirittura con la governatrice della Banca centrale, Elvira Nabiulina, che ha dichiarato come si stia lavorando «a uno scenario di stress, anzi a uno scenario di emergenza con prezzi ancora in discesa fino a 60 dollari al barile». Insomma, una iattura.

Non per tutti però, anzi c’è qualcuno che sfruttando il crollo dei prezzi sta facendo man bassa di acquisti sul mercato ed è proprio l’alleato numero uno della Russia: la Cina, Paese che giova ricordare ha investito il 32% dei suoi 4 triliardi di riserve valutarie estere in debito pubblico Usa. Guardate il grafico a fondo pagina: sono le 89 petroliere, 80 delle quali di categoria Vlcc, le più grandi, che stanno portando verso i porti cinesi circa 160 milioni di barili, destinati a rinforzare le riserve strategiche del Paese, qualcosa come 727 milioni di barili ammassati a partire dal 2012. Insomma, convergenze parallele: le disgrazie di qualcuno possono sempre essere le fortune di un altro. E non solo perché può comprare petrolio a prezzo di saldo, ma magari perché questa operazione non nasce oggi ma in tempo utile da ammassare scommesse short sui futures petroliferi o sulle opzioni put al Nymec, quando le quotazione erano ancora alte e nulla faceva pensare a un -25% in cinque mesi: qualcuno nei desk commodities sta brindando a colpi di millesimato alle disgrazie di Vladimir Putin. Ma voi non dovreste essere molto colpiti da tutto questo, visto che lo avevo previsto e scritto il 24 gennaio scorso.

Ieri, però, un colpo di scena ha reso ancora più interessante e intricato il giallo. L’Arabia Saudita, senza alcuna necessità di farlo, è infatti uscita allo scoperto, ammettendo attraverso una persona a conoscenza della politica petrolifera del Paese citata da Bloomberg – insomma una fonte assolutamente anonima – di aver tagliato le forniture di petrolio a settembre. Il principale produttore dell’Opec ha infatti ridotto le immissioni sul mercato di 328mila barili al giorno, passando dai 9,688 milioni di agosto a 9,36 milioni al giorno in settembre: in settembre i prezzi sono rimasti abbastanza piatti nonostante questo taglio, quindi verrebbe da pensare a un combinato tra limitazione delle forniture e bassa domanda globale che ha dato vita a un effetto offsetting sulle quotazioni.

Cosa significa quindi il crollo in ottobre? Un tracollo della domanda mondiale? Un politica diciamo flip-flop dell’Arabia Saudita, la quale magari ieri ha voluto rendere noto ufficialmente il proprio taglio delle forniture non tanto perché stanca di spararsi nei piedi per compiacere le esigenze degli americani ma per inviare loro un messaggio del tipo “noi il nostro dovere lo abbiamo fatto, ora tocca a voi” (nel qual caso, fossi Assad dormirei preoccupato)? Oppure era un messaggio a Putin, utilizzando l’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg, per cercare di spaventarlo? Oppure ancora, proprio una manovra puramente speculativa, nata in luglio quando l’open interest sulle opzioni put al Nymex toccò il massimo storico?

Non si sa, non subito almeno, questa però è stata la reazione del mercato all’annuncio a sorpresa di Ryad, come ci mostra il secondo grafico a fondo pagina: quotazioni in rialzo. Geofinanza ai suoi massimi assoluti.

 

P.S.: Certo, una cosa va ammessa: alla luce di tutto questo, l’incidente aereo – avvenuto proprio all’aeroporto di Mosca – in cui è morto tragicamente il numero uno del colosso petrolifero francese Total, Christophe De Margerie, uomo molto legato commercialmente alla Russia, stimato da Vladimir Putin e che ebbe l’ardire di dichiarare «non vedo ragioni per pagare il petrolio in dollari», assume contorni maggiormente inquietanti di quelli che fin dall’inizio aveva. Un altro caso Mattei? Forse no, certo qualche piede molto influente – e dalla memoria lunga – nella questione dell’accaparramento dei giacimenti libici nel post-Gheddafi lo aveva pestato.