Mercoledì scorso, con una mossa senza precedenti resa necessaria dal crollo del rublo a quota 80 sul dollaro e addirittura 100 sull’euro, la Banca centrale russa ha annunciato nuove misure per stabilizzare il settore finanziario. Nel dettaglio, ha fatto sapere che espanderà le operazioni forex repo alle banche e allenterà momentaneamente alcune regole per gli istituti di credito, includendo anche dei limiti ai tassi di interesse, mentre è in atto la pianificazione di un aumento di capitale per le banche nel corso del prossimo anno. 

Nel tentativo di fermare il crollo del rublo, il governo russo ha anche deciso di intervenire con la vendita sul mercato delle riserve in eccesso in valuta estera, anche se non ha precisato l’importo che è disposto a vendere (ammontano a circa 7 miliardi di dollari le riserve che Mosca detiene in valuta estera). Le vendite limitate di dollari ed euro dei giorni scorsi per 1,96 miliardi di dollari, infatti, non sono bastate a frenare la caduta della moneta russa. I provvedimenti del Cremlino e della Banca centrale, inoltre, hanno seguito a stretto giro la mossa di martedì, sempre della Banca centrale, di alzare dal 10,5% al 17% il tasso d’interesse di riferimento, mossa che non è stata sufficiente a fermare il tracollo della divisa nazionale. 

Per il primo ministro russo, Dmitry Medvedev, «il rublo è sottovalutato, ma non vi è alcuna necessità di attuare una rigorosa regolamentazione del mercato valutario», ha detto al termine di una riunione di emergenza con i ministri economico-finanziari, il governatore della Banca centrale, Elvira Nabiullina, i vertici delle autorità fiscali e i dirigenti delle maggiori società esportatrici dell’energia. Per Medvedev è necessario mantenere vendite “ritmiche e stabili” sui guadagni in valuta estera al fine di evitare improvvise fluttuazioni del rublo, mentre il consigliere del Cremlino, Andrei Belousov, ha dichiarato che questo lavoro deve essere svolto in collaborazione con la Banca centrale e l’Agenzia di monitoraggio finanziario federale, sottolineando come il successo di un’azione coordinata tra il governo e la Banca centrale potrebbe dipendere dal livello dei prezzi del petrolio. 

Questo annuncio ha dato un po’ di sollievo ai mercati, con l’indice Micex denominato in dollari che mercoledì ha ceduto lo 0,18% a 1.441 punti e l’Rts in rubli salito del 17,18% a 737,22 punti, mentre Il cambio dollaro/rublo è sceso a quota 63,59 dopo il massimo storico toccato il giorno prima a 80,1. 

E ieri? La manovra è stata risolutiva? No, ieri Vladimir Putin ha tenuto l’annuale discorso alla nazione e nonostante abbia rassicurato tutti rispetto al fatto che la Russia uscirà dalla crisi entro due anni e che la Banca centrale non sta gettando via le sue risorse, il rublo si è ulteriormente indebolito. La situazione, infatti, comincia a farsi seria. A meno di mosse a sorpresa, Mosca sembra aver perso il controllo della propria economia, tanto che non il sottoscritto ma il vice-governatore della banca centrale, Sergei Shvetsov, ha dichiarato che «la situazione è critica, quanto sta accadendo è un incubo che non ci saremmo nemmeno potuti immaginare solo un anno fa». 

D’altronde, il crollo del rublo a quota 100 sull’euro rappresenta il calo su singolo giorno peggiore dalla crisi del 1998, sintomo che nonostante le mosse della Banca centrale contro gli speculatori la fuga di capitali sta prendendo ancora più forza. Il rendimento del bond russo a due anni ha toccato quota 15,36%, mentre i cds stanno quotando un rischio default al 33% e il titolo di Sberbank ha perso il 18%: insomma, caduta libera, tanto che per Neil Shearing della Capital Economics, «se un rialzo dei tassi di 650 punti base non è riuscito a tamponare la situazione, significa che siano vicini alla fine. O, quantomeno, all’ipotesi di controlli sui capitali». Leggi, la ricetta cipriota. 

Per Michal Dybula di Bnp Paribas, il crollo del rublo aumenta i rischi di una bank run sistemica sui conti correnti e sui depositi: «Se si arrivasse a questo epilogo, allora i controlli di capitale sarebbe l’unico sviluppo e le autorità politiche potrebbero obbligare le aziende a controllo statale a vendere assets esteri e rimpatriare i fondi». 

Insomma, Washington sta stringendo il cappio e la decisione della Fed sempre di mercoledì sembra fatta apposta per rendere asfissiante la presa, come vedremo dopo. Inoltre, Barack Obama pare non aver intenzione di porre il veto su una legge varata dal Congresso che imporrebbe nuove sanzioni alla Russia, tra cui 350 milioni di dollari di assistenza militare all’Ucraina, limitazione verso le aziende energetiche che investono in Russia e divieto di credito verso Gazprom. Per Anthony Peters di SwissInvest, l’ipotesi del “regime change” potrebbe ora stuzzicare Washington, nonostante l’alto grado di consenso di cui gode ancora Vladimir Putin: «È dai tempi dell’impero sovietico che non assistiamo a una così palese negazione dei problemi politici ed economici del Paese, a tutto detrimento dei cittadini e delle loro condizioni di vita. Si sa che i russi sono stoici di fronte alle difficoltà, ma attenzione a quando la loro pazienza potrebbe finire». 

Oltretutto, il rublo a picco sta di fatto raddoppiando il costo del servizio dei 700 miliardi di debito estero su cui siedono aziende, banche ed entità statali russe, 50 miliardi dei quali vanno pagati entro la fine dell’anno e altri 100 nel 2015: non a caso, il gigante del petrolio Rosneft ha già chiesto 49 miliardi di aiuto statale. E anche le riserve, gli oltre 400 miliardi di dollari di cuscinetto per tamponare la crisi, non sono eterne: per Eugene Kogan della Moscow Partners, «il mercato azionario russo sta per affrontare una morte lenta a fronte della liquidità che sparirà nei prossimi sei mesi». Tenete bene a mente questo concetto. Le autorità russe, dopo aver bruciato 100 miliardi di riserve quest’anno senza ottenere pressoché alcun risultato, ora nicchiano e per Tatiana Tchembarova di Bnp Paribas, già oggi quanto in cassa potrebbe non coprire quanto necessario per il servizio del debito estero, a differenza del 2008: «La Russia non solo è esposta a un livello di leva doppia di allora, ma ha molte meno riserve». 

Avendo di fatto dovuto accantonare come voce di spesa a budget 143 miliardi di riserve estere per l’anno prossimo, in molti pensano che servirà altrettanto se non di più per ricapitalizzare il sistema bancario: dopo la crisi del 2008-2009 ci vollero infatti 170 miliardi di dollari. Per Lubomir Mitov dell’Institute of Internazional Finance, se le riserve caleranno sotto quota 330 miliardi si entrerà in area di rischio, sia per le pressioni montanti sia per il carico di debito estero cui far fronte: «Rischia di tramutarsi nella tempesta perfetta. Ogni 10 dollari in meno del prezzo del petrolio significa entrare fiscali in meno dall’export pari al 2% del Pil, uno scossone simile potrebbe portare a un deficit del 3,5% del conto corrente, ma con il combinato ulteriore di fuga di capitali e sanzioni, quella percentuale potrebbe raggiungere anche il 10%. Insostenibile». 

E la Banca centrale lo sa, visto che in base a uno scenario che veda l’anno prossimo il petrolio a 60 dollari al barile, l’economia si contrarrebbe del 4,7%: e c’è di più, perché ogni 100 punti base dei tassi di interesse porta con sé un taglio di un ulteriore 0,8% del Pil rispetto all’anno precedente e solo questa settimana l’aumento dei tassi è stato di 750 punti base. Per Lars Christensen di Danske Bank, «il governo russo ha creato le condizioni per l’epilogo peggiore, lasciando che fosse la moneta a uccidere l’economia. Gli investimenti sono in caduta libera e penso che lo shock potrebbe essere anche peggiore di quello del 2008-2009, visto che nulla lascia propendere per un rimbalzo rapido del prezzo del petrolio». Il problema è che un rublo svalutato crea problemi di inflazione, con il potere di acquisto dei cittadini a forte rischio e catene come Ikea che hanno visto un enorme incremento degli ordini di cucine per il timore di un ulteriore aumento dei prezzi: stessa coda per lavatrici, auto e immobili. 

In compenso, i russi benestanti scappano e vanno a comprare anch’essi immobili ma a Londra, visto che dall’inizio del crollo del rublo si è conosciuto addirittura un +10% nella vendita del comparto di case di lusso nella capitale britannica, come confermano dati di Beauchamp Estates. E parliamo di immobili fino a 20 milioni di sterline di valore l’uno, come conferma il fondatore dell’agenzia, Gary Beauchamp, parlando di prestigiose case in aree di lusso come Belgravia, Knightsbridge, Mayfair e Regents Park: tutti acquistati da cittadini russi. Ma il trend pare destinato a un addio determinato dalla voglia di investire fuori dalla Russia a lungo termine, visto che sono aumentate anche le compravendite di proprietà non a uso abitativo, come gli assets commerciali, un trend che nell’ultimo triennio aveva visto fare la parte dei leoni ai ricchi cinesi. Per Becky Fatemi, direttore alla Rokstone, il numero di clienti russi quest’anno è raddoppiato: «Dall’inizio del crollo del rublo c’è stata un’inversione e anche adesso, con il periodo natalizio in corso, ho decine di clienti russi a Londra pronti a spendere fino a 100 milioni di sterline per una casa: magari non abbandoneranno la Russia, del tutto ma negli ultimi otto mesi si vendono molte proprietà di investimento e commerciali, non più soltanto immobili residenziali. Ormai è un trend». 

D’altronde, il rublo è crollato del 56% rispetto al dollaro dallo scorso anno e il Pil russo si è ridotto a 1,1 triliardi di dollari, meno del Texas e la metà dell’Italia: il problema è che questo ha portato il peso del debito estero russo al 70% del Pil, percentuale che fa dire a Tim Ash della Standard Bank che «un downgrade russo a livello “spazzatura” è solo questione di tempo». Ed eccoci entrare nella seconda dinamica in atto, ovvero il rischio contagio attraverso i mercati emergenti, un qualcosa che sta già colpendo paesi come Turchia e India che invece dovrebbero beneficiare dei prezzi bassi del petrolio: peccato che, come vi dicevo la scorsa settimana, comincia a non esserci più liquidità e il sistema è sempre più sotto stress dopo il “taper” della Fed e l’inazione totale della Bce a fronte della Bank of Japan incapace di fare offsetting sugli acquisti mancanti di obbligazioni delle Federal Reserve, stando i suoi stanziamenti insufficienti. 

Insomma, ci sono segnali che le sell-off potrebbero diventare autoalimentanti se gli investitori dovessero ritirare liquidità dai fondi obbligazionari dei mercati emergenti, forzando gli stessi a liquidare detenzioni come conseguenza. Ma perché manca liquidità? Un breve reminder. La liquidità comincia a scarseggiare, perché il mondo infatti non solo sta ancora godendo dei riflessi del Qe della Fed, ma, soprattutto, vede le varie autorità monetarie già impegnate in una restrizione bilanciata. La Cina sta infatti contraendo a un ritmo molto lento ma sta essa stessa drenando, visto che il taglio dei tassi a sorpresa ha fatto più scalpore mediatico di quanto non muova i mercati con effetti reali, dato che la Banca del Popolo regola i livelli del credito nell’economia attraverso freni che agiscono sulla quantità e non aggiustandone il costo, evitando sì qualche bancarotta ma non aumentando la fornitura di massa monetaria M2. 

Veniamo poi al Giappone, dove la Bank of Japan sta aggiungendo circa 12 miliardi di dollari al mese al suo programma di acquisto di assets, una medicina sostanzialmente finalizzata a raggiungere quel tasso di crescita annuale del 5% necessario per bilanciare l’enorme debito pubblico nipponico ed evitare che la sua traiettoria vada fuori controllo. Ma nonostante la cifra sia ragguardevole, è ben poca cosa se posta come argine di offsetting al ritiro da parte della Fed dei suoi 85 miliardi di dollari di acquisti mensili e oltretutto soltanto una piccola parte di questo stimolo sta finendo nel sistema della finanza globale: in compenso, sta esportando uno shock deflazionistico sul commercio a causa della svalutazione dello yen, calato del 13% da fine agosto. La Bce, per ora, non pervenuta se non per acquisti limitatissimi di Abs e covered bonds. 

Ma questo scenario non è affatto da considerarsi il cosiddetto “worst case”, poiché dalla scorsa settimana una nuova variabile è andata a inserirsi in questo quadro di potenziale instabilità: ovvero, la decisione dell’Opec di mantenere inalterata a 30 milioni di barili al giorno la produzione di petrolio e il conseguente calo ulteriore del prezzo sia del greggio che del Wti statunitense. Come questo può impattare sul sistema economico e finanziario globale? Facciamo un passo indietro e concentriamoci su un concetto chiave, ovvero quello dei petroldollari. Lungi da essere soltanto il sistema benchmark per la prezzatura e il trading a livello globale di commodities, questo concetto è in realtà un sistema finanziario in piena regola al servizio dell’uso delle leva al fine di incoraggiare e facilitare il cosiddetto “riciclo” di dollari e quindi il loro reinvestimento in asset denominati in biglietti verdi da parte dei Paesi esportatori di petrolio, nonché un mezzo per incrementare il prezzo nominale di tutti gli assets prezzati in divisa statunitense. 

Insomma, grazie al concetto di petroldollaro, parte dei soldi legati al commercio di greggio finivano “riciclati”, cioè reinvestiti, nel sistema finanziario Usa e globale, garantendo liquidità. Bene, stando a uno studio di Bnp Paribas, quest’anno per la prima volta in venti anni, le nazioni esportatrici di petrolio non aggiungeranno ma preleveranno denaro al di fuori del mercati. Cosa significa questo? Che il combinato ulteriore dato dalla fine del Qe della Fed e dal calo drammatico dei prezzi del petrolio che stiamo vivendo da ormai cinque mesi, ha come conseguenza proprio quella di un calo drastico della liquidità sui mercati globali. Fino a oggi, infatti, paesi come Russia, Angola, Arabia Saudita e Nigeria garantivano flussi di denaro che trovavano la loro strada verso i mercati finanziari, determinando così un aumento del prezzo degli assets e un contemporaneo mantenimento al ribasso del costo del finanziamento, il tutto attraverso appunto il “riciclo da petroldollaro”, ma ora qualcosa è cambiato. 

Stando allo studio di Bnp Paribas, «quest’anno i produttori di petrolio importeranno capitale per un valore pari a 7,6 miliardi di dollari, mentre solo nel 2013 hanno esportato (ovvero immesso nei mercati finanziari, ndr) 60 miliardi di dollari e nel 2012 addirittura 248 miliardi di dollari». Sempre stando a calcoli della banca francese, il riciclo da petroldollari ha toccato il suo picco nel 2006 a quota 511 miliardi di dollari: bene, in otto anni siamo passati da oltre 500 miliardi di denaro liquido che si riversava nei mercati finanziari dal trading petrolifero alla situazione opposta, ovvero i paesi esportatori drenano dai mercati quasi 8 miliardi di dollari. 

Per David Spegel, il capo analista che ha curato lo studio, nonostante l’ammontare netto del “prelievo” sia basso, «ciò che è interessante è il fatto stesso che per la prima volta quei paesi esportatori non stiano fornendo ma drenando capitali che muovono la liquidità globale. Se i prezzi del petrolio dovessero calare ulteriormente nei prossimi anni, i produttori di energia avranno bisogno di più capitale anche soltanto per ripagare i bonds». Inoltre, in questi anni le banche centrali hanno inglobato tutto il collaterale di alta qualità a un ritmo mai visto in precedenza e portato il mercato obbligazionario più liquido al mondo, quello Usa, a soffrire un movimento sigma sul Treasury a 10 anni il 15 ottobre: in uno scenario simile, l’ultima cosa di cui hanno bisogno i mercati è meno liquidità e meno volume, perché il primo, grosso ordine di vendita potrebbe farli schiantare. 

C’è poi un’ultima variabile cui fare attenzione: i paesi esportatori non investono tutto il loro introito da export, ma ne trattengono una parte considerevole, creando dei fondi di surplus che ritornano nei depositi bancari, garantendo così liquidità al mercato dei prestiti, esattamente come fanno con i mercati finanziari e altri assets. Inoltre, questo capitale è servito a finanziare il debito dei paesi importatori, aiutando ad aumentare a livello generale la crescita tanto quanto le condizioni di liquidità dei mercati finanziari. Solo l’anno scorso i flussi di capitale dai paesi esportatori di energia ammontavano a 812 miliardi di dollari, 109 miliardi dei quali prendevano forma di portfolio di capitale finanziario, altri 177 si sostanziavano in investimenti diretti in equity e 527 miliardi in altre forme di allocazione di capitale, metà dei quali si sono trasformati in depositi bancari e quindi poi in prestiti al mercato.

 

(1- segue)