La questione petrolio va a innestarsi anche in un’altra, ovvero la domanda globale sul lungo termine. Come ha sottolineato recentemente Morgan Stanley, quest’ultima resta bassa a seguito della crisi finanziaria e del livello del debito nelle economie emergenti e sviluppate: la stretta fiscale, il deleveraging bancario e un comportamento più prudente da parte di consumatori e imprese sono i responsabili di questo divario della domanda che si sostanzia in un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti, il crollo dei prezzi delle commodities su scala globale e un eccesso di liquidità immessa dalle banche centrali per contrastare, o almeno cercare di contrastare, la deflazione. Così finora, ma l’anno prossimo?
Certo, la macro-economia ci dice che la domanda potrebbe essere stimolata proprio dal calo del prezzo del greggio nelle economie importatrici di petrolio, poiché consumatori e imprese beneficeranno della forte riduzione dei costi dell’energia che alimenterà i consumi e contribuirà a ridurre il debito. Verissimo, ma c’è anche il rovescio della medaglia di cui vi parlo da settimane, ovvero il fatto che diminuirà l’avanzo positivo dei produttori di petrolio, quindi un calo dei flussi di capitale provenienti da paesi come la Russia e il Medio Oriente, i quali appunto già oggi per la prima volta in venti anni stanno trenando denaro dal ciclo del petrodollaro, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Certo, al contrario gli importatori di petrolio in Asia, come Cina e Giappone, vedrebbero aumentare l’avanzo delle partite correnti grazie al calo dei costi per l’importazione di petrolio, il che – a fronte delle dinamiche demografiche – vedrebbe il rapporto tra risparmi globali e investimenti probabilmente poco invariato. Ma con la Cina che rallenta e fa i conti che la sua bolla del credito, meditando svalutazioni competitive dello yuan fino al 20% e il Giappone che nonostante tutto ha visto il tasso di inflazione cominciare a scendere un’altra volta, come si può sperare di innescare crescita?
Cina e Giappone, di fatto, stanno solo esportando deflazione, mentre gli Usa crescono ma vedono ancora parecchie criticità, non ultima appunto il possibile impatto del prezzo del petrolio in calo su produzione ma anche sul comparti finanziario a essa legato, capace di pesare per quasi il 20% su tutto il settore dell’high-yield Usa. Ma c’è dell’altro, per i gestori di Axa la domanda carente e le dinamiche demografiche nel lungo periodo implicano che la richiesta di obbligazioni di alta qualità resterà robusta e che c’è un limite al possibile rialzo dei rendimenti obbligazionari: «Prevediamo che la Federal Reserve aumenti i tassi d’interesse il prossimo anno e che la crescita negli Stati Uniti sarà robusta, tuttavia stimiamo soltanto un aumento dei rendimenti dei Treasury negli Stati Uniti al 3%. Pertanto crediamo che la caccia al rendimento riprenderà all’inizio del 2015. Per questo motivo riteniamo che vada preso in considerazione un aumento dell’esposizione al comparto high yield e del debito dei mercati emergenti all’inizio del prossimo anno», dichiara il capo-dipartimento dell’azionario, Chris Iggo, a MF-MilanoFinanza.
E ancora: «Probabilmente i prezzi del petrolio dovranno stabilizzarsi e occorrerà fare chiarezza sui danni subìti da alcune economie come Russia e Venezuela, ma, dato che molte altre categorie di investimento si sono svalutate durante il recente sell-off, ci potrebbero essere delle opportunità in quegli attivi dove i prezzi si sono allontanati maggiormente dai fondamentali». Ma anche qui attenzione ad altre due variabili.
Prima, nel silenzio più totale lunedì la Banca centrale russa ha di fatto salvato con un prestito da 30 miliardi di rubli (343 milioni di dollari) la Trust Bank, già approvato dal board: per Anna Stupnytska, economista alla Fidelity Solutions, «il rischio di un default sovrano in Russia è molto basso, ma è nel settore corporate che ci sono le più grosse vulnerabilità, soprattutto nel comparto bancario». Lo stesso salvato e ristrutturato dopo il default del 1998, quando per cercare di salvare il rublo si bruciarono in pochi giorni decine e decine di miliardi di dollari di riserve. Secondo, la famosa crescita record degli Usa. Martedì infatti un dato ha messo il turbo alle Borse: l’economia americana è cresciuta del 5% nel terzo trimestre. Il Pil Usa è stato rivisto al rialzo dal precedente +3,9%, mentre gli stessi economisti si aspettavano sì una revisione ma a +4,3%. Si tratta della crescita più forte dal terzo trimestre del 2003, quando l’economia americana crebbe del 6,9% e la sola spesa sanitaria ha contribuito per mezzo punto percentuale alla crescita del Pil, dopo che nel secondo trimestre l’economia Usa era salita del 4,6%.
La revisione al rialzo del Pil americano, ha osservato Jason Furman, presidente del Council of Economic Advisers della Casa Bianca, mostra che nel terzo trimestre l’economia è migliorata al passo più rapido in oltre un decennio e che la crescita è in linea con una serie più ampia di indicatori, che segnalano passi avanti del mercato del lavoro, una maggiore sicurezza energetica e il continuo rallentamento della crescita dei costi della sanità. I passi compiuti per sostenere l’economia e per «costruire su nuove fondamenta hanno contribuito a rendere già il 2014 il migliore anno in termini di creazione di posti di lavoro dagli anni Novanta. L’anno in corso è stato di svolta, ma c’è ancora lavoro da fare per garantire che tutti gli americani possano trarre beneficio dall’accelerazione della ripresa».
Eh già, peccato due piccoli particolari: uno, il già citato settore dello shale gas e oil, fino a oggi vero e proprio traino occupazionale e produttivo e le dinamiche del prezzo del petrolio che potrebbero impattare su di esso. Due, la solita propensione degli statunitensi alla finanza creativa stile Fausto Tonna quando si tratta di dati macro. Come avete appena letto, la sola spesa sanitaria ha contribuito per mezzo punto percentuale alla crescita del Pil americano. Bene, lo scorso giugno quando uscì il dato finale sul primo trimestre dell’anno, scoprimmo qualcosa di strano, ovvero che senza il programma di spesa sanitaria Obamacare, il dato di crescita per i primi tre mesi dell’anno sarebbe stato negativo. Peccato che quella rivisitazione al ribasso del contributo di Obamacare fu fatta apposta per ridurre il dato del PIl del primo trimestre sulle stime flash e fu una revisione quasi senza precedenti, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Cos’ha quindi fatto il Dipartimento del Commercio Usa, siccome il primo trimestre fu un fiasco a livello di dato di crescita? Ha rimosso la spesa sanitaria per Obamacare come voce di contributo e l’ha spalmata sugli altre tre trimestri dell’anno, qualcosa come 40 miliardi di dollari.
Che dite, siamo capaci tutti a rivedere al rialzo il dato del Pil così, no? Meglio ancora, siccome il secondo trimestre non scontava ancora la crisi del prezzo del petrolio, ecco che quel gruzzolo è stato spostato sul terzo trimestre, quello il cui dato è stato trionfalmente presentato martedì. Non a caso, tra la seconda revisione del Pil del terzo trimestre e il dato finale, i consumi personali sono passati dal 2,2% al 3,2%, contribuendo per il 2,21% al dato del +4,96% in termini assoluti di crescita del Pil per quei tre mesi, in crescita dall’1,51%. E guarda guarda, come ci mostra quest’ultimo grafico, per quali beni gli americani hanno speso così tanto di più rispetto alla revisione del dato del Pil di un mese fa? Automobili? Beni ricreativi? Casa? Servizi finanziari o beni non durevoli? No, proprio spesa sanitaria: insomma, il miracolo del Pil al 5% nel terzo trimestre è un artificio contabile, esattamente come lo era nel primo trimestre la voce delle scorte di magazzino, unico driver manipolato di 90 giorni che altrimenti non avrebbero consentito nemmeno il dato leggermente negativo poi confermato dalle stime “ufficiali”. Certi dati macro, infatti, vanno sempre scomposti prima di essere letti, fidatevi.
Insomma, come vedete la realtà può essere più complessa di quella che appare, anche nelle previsioni di chi opera sui mercati. Attenzione, quindi, se avete intenzione di investire: fidatevi solo di professionisti e cercate di rimanere informati, perché a volte dietro indicazioni e certezze possono esserci variabili che se non prese in adeguato conto, possono presentare brutte sorprese.
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