Della serie, scusate ci siamo sbagliati ancora. L’indice Pmi composito dell’eurozona è sceso a febbraio a 52,7 punti dai 52,9 di gennaio, non centrando le attese degli economisti a 53,1 punti. Quindi, non c’è ripresa. Anzi, sì. «Il quadro generale è di una regione in ripresa. Non è una ripresa spettacolare ma certamente è un movimento nella giusta direzione, anche se con un paio di eccezioni, vedi la Francia», ha spiegato Chris Williamson, capo economista di Markit, la società che elabora l’indagine. Vedi la Francia? Ovvero, la seconda economia del continente, quella che si sta pericolosamente avvicinando all’area periferica abbandonando quella core: questa, per chi calcola i dati, è una delle piccole eccezioni.



Stando alla lettura preliminare di febbraio, l’indice Pmi sul terziario francese ha segnato un nuovo rallentamento, portandosi al livello più basso degli ultimi nove mesi a quota 46,9. Anche il comparto manifatturiero ha mostrato una nuova contrazione a 48,5, minimo da due mesi ed è rimasto al di sotto della soglia chiave dei 50 punti anche l’indice composito, sintesi di manifattura e servizi, a 47,6 da 48,9 finale di gennaio. Questa è la piccola eccezione. Ben diverso – ma guarda che strano – il quadro della Germania, dove l’indice composito si è attestato al massimo da tre anni e mezzo (56,1 da 55,5 finale di gennaio) e l’indice sul settore dei servizi si è portato a 55,4 da 53,1, ampiamente oltre il 53,4 del consenso. Ha frenato ma solo lievemente, a 54,7 da 46,5 di gennaio, deludendo le attese a 56,3, l’indagine sul comparto manifatturiero.



«La periferia si è tolta dalla recessione e la Germania si sta positivamente rafforzando», ha sottolineato ancora Williamson, secondo cui i numeri odierni sono coerenti con un’espansione del Pil della zona euro nell’ordine dello 0,5% nel trimestre in corso. Più nel dettaglio, l’indice Pmi servizi della zona euro si è attestato nella lettura preliminare di febbraio a 51,7 punti dai 51,6 di gennaio contro attese per un incremento più ampio a 51,9, mentre invece il Pmi manifatturiero ha segnato un calo a 53 punti dai 54 di gennaio su attese per un dato invariato. In compenso, sempre ieri è uscito il dato sul livello di fiducia dei consumatori europei: il peggior calo da diciotto mesi a questa parte e la peggior ratio stima/dato reale dall’agosto 2011. Insomma, voi chiamatela ripresa, se vi pare.



In compenso, ieri mattina Hsbc ha pubblicato l’Indice Pmi Manifatturiero in Cina e udite udite la stima preliminare di febbraio è risultata pari a 48,3 punti, dai 49,5 punti del mese precedente, indicando che l’economia cinese si è indebolita per il secondo mese consecutivo. E non di poco. In compenso, l’indice G10 Macro è ai minimi da otto mesi. La ripresa, come vedete, è davvero globale. Direte voi, c’è l’America che traina con la sua ripresa. E, in effetti. il dato flash dell’indice Pmi a febbraio è salito a 56,7 dal 53,7 di gennaio, il livello più alto da quattro anni, dato che ha rimesso un po’ in carreggiata le piazze europee e sostenuto Wall Street. Certo, c’è anche l’altra faccia della medaglia, ovvero quella certificata sempre ieri pomeriggio dall’indice Philly Fed – un indicatore regionale che misura le condizioni correnti del settore manifatturiero in Pennsylvania, soprattutto Philadelphia, New Jersey e Delaware – che con un robusto -6,3 rispetto ad aspettative di un +8, ha registrato il peggior calo e la peggior divergenza realtà/stime dall’agosto 2011, guarda caso come la fiducia dei consumatori in Europa.

Vi regalo qualche dettaglio, tanto per farvi capire quale sia il reale stato di salute degli Stati Uniti dopo qualche triliardo di liquidità facile. Partendo dal fatto che ponendo il dato degli ordinativi contro quello dei magazzini si è raggiunto il terzo peggior calo della storia, a febbraio i prezzi sono scesi al 14,2 dal precedente 18,7, i nuovi ordini sono scesi a -5,2 dal +5,1 del mese precedente, l’occupazione è scesa al 4,8 contro il 10 del mese precedente, le spedizioni sono crollate al -9,9 dal 12,1 del mese prima, i tempi di consegna sono saliti a 2,.9 da -3 del mese prima, le scorte di magazzino sono salite a 3,6 dal -20 del mese prima, i prezzi percepiti sono saliti al 7,6 dal 5,1 del mese prima, gli unfilled orders sono a -2,6 dal -1 del mese prima e la settimana di lavoro media è scesa a -7 dal -5,3 del mese prima. Evviva la Fed, evviva il Qe, evviva Bernanke e ora la Yellen.

Gli indici di Borsa americani sono crollati? No, anzi. E sapete perché? Per due motivi. Primo, il Philly Fed non è, di solito, una pubblicazione che muove i mercati, ma, assieme al Pmi di Chicago è considerato una buona misura di cosa aspettarsi dall’indice Ism manifatturiero nel suo complesso. Altri motivi per cui riceve attenzione sono la tempestività, esce il terzo giovedì del mese cui si riferisce e il fatto che l’area coperta dall’indagine è una delle più popolate degli Stati Uniti, quindi una sorta di fotografia del Paese. Secondo, perché dopo che mercoledì sera la Fed aveva fatto capire che si sarebbe proceduto con il taper e anche con un probabile rialzo dei tassi in primavera, fa sempre comodo l’arrivo di una mazzata con contemperi il troppo entusiasmo del dato Pmi per evitare che si dia troppo per scontato che alle parole della Fed poi seguano davvero i fatti, almeno nei tempi minacciati.

Signori, almeno due dati usciti ieri per Europa e Usa portano con loro una data comune: minimi da agosto 2011. Ve lo ricordate cosa fu l’autunno di quell’anno, al netto dell’addio di Silvio Berlusconi e lo spread a 575? Io, purtroppo, per vocazione cerco di andare alla radice e guardo sempre allo scenario più avverso per capire se vi sia o meno una via d’uscita che non comporti shock insostenibili. A oggi, non la vedo. A mio avviso, siamo ad un nuovo 2008. La massa di denaro utilizzata dalle banche centrali, Fed soprattutto, non è servita a nulla per l’economia reale – ogni dato macro ce lo conferma – ma solo per non far crollare il castello di carte della finanza. Ora però il sistema è sovraesposto alla leva, è insalvabile: ci sono contratti derivati in essere per triliardi e triliardi di dollari, il margin debt è ai massimi, ben peggio del periodo pre-Lehman, le banche tremano a ogni scossone perché esposte come un fondo speculativo e le economie che dovrebbero sottendere quei sistemi finanziari sono fragili come, se non peggio, allora. Basta davvero poco per innescare il domino.

Vi avevo detto che febbraio-marzo sarebbero stati i mesi del redde rationem. Vediamo se avevo ragione oppure no. Per intanto, benvenuti nella ripresa globale.