Dunque, facciamo un punto sulla situazione ucraina. Anzi, una bella inchiesta vecchia maniera. Per quanto gli eventi e la copertura mediatica del caso siano scoppiati nell’ultimo mese e mezzo, la radice della disputa è di qualche settimana precedente. Per l’esattezza, il 5 novembre del 2013. Quel giorno, il governo ucraino siglò un accordo da 10 miliardi di dollari con la multinazionale energetica statunitense Chevron per lo sfruttamento delle riserve di shale gas – il gas di scisto, la nuova frontiera degli idrocarburi -, il più grande contratto mai firmato in Europa fino a quel giorno e di fatto un passo avanti di Kiev verso la fine della dipendenza dal gas russo. In base alle clausole, Chevron si garantiva i diritti di sfruttamento ed eventualmente produzione di idrocarburi in due regioni occidentali del Paese, dove le stime ritenevano presenti riserve di gas pari a 2,98 tonnellate di metri cubi, le più grandi d’Europa. E proprio il presidente Viktor Yanukovich, ora riparato sotto l’ala protettrice di Mosca, quel giorno dichiarò: «Questo accordo ci permetterà di diventare autosufficienti per quanto riguarda il gas entro il 2020 e, volendo esplorare uno scenario ottimistico, di diventare anche un Paese esportatore». Questo, dopo che nel mese di gennaio lo stesso Yanukovich aveva siglato un altro accordo simile con la Royal Dutch Shell.



Ovvia la reazione di Mosca, la quale anche in vista dell’accordo politico e commerciale che l’Ucraina avrebbe dovuto firmare con l’Ue proprio alla fine dello stesso mese di novembre, impose subito il bando ai prodotti ucraini – dall’acciaio al cioccolato – e reimpose controlli doganali in spregio all’accordo con Bruxelles. Come sia andata a finire, è noto. Yanukovich alla fine scelse Mosca e voltò le spalle all’Ue, fomentando i moti di piazza – conclusisi in verità nella loro prima fase in maniera pacifica e dopo pochi giorni – ma ottenendo una linea di credito dalla Russia di 15 miliardi di dollari, capaci di mantenere in piedi le traballanti casse statali ucraine (e di pagare le bollette energetiche a Mosca, in quella che parve una ridicola partita di giro).



A dire il vero, esperti come Edward Chow del Center for Strategic and International Studies di Washington ridimensionarono la portata dell’accordo tra Kiev e la Chevron, sottolineando che «questi progetti di esplorazione richiedono molto tempo. Potrebbero volerci tre anni solo per sapere se veramente ci sono le risorse che si credono. L’esplorazione e lo sviluppo dei progetti, poi, potrebbero richiedere altri 3-5 anni e tra i 5 e 10 per ottenere un primo risultato». La stessa Polonia, dopo aver dato vita a test al riguardo, dovette ridimensionare e di molte le sue aspettative rispetto alle riserve di gas “non convenzionale”, ma il fatto che la produzione annuale di gas dai giacimenti in mano a Chevron potesse avere un potenziale di 8 miliardi di metri cubi all’anno e raggiungere gli 11-16 miliardi di metri cubi nei prossimi cinque anni, unendo la produzione della Shell, era troppo per Mosca, la cui dipendenza dall’oligopolio dell’energia rappresenta la base stessa dell’economia del Paese.



Non a caso, in risposta all’accordo con Shell del gennaio 2013, Gazprom inviò al governo di Kiev un bel conto da 7 miliardi di dollari per il gas che l’Ucraina contrattò con il gigante nel 2012 e che poi non utilizzò. Ma anche l’italiana Eni e la francese Edf erano interessate all’esplorazione dei giacimenti di idrocarburi del Mar Nero – guarda caso proprio nella costa est della penisola di Crimea oggi divenuta motivo del contendere bellico-diplomatico tra Mosca e Kiev – e speravano di poter chiudere contratti analoghi entro la fine del 2013. E non solo, funzionari del governo ucraino speravano di chiudere sempre entro la fine del 2013 un contratto con un consorzio guidato da Exxon-Mobil e che includeva la stessa Shell per l’esplorazione di giacimenti di idrocarburi lungo la costa ovest del Mar Nero. Insomma, troppo per Mosca. Che, infatti, lasciò sfogare la piazza degli europeisti quando Kiev firmò l’accordo alternativo con la Russia e non mosse un dito, facendo capire a Yanukovich a cosa andava incontro voltando le spalle al Cremlino e firmando contratti con competitor energetici occidentali.

La piazza si sfogò, poi tornò la calma. Ma solo perché occorreva preparare il terreno per la grande destabilizzazione, quella su larga scala che avrebbe avuto conseguenze geopolitiche, ma che avrebbe anche consentito manovre parallele utili alle grandi potenze in gioco, Usa in testa, cui la tensione innescata dal caso ucraino sta tramutandosi in un’enorme opportunità per far sgonfiare un po’ i mercati, sempre più in bolla. Ma andiamo per gradi. Detto fatto, dalla sera alla mattina, a Kiev non solo tornarono i cittadini in piazza, ma anche e soprattutto i miliziani armati e mascherati, le barricate, i cecchini e i morti. Insomma, qualcuno aveva scelto la carta della piazza, invertendo i ruoli del gioco: prima Mosca aveva lasciato che i manifestanti pacifici facessero capire a Yanukovich chi teneva il coltello dalla parte del manico, ora qualcun’altro aveva deciso per l’opzione estrema: il presidente che prima firmava contratti con le multinazionali occidentali aveva tradito, era tornato sotto l’ala protettrice di Mosca e quindi non serviva più. Anzi, andava proprio eliminato per favorire un rapidissimo regime-change che mettesse al potere un esecutivo filo-occidentale. Anzi, filo-Usa.

Non a caso, nei giorni degli scontri a fare notizia per la gente comune erano le violenze in piazza, per chi operava sui mercati – ovvero per chi fa le regole e decide i destini – le notizie erano il rischio default del Paese e una potenziale crisi bancaria. Tra il 18 e il 20 febbraio, in soli tre giorni sparì il 7% di tutti i depositi bancari ucraini (3,3 miliardi di dollari), una bank-run in piena regola, e le riserve della Banca centrale cominciavano a scarseggiare, stimate dal nuovo governatore, Stepan Kubiv, in soli 15 miliardi di dollari, mentre Goldman Sachs stimava le riserve in valuta estera tra i 12 e i 14 miliardi di dollari.

Unicredit cominciò a porre un tetto ai prelievi quotidiani, mentre Sberbank, la principale banca russa operante in Ucraina, smise completamente di erogare mutui e prestiti. Insomma, la cacciata di Yanukovich apriva nuove prospettive politiche, ma spalancava anche i timori finanziari. Casualmente, sia gli Usa – attraverso John Kerry in persona – che il Fondo monetario internazionale, che l’Ue, si mostravano immediatamente pronti ad aiutare l’Ucraina, i primi con 1 miliardo di dollari, il secondo con un prestito fino a 10 miliardi e la terza con 11 miliardi di euro in due anni. Insomma, il default era pressoché scongiurato, anche al netto dei 3,6 miliardi di dollari di interessi e capitale da rimborsare entro giugno dall’Ucraina per bond governativi in scadenza.

Capito il gioco, Vladimir Putin ha alzato il tiro militare, inviando truppe in Crimea e di fatto spalancando le porte al processo di secessione della regione da Kiev e l’annessione alla Russia, attraverso il referendum che si terrà domenica e che tutti gli organismi internazionali – G7 in testa – hanno già detto di non voler riconoscere. Mosca, nemmeno a dirlo, lo ritiene invece più che legittimo. E c’è dell’altro, sempre legato agli interessi energetici nell’area e al timore della Russia che gli Stati Uniti stessero pensando a un corner sul mercato del petrolio che ne facesse schiantare il prezzo per indebolire la bilancia commerciale russa e quindi la stabilità stessa dei conti di Mosca. Giova infatti ricordare ciò che vi ho fatto notare negli ultimi giorni attraverso due P.S. ai miei articoli su altri argomenti.

Quattro giorni fa, infatti, è emerso il dato in base al quale le posizioni nette long sul prezzo del petrolio – ovvero di chi scommette sul suo rialzo – il 4 marzo hanno toccato il record di tutti i tempi a 44 miliardi di dollari, dai 42,4 della settimana precedente, come mostra il grafico qui sotto. Quindi, avendo la quasi certezza che fosse in atto il preparativo di un corner per far crollare il prezzo – la Russia ha un break-even fiscale per il greggio a 117 dollari al barile – e mettere in difficoltà le casse statali, il buon Vladimir Putin ha mosso i carrarmati e fatto eccitare la speculazione internazionale con le parate dei cosacchi in Crimea.

 

Il problema, però, risiedeva nell’atteggiamento Usa di fronte a quel dato: se una qualsiasi mossa di distensione o di sfida, anche strumentale da parte di Washington, farà saltare il catalizzatore di quelle scommesse al rialzo e porterà a chiusure forzate delle posizioni call, cosa succederà al prezzo del petrolio e di conseguenza alla bilancia commerciale della Russia, nazione sì oligopolista dell’energia e con ottime riserve in valuta estera e oro, ma anche in recessione da almeno tre mesi e con il rublo in altalena? Già, perché questa crisi di contrapposizione tra Russia da un lato e Usa-Ue dall’altro ha anche un altro risvolto fondamentale per Washington: irrigidire i rapporti Est-Ovest per evitare che Mosca ottenga dall’Europa, quindi dalla Germania così dipendente dal suo gas e dalla Bce, un peg fisso tra euro e rublo al fine di farne terminare le fluttuazioni sui mercati valutari, vera croce dell’economia russa.

Per ora, pare esserci riuscita. E non solo in questo. Come vi ho già detto ieri e come volevasi dimostrare, gli Usa non hanno atteso molto nel reagire alla notizie del record di scommesse call sul prezzo del petrolio e poco dopo l’apertura delle contrattazioni a Wall Street hanno reso noto che attingeranno a 5 milioni di barili dalle riserve strategiche. Ecco la reazione del prezzo del Wti Crude (nel grafico), tanto per dimostrare ancora una volta come le guerra si combattano ormai nelle sale trading più che sui campi della Crimea. Ma siamo proprio sicuri che l’Ucraina abbia svoltato l’angolo ed eliminato i rischi di default? Oppure, se preferite questa chiave di lettura, siamo proprio certi che Putin sia stato messo in scacco dalla guerra economico-finanziaria Usa?

 

(1- segue)