Non so se Mario Draghi abbia un ghost-writer che gli scriva i discorsi, ma se così fosse quell’uomo sarebbe professionalmente uno dei più fortunati che abbia mai conosciuto. A fronte di uno stipendio sicuramente discreto, avrebbe infatti lavorato una sola volta otto mesi fa e da allora il copione sarebbe stato lo stesso, salvo qualche decimale di crescita o decrescita da mettere a posto. Non c’è altro da dire rispetto alla conferenza stampa tenuta ieri dal numero uno della Bce al termine del Consiglio direttivo che ha confermato i tassi d’interesse nell’eurozona al minimo record dello 0,25%. «Seguiamo con attenzione la situazione e siamo pronti ad agire se necessario», questo il mantra retorico ribadito da Mario Draghi, il quale si è limitato a confermare che la Bce monitora con attenzione l’evoluzione dei prezzi (ci si attende un «prolungato periodo di bassa inflazione») e qualora ci fosse la necessità è pronta «a considerare l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione».
La Banca centrale europea ha però rivisto lievemente in meglio le stime di crescita dell’Eurozona, portandole a 1,2% per il 2014, a 1,5% per il 2015 e 1,8% per l’anno successivo. Le stime di tre mesi fa indicavano un Pil in crescita all’1,1% quest’anno e all’1,5% il prossimo. Sulla ripresa restano tuttavia «rischi al ribasso». Il numero uno dell’Eurotower, in particolare, ha evidenziato soprattutto la possibilità di una «minore ripresa della domanda interna e di un rallentamento» nell’attuazione delle riforme strutturali».
Poi, la retorica da spread. «Quando guardiamo alla fiducia dei consumatori vediamo che il divario, specie fra Germania da una parte e Spagna e Italia dall’altra, si sta restringendo. Inoltre, la discesa degli spread di Italia e Spagna ci segnala che è in atto un processo di normalizzazione», ha detto Draghi, evitando però di dire che far riempire di bond sovrani i bilanci delle banche, salvo poi eliminare il concetto risk-free sulla loro detenzione perché tanto garantisce il “whatever it takes” della Bce, non è esattamente logica di mercato e del buon padre di famiglia. Ma tant’è. Il numero uno della Bce ha in ogni caso lanciato un chiaro avvertimento ai paesi, come l’Italia, che dovranno affrontare un consolidamento di deficit e debito: le strategie fiscali dei paesi dell’Eurozona «devono essere in linea con il Patto di stabilità e crescita europeo» ha dichiarato, aggiungendo di «accogliere con favore il richiamo lanciato ieri dalla Commissione europea in merito agli stati membri (tra cui c’è l’Italia) con squilibri economici e deficit eccessivi».
E l’inflazione (anzi, la deflazione)? Nell’area euro il caro vita è allo 0,8%, ben lontano dall’obiettivo ufficiale della Bce che punta ad un’inflazione inferiore ma vicina al 2% sul medio termine. Nonostante questo, per la Bce le dinamiche dei prezzi restano «saldamente ancorate» ai valori auspicati. Inoltre, le indagini sulle imprese hanno indicato un’accelerazione dell’attività economica a febbraio, con valori sui massimi da quasi tre anni. Un rafforzamento della crescita che attenua i timori sulla bassa inflazione e che, come vi avevo anticipato già la scorsa settimana, ha convinto Draghi a non fare nulla.
Anche riguardo all’ipotesi di sospensione della sterilizzazione degli acquisti di titoli di Stato, Draghi ha detto che «non è necessaria ora, ma è nella lista delle possibilità di intervento nel prossimo futuro». Detto fatto, i mercati delusi dalla replica delle conferenze stampa degli ultimi otto mesi hanno reagito rimandando l’euro/dollaro ben sopra quota 1,38, come ci dimostra plasticamente questo grafico, una vera manna per la ripresa nell’eurozona, soprattutto per l’export dei paesi periferici.
Ma vediamo in dettaglio alcune conclusioni di Draghi e la realtà dei fatti. Dunque, per il numero uno dell’Eurotower la disoccupazione si sta stabilizzando, ma resta alta. Balle, sta continuando a crescere a ogni rilevazione mensile, soprattutto nei paesi periferici ma anche in Francia che ha appena toccato il record assoluto. Sempre per Draghi, i rischi inflazionistici al ribasso rimangono limitati. Balle, il tasso inflattivo – salvo magheggi – sta continuando a scendere sempre più verso la deflazione conclamata. E poi i rischi sull’outlook economico che restano ribassisti. Balle, i titoli azionari sono ai loro massimi di sempre, il problema è lo scollamento tra finanza ed economia reale che anche la logica delle aste Ltro della Bce ha fatto in modo che si consolidasse e divenisse stigma.
E che dire dei salari reali, supportati dai bassi prezzi energetici: significa nulla più che l’Europa si suiciderebbe se desse via libera alle sanzioni contro la Russia, un messaggio molto chiaro. Insomma, per Draghi esiste un combinato di credito che zoppica, economia debole, bassa inflazione e ripresa a passo lentissimo: perché, quindi, non fa nulla? Perché non dà vita a qualche manovra di stimolo, se le sue conclusioni avrebbero questo come sbocco naturale? Vallo a sapere.
Anzi, lo so: Draghi sa che sta preparandosi la correzione dei corsi, sa che la luna di miele degli spread artificiali finirà e soprattutto che gli stress test potrebbero portare con sé, se non taroccati, degli scossoni notevoli. Quindi, si appoggia al Qe della Fed, la quale comunque sta ancora comprando per 75 miliardi di dollari al mese e manderà in cantina il “taper” per un po’ causa maltempo che ha frenato la crescita Usa e si tiene le armi pesanti, ammesso che esistano, per quando arriveranno i guai veri.
Da italiano, però, gli farei sommessamente notare che – al netto del programma di governo recapitatoci l’altro giorno da Olli Rehn e Commissione Ue – noi nei guai ci siamo già. E pesanti. Si è infatti registrata una nuova contrazione dei consumi a gennaio, visto che l’indicatore Confcommercio ha registrato una diminuzione dell’1,6% in termini tendenziali e un calo dello 0,3% rispetto a dicembre «evidenziando con chiarezza tutte le difficoltà dell’economia italiana, dopo due anni di recessione, ad avviarsi su di un sentiero di sviluppo che coinvolga in misura di un certo rilievo la domanda delle famiglie. Il ridimensionamento registrato a gennaio, dopo un trimestre di stabilizzazione dei consumi – spiega una nota – si aggiunge, infatti, ad altri indicatori dell’economia reale che sottolineano la complessità del quadro congiunturale della nostra economia che, dopo un quarto trimestre in cui si erano registrati timidi segnali di miglioramento, sembra essersi instradata più in una fase di stagnazione che di ripresa». Ma si sa, consumi in calo e inflazione bassa a Draghi non fanno paura: beato lui.
In compenso, il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha risposto di par suo al severo monito giunto dai vertici della Commissione Ue sullo stato dei conti italiani e, soprattutto, sulla necessità ormai inderogabile di incidere in modo strutturale sugli squilibri economici del Paese: «Agiremo concentrando le risorse per un intervento forte. Le coperture arriveranno dalla spending review con 5 miliardi sul 2014 e con misure transitorie come il rientro di capitali. Mentre sul deficit non dobbiamo tornare oltre il 3%», annunciando una task force per combattere l’arretrato rispetto ai decreti attuativi. Per il ministro, occorre «aggredire le cause di fondo della debole competitività delle imprese, mettendo quindi al primo punto la questione dell’eccessivo cuneo fiscale». L’obiettivo è «concentrare tutto l’intervento in una direzione, tutto sulle imprese, e quindi Irap e oneri sociali, oppure tutto sui lavoratori attraverso l’Irpef».
E le coperture? Tranquilli, ci sono i 5 miliardi su base annua – ovvero briciole, a fonte del 133% di debito pubblico sul Pil – della spending review di Cottarelli (ciao core, direbbero a Roma) e poi «misure transitorie come il rientro dei capitali», tutte da valutare e impossibili, agendo con deontologia e onestà intellettuale, da contabilizzare a bilancio, essendo una voce quantomeno aleatoria, esattamente come la mitologica lotta all’evasione fiscale di tremontiana memoria.
Dunque, Draghi non fa nulla se non vigilare e minacciare il famoso bazooka, quello scaricato ex ante dalla Corte costituzionale tedesca, mentre il ministro Padoan preannuncia di fatto il nostro commissariamento e l’esecuzione pedissequa dei diktat europei, salvo sparare cifre a caso sulla cosa più importante, ovvero le coperture delle manovre prospettate ai partner europei. Io avrei una ricetta migliore e ve la enuncio riproponendovi un grafico già pubblicato la settimana scorsa, rispetto i reali costi sostenuti dallo Stato italiano, con cifre al dicembre 2012: e se per rimetterci in carreggiata mandassimo a quel Paese l’Europa e i suoi fondi di salvataggio, che noi a differenza degli altri Pigs non abbiamo mai usato e mai useremo, visto che in caso di default o ristrutturazione siamo troppo grandi per essere salvati? Altro che dare 11 miliardi in due anni ai terroristi prezzolati e alleati con la Banca dei regolamenti internazionali e il Fmi che hanno preso il potere a Kiev…
P.S. «L’Europa è ora definita attraverso i vincoli che vengono imposti ai governi, non per le possibilità che permette alle popolazioni di migliorare le loro vite. È qualcosa di politicamente non sostenibile. Ci sono due soluzioni: avanzare immediatamente a una soluzione politica federale dell’Europa o ritornare a un’unione Europea senza una moneta unica e che permetta ai singoli paesi di decidere per loro. L’ultima opzione richiede controlli di capitali, default in diversi paesi, misure per affrontare la crisi finanziaria e un accordo su come affrontare la legalità dei debiti contratti. La fine dell’euro sarebbe una grande crisi, non c’è dubbio e non è auspicabile. Ma se una crisi è inevitabile, allora è meglio preparasi bene ad affrontarla, quando moderati e filoeuropeisti sono ancora al potere. Qualunque siano i prossimi passi, dobbiamo affrontarli democraticamente e non ha senso aspettare per sempre. Se l’euro alla fine verrà abbandonato, la mia previsione è che gli storici tra cinquant’anni si chiederanno, per prima cosa, perché mai è stato introdotto». Kevin O’Rourke, professore di Storia dell’economia all’All Souls College di Oxford, pubblicato in “Finance and Development” sul sito del Fondo monetario internazionale, marzo 2014.