Tutto fermo, per la settima volta di fila dopo l’annuncio di possibili azioni: tassi ancora allo 0,25% e niente strumenti non convenzionali di intervento. Parlando al termine del Consiglio della Bce, Mario Draghi si è limitato a confermare che «la Banca centrale europea manterrà i tassi di interesse ai livelli attuali o più bassi, per un esteso periodo di tempo» e che «l’Eurotower continuerà a portare avanti una politica monetaria accomodante, comunque pronta ad agire speditamente se necessario». Il parere del board sull’utilizzo di misure non convenzionali di politica monetaria è infatti unanime: «Il direttivo della Bce all’unanimità è impegnato a utilizzare tutti gli strumenti disponibili, anche quelli non convenzionali, nell’ambito del suo mandato, per far fronte con efficacia al rischio di un prolungato periodo di bassa inflazione», ha riaffermato il presidente dell’Eurotower, pronto quindi a usare tutti gli strumenti a sua disposizione, incluso l’acquisto di bond e il prolungamento delle operazioni di finanziamento senza limiti.

Parole, ancora una volta parole, le stesse da sette mesi. Per la Bce, infatti, gli ultimi dati in possesso confermano «le aspettative di un prolungato periodo di bassa inflazione, che sarà seguito da un movimento al rialzo solo graduale. Nel medio termine le aspettative di inflazione sono fermamente ancorate agli obiettivi della Bce di un tasso prossimo al 2%». A questo punto, però, viene da chiedersi cosa intenda Mario Draghi per medio termine. Non è mancato, ovviamente, il richiamo ai governi dell’eurozona, i quali a fronte degli ultimi dati che parlano di segnali di ripresa non devono quindi «dissipare i progressi fatti in materia di consolidamento fiscale e devono portare avanti riforme strutturali nel mercato del lavoro e dei prodotti per aumentare il potenziale di crescita dell’area euro e ridurre l’alta disoccupazione».

Sempre ieri, poi, Draghi ha messo in guardia sui rischi al ribasso derivanti dai “eventi geopolitici”, dalle possibili turbolenze sui mercati finanziari, in particolare gli emergenti e soprattutto dai movimenti dei tassi di cambio che l’Eurotower monitorerà da vicino: «Abbiamo discusso di tassi di cambio, è molto importante per la stabilità dei prezzi e la crescita e che il rafforzamento dell’euro, in vista della bassa inflazione, è causa di grande preoccupazione». Nel corso della conferenza stampa l’euro sul dollaro aveva preso il volo, arrivando a un massimo intraday di 1,3994 per poi crollare a 1,3879 dopo che il numero uno della Bce ha dichiarato che «prima di agire il direttorio vuole vedere l’aggiornamento delle previsioni» su economia e prezzi da parte dei tecnici della stessa Bce. E ancora una volta, minacce-promesse, visto che Draghi ha infatti poi aperto a un possibile taglio dei tassi di interesse a giugno: «In questo senso, la decisione odierna è stata una prova del vertice del prossimo mese».

Ora, al netto che stando a un sondaggio Reuters diffuso mercoledì, la maggior parte degli economisti si aspetta un intervento di Francoforte qualora l’euro arrivi a 1,42 dollari, qualcosa non quadra. Insomma, al netto di tutti o quasi dati negativi che imporrebbero l’azione, la politica della Bce rimane invece, per dirla all’inglese, “kicking the can”, si continua a calciare in avanti la lattina. Ora però comincio ad avere più di un dubbio sulle reali volontà di Mario Draghi, perché non ha senso continuare una strategia di annunci all’infinito se non sapendo che c’è già un piano prestabilito, che quegli annunci sono soltanto parte – integrante, sicuramente – di una recita a soggetto scritta altrove.

Dunque, al di là del fatto che il modello di rilevazione inflazionistico della Bce è chiaramente obsoleto, l’Eurotower ha lasciato che per diciannove mesi di fila il tasso di inflazione fosse ben lontano dal suo obiettivo di circa il 2% e ora decide di non operare – né sui tassi, né con strumenti operativi diversi -, per il semplice fatto che, dopo essersi fatta trovare con la guardia abbassata in marzo dal calo allo 0,5%, in aprile il tasso di inflazione sia risalito allo 0,7%, quando tutti sanno che il periodo pasquale, come quello natalizio, porta con sé effetti distorsivi nei calcoli e che un aumento dello 0,2% è comunque meno del previsto. Ma finché il mondo parallelo degli investitori vive grazie ai soldi facili e agli spread artificialmente abbassati, tutto va bene: il nostro decennale è sceso sotto il 3% di rendimento per la prima volta dall’introduzione dell’euro, quello spagnolo è al 2,97% e persino quello portoghese è sotto il 4%. Follia pura.

Per Neil Mellor della Bank of New York Mellon, «l’eurozona è preda delle forze speculative dal 2008, un qualcosa che ha portato tutti a disinteressarsi delle sempre crescenti ratio debito/Pil dei paesi in difficoltà. Insomma, si sono monetizzate, speculando, riprese economiche che non ci sono state». Prendiamo il caso della Spagna, la quale nel primo trimestre di quest’anno è cresciuta dello 0,4%, il dato migliore da sei anni a questa parte, nonostante l’export sia sceso dello 0,6%. Com’è stato raggiunto questo risultato? In parte, stimando il deflattore del Pil al -0,4%: se davvero quello è il livello reale della deflazione spagnola, sono in grossi guai. Oltretutto, ci si mettono anche le autorità a tenere bordone a queste ricostruzioni favolistiche di ripresa: lo “spring report” della Commissione europea parla infatti di un debito pubblico spagnolo che continuerà a salire quest’anno dal 93,9% al 102% del Pil e fino al 103,8% il prossimo anno.

Peccato che la realtà sia un pochino diversa: il Pil nominale spagnolo, infatti, si è contratto in tutti e quattro trimestri lo scorso annio, passando dai 256,918 miliardi del primo, ai 255,435 miliardi del secondo ai 255,336 miliardi e del terzo e per finire con i 255,299 del quarto. Con questa base nominale, il carico di debito totale va in area 300%. Lo stesso, all’incirca, vale per l’Italia.

Con queste dinamiche non si va da nessuna parte, lo conferma anche l’ex capo del programma del Fmi per l’Irlanda, Ashoka Mody, a detta del quale per riportare fuori dalle secche il Pil nominale e cercare di tornare a una minima sostenibilità del debito, Italia e Spagna hanno bisogno di un’inflazione al 2% per anni. Tanto più che è l’intera eurozona che non sta generando domanda interna e sfrutta quella del resto del mondo: basti dire che il surplus di conto corrente dell’eurozona ha raggiunto il 3,6% del Pil nel quarto trimestre dello scorso anno. Il tutto, in contemporanea con la decisione della Federal Reserve di tagliare le sue iniezioni di liquidità attraverso il “taper”, con la Cina che sta cercando in tutto i modi di sgonfiare la sua bolla del credito da 25 triliardi di dollari e il Giappone che stenta a ottenere risultati dall’Abenomics.

L’eurozona, inoltre, è l’area più debole dell’Ocse, ma ha la valuta più forte, pagando scotti di aumento di quotazione folli rispetto a diretti concorrenti commerciali: insomma, si sta andando verso la deflazione a tutta birra. Qual è, quindi, il mio dubbio? Che ovviamente la Bce dovrà prima o poi “dare il cambio” alla Fed per gestire lo stimolo monetario globale visto che l’America rallenta, ma il fatto che l’altro giorno, in audizione al Congresso, la numero uno della Federal Reserve, Janet Yellen, abbia fatto capire che le politiche di stimolo comunque continueranno, sembra prestare il fianco al fatto che Mario Draghi possa prendersi ancora un po’ di tempo prima di agire, cosa che ha fatto ieri.

La deflazione è un bene, sembrano dirci queste scelte, ma non è così: questa logica è solo lo scudo garantito dalle banche centrali, Bce in testa, verso chi ha interessi creditori da proteggere. Stanno ancora una volta salvando le terga alle banche, tedesche in testa, e ai grandi operatori finanziari esposti come mai alla leva e in assoluta necessità di guadagnare tempo, questo nonostante i paesi periferici scontino una crisi infinita, crescita che langue e tassi di disoccupazione ormai a livelli da rivolta sociale.

Pensate che la mia teoria sia troppo complottista? Guardate questo grafico: nonostante la Yellen, parlando mercoledì davanti al Congresso, abbia detto che non vi siano evidenze della presenza di bolle nel mercato, non vi pare che qualche distorsione invece ci sia, se i mercati hanno smesso di seguire i fondamentali circa due anni fa, soprattutto gli spread che hanno smesso di seguire, anzi hanno invertito la rotta, rispetto all’esposizione alla leva? Come vi dico da tempo, stiamo entrando in un nuovo 2008: ma se stavolta salta, salta tutto davvero. E lorsignori ci tengono troppo sia ai soldi, ma soprattutto al potere, al mantenimento della finanza come deus ex machina delle decisioni politiche a livello globale. Il timing della crisi ucraina, d’altronde, è lì a dimostrarcelo plasticamente.

E attenzione, cari lettori, che per l’Italia sta arrivando davvero il momento del salasso: perché pare che il mega-derivato contratto sul finire degli anni Novanta per centrare i parametri di Maastricht e farci entrare in Europa abbia scontato perdite parecchio alte, più del preventivato. Che ora vanno coperte. Indovinate chi pagherà?