Come volevasi dimostrare, il bluff di Draghi e del suo piano di acquisti sta perdendo appeal non solo in Borsa ma anche sui mercati dei cambi valutari, con il cross euro/dollaro già tornato in area 1,30 dopo aver toccato il punto di supporto di 1,28 che aveva fatto gridare tutti al miracolo. Regge solo la tregua dello spread, con il Tesoro italiano che ieri ha visto rendimenti in ulteriore calo su tutte le scadenze: questo nel giorno in cui la Bce ci metteva in guardia dal rischio di non centrare l’obiettivo di deficit a causa delle crescita eufemisticamente definita “lenta”, ma tant’è. Anche Wall Street comincia a perdere slancio, per almeno un paio di motivi. Primo, la festa dei buybacks azionari da parte delle grandi aziende sta finendo, come ci dimostra questo grafico:
Se infatti nel primo trimestre l’indice S&P 500 è stato sostenuto proprio dagli acquisti delle corporations, in gran parte finanziati indebitandosi pur di mantenere alti i prezzi e abbassare il flottante, nel secondo trimestre l’ammontare di questa pratica è calato del 27% a “soli” 117 miliardi, il nozionale più basso dal primo trimestre del 2013. La paura per una correzione dei corsi comincia a prendere piede ed è proprio questo il secondo motivo della debolezza guardinga di Wall Street e di riflesso anche delle borse mondiali. Alcuni analisti, infatti, hanno messo in guardia da un possibile calo, anche di parecchi punti percentuali, del valore dei titoli quotati negli Usa se dalle minute della Fed attese per la settimana prossima dovesse emergere un atteggiamento più da falchi nei confronti dell’ipotesi di un rialzo anticipato dei tassi.
E a mandare qualche segnale in tal senso ci ha pensato la sell-off verificatasi sui Treasuries mercoledì, con i rendimenti in deciso rialzo: tutti gli occhi sono puntati al 17 settembre, quando si capirà quanto questo rally reso possibile dalle politiche delle banche centrali potrà ancora correre o comincerà a rallentare. Ad oggi il consenso generale è per un primo rialzo dei tassi atteso per metà o il terzo trimestre del 2015 ma il timore è un’anticipazione che preveda il primo ritocco entro sei mesi, ovvero nel primo trimestre del prossimo anno, ipotesi che cambierebbe decisamente le strategie di investimento dei traders. James Paulsen, capo investimenti alla Wells Capital Management, è uno dei principali esponenti dei fronte pessimista, ovvero di chi si attende un cambio di passo della Fed e un declino di parecchi punti percentuali del mercato come conseguenza: “In parte sta già succedendo, basti vedere i bond che hanno subito un riprezzamento di 25 punti base e gli indici che stanno lottando per mantenere i livelli record raggiunti”. In effetti, martedì l’S&P ha conosciuto il peggior calo da cinque settimane a questa parte, salvo poi rimbalzare il giorno dopo grazie al Nasdaq trainato dalle novità presentate da Apple.
C’è invece anche chi scommette long, ad esempio in molti puntano sull’indice S&P a quota 2050, motivando questa scelta con il fatto che se anche la Fed dovesse alzare in anticipo i tassi, questo ritocco sarebbe minimo e comunque non in grado di intaccare corsi azionari così in alto: insomma, ogni sell-off legata alla Fed vedrebbe comunque concretizzarsi e rapidamente dai rimbalzi in tempi brevi per poi rientrare in rally, magari solo più moderato. Altra scommessa, in questo caso più plausibile, è quella del rendimento del Treasury decennale ancora sotto il 3% entro fine anno, lo stesso livello di trading di inizio 2014: attualmente siamo a quota 2,54%. Inoltre, occorre ricordare come i rendimenti nella parte più breve della curva siano stati molto sensibili alla speculazione, sia in attesa delle minute sia per il report uscito lunedì da parte della Fed di San Francisco che qualcuno riteneva prodromico a un’anticipazione delle decisioni da parte della Banca centrale, tanto che mercoledì il rendimento del quinquennale ha toccato l’1,79%, il livello più alto dal 31 luglio.
A detta degli ottimisti, occorrerebbe uno scenario decisamente mutato per andare incontro a dei rischi, ovvero un aumento netto dei tassi di interesse unito a un dollaro forte che vada a impattare sul prezzo delle commodities: ipotesi entrambe poco probabili, visto il riapprezzamento in una sola settimana dell’euro. Chi invece si è già posizionato sulla difensiva ha aperto posizioni per un indice S&P a 1850 entro fine anno, motivando la scelta anche dal fatto che alcuni dati macro peggiori o troppo in aumento, come ad esempio la crescita del tasso di inflazione, potrebbero innescare una spirale pericolosa per i titoli. Venerdì scorso molti analisti hanno bollato come anomalia il dato di soli 142mila posti di lavoro creati nel settore non agricolo in agosto ma in molti hanno drizzato le antenne e messo sotto osservazione altri dati riguardanti il mondo del lavoro, visti ora come potenziali catalizzatori. E proprio la pubblicazione di altri dati da qui al 17 potrebbe portare con sé i mutamenti di tono da parte della Fed che in molti temono, diventare il beta dell’annuncio della Banca centrale.
Se ad esempio si dovesse registrare pressione sui prezzi, alcune difficoltà legate alle risorse o settori in eccessiva esuberanza, questo potrebbe diventare lo spartiacque, il vero rischio. Tanto che un notorio investitore bullish come Michael Feroli, capo economista di JP Morgan, vede al 50% la possibilità di un mutamento di approccio da parte della Fed, tanto da aver dedicato all’ipotesi un report appena pubblicato: a suo modo di vedere, tutto sta nel driver dell’annuncio, ovvero se questo si baserà sulla guidance fin qui mantenuta, sintomo che i tassi bassi resteranno ancora a lungo oppure sui dati economici reali, ipotesi che allora potrebbe avvicinare l’aumento dei tassi di interesse. Chi invece non ha dubbi e ha anche la decenza di chiamare le cose con il loro nome è Deutsche Bank, la quale in un report stilato dal suo capo economista, Jim Reid, si esprime così rispetto al futuro prossimo dei corsi azionari: “La bolla probabilmente ha bisogno di continuare al fine di sostenere l’attuale sistema finanziario globale e il futuro, necessario deleveraging”. Il vaso di Pandora è scoperchiato: se la bolla non continua a espandersi, il sistema salta. A quel punto, anche la decisione sui tassi di interesse da parte della Fed sarà soltanto aria fritta.