Mercoledì Silvio Berlusconi è tornato a parlare in pubblico nel corso di un incontro a Roma. E fin qui niente di eclatante. La cosa che un po’ mi ha fatto rabbrividire – e temere per la salute di un convinto assertore del liberismo di centrodestra come Antonio Martino – è che il capo della supposta opposizione liberale di questo Paese, l’uomo che da sempre si richiama ai valori del mercato, abbia chiesto che la Bce monetizzi il debito come hanno fatto la Fed e la Bank of Japan e che, soprattutto, abbia definito questi due esperimenti di stimolo monetario un successo (sorvolo, per carità di Patria, sulla proposta della doppia moneta). Bene, vediamo un po’ di cifre e fatti che documentano l’enorme successo della stamperia messa in piedi dalla Fed (del Giappone penso siate stufi di sentir parlare, visto quanto il tema è stato sviscerato su queste pagine), contestualizzandoli poi nell’attuale scenario di instabilità globale, sia finanziaria che geopolitica, che legata all’andamento del prezzo del petrolio, un driver che lega i due precedenti quadri.
Bene, stando a dati della Mba statunitense, nella settimana terminata il 9 gennaio il numero di richieste di mutuo negli Usa era salito del 49,1%, di fatto un segnale di salute enorme per uno dei settori strategici dell’economia statunitense, l’immobiliare. Peccato che quei dati fossero legati a dinamiche meramente stagionali, mentre quando si vanno a vedere le cifre reali gli effetti del Qe sul comparto real estate siano un po’ diversi. E a confermarcelo è il principale generatore di mutui del Paese, Wells Fargo, e il primo grafico a fondo pagina parla più di mille parole: dopo essere sceso al minimo record di 36 miliardi nel primo trimestre del 2014, il numero di nuovi mutui originati è cresciuto, salvo però crollare nel quarto trimestre dello scorso anno, un risultato che è il secondo peggiore di sempre. E la cosa più interessante è che la stessa Wells Fargo, presentando il dato, ha dichiarato che le aspettative per il primo trimestre del 2015 sono simili a quelle dell’ultimo del 2014: insomma, un flop in uno dei settori chiave.
Ma andiamo avanti ed entriamo proprio nel più puro spirito americano, l’american dream della libera impresa e facciamolo sfatando da subito un mito: gli Usa sono dodicesimi nel ranking del mondo sviluppato in termini di attività delle start-up, dietro paesi come Ungheria, Danimarca, Finlandia, Nuova Zelanda, Israele, Svezia e persino la nostra tanto vituperata Italia. Non lo dice il sottoscritto ma Gallup, il più importante istituto demoscopico d’Oltreoceano, il quale due giorni fa ha certificato quanto segue: per la prima volta in 35 anni, ci sono state più chiusure che aperture di attività commerciali. Il Census Bureau statunitense, infatti, ha dovuto ammettere che per la prima volta da quando viene tracciato il dato, le start-up di nuove aziende e le chiusure di aziende già esistenti hanno varcato il Rubicone del trend negativo: per 400mila nuovi business nati annualmente, quelli falliti sono stati 470mila, come ci mostra il secondo grafico.
E pensate che fino al 2008 il numero di nuove attività superava quello dei fallimenti di circa 100mila unità, poi il trend si è invertito: direte voi, effetto della crisi. Certo, ma anche dimostrazione che tre cicli di Qe non hanno fatto nulla per la cosiddetta “main street” e tutto per Wall Street, visto che in termini di sopravvivenza aziendale il dato ora è -70mila, come ci dimostra il terzo grafico.
Insomma, la Casa Bianca e la Fed avevano bisogno di vendere agli americani e al mondo l’illusione della ripresa economica solo per un motivo, perché il mercato azionario vive di illusioni: in realtà, non c’è nessuna ripartenza e non ci sarà finché questa dinamica tra nascita e chiusura di aziende non sarà di nuovo invertita. Se piccole e medie aziende muoiono in numero maggiore di quanto nascono, lo stesso destino vale per la libera impresa e se muore la libera impresa, muore l’America.
Vediamo qualche numero: da più parti si afferma che negli Usa ci sono 26 milioni di aziende, ma non è vero, visto che 20 milioni di queste sono inattive, non vendono, non generano profitti e non hanno né clienti, né lavoratori: numeri Gallup, non miei. Il numero che conta è quello relativo ai business attualmente operativi e con uno o più impiegati e in questo caso si scende a 6 milioni: 3,8 dei quali hanno quattro o meno lavoratori, mentre ci sono circa 1 milione di aziende che impiegano dai 5 ai 9 lavoratori, 600mila che ne impiegano da 10 a 19, 500mila che danno lavoro a 20 fino a 99 impiegati, 90mila che occupano dai 100 ai 499 impiegati e soltanto 18mila che danno da lavorare a 500 e più impiegati. Di queste ultime, circa 10mila sono grandi aziende che impiegano oltre 10mila persone.
E sapete quanto conta lo stato di salute della cosiddetta America Inc. relativamente al futuro della nazione? Vi rispondo con le parole dell’ammiraglio, Mike Mullen, quando il 28 giugno del 2011, durante un’audizione al Senato, gli venne chiesto quale ritenesse il pericolo maggiore per la sicurezza degli Usa: «Penso che il nostro debito sia la più grande minaccia alla sicurezza nazionale». Non Al Qaeda o l’Iran con l’atomica, il debito. Questo perché quei 6 milioni di business attivi garantiscono il lavoro a più di 100 milioni di americani e questo garantisce allo Stato una base fiscale, ovvero tasse e possibilità di avere un welfare, per chi se lo può permettere nella democrazia più avanzata del mondo. Di più, quando Gallup chiese in un sondaggio quali fossero i problemi più gravi che l’America doveva affrontare pensate che qualcuno abbia detto il terrorismo islamico? No, le tre minacce principali per i cittadini erano l’economia al 59%, il deficit di budget al 58% e la gestibilità della spesa sanitaria al 57%.
Ma andiamo avanti, perché mercoledì negli Usa è uscito il dato sulle vendite al dettaglio, altro chiaro indicatore dello stato di salute dell’economia reale e cosa ne è venuto fuori? Le vendite al dettaglio negli Stati Uniti sono diminuite a dicembre, a causa della benzina più economica ma anche dei risultati sorprendentemente deboli ottenuti dai negozianti durante il mese natalizio. Il dato, reso noto dal dipartimento del Commercio americano, è sceso dello 0,9% rispetto a novembre, il maggior declino dal gennaio 2014, tanto che gli analisti attendevano una diminuzione dello 0,1%.
E non si può nemmeno vendere la balla del prezzo del petrolio come driver di questo cattivo risultato, perché escludendo quelle di auto e benzina, le vendite sono diminuite dello 0,3%, mentre si attendeva un +0,5% su base mensile. Il dato di novembre poi è stato rivisto al ribasso, dal +0,7% al +0,4%, così come quello di ottobre (sceso dallo 0,5% allo 0,3%). In tutto il 2014, le vendite al dettaglio sono aumentate solo del 4%, il minor aumento dall’inizio della ripresa economica, più di cinque anni fa, e badate bene che le spese per consumi rappresentano un’ampia parte, circa il 70%, del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti, che è a sua volta un termometro dell’andamento dell’economia del Paese. Inoltre, il crollo inaspettato ha riguardato 9 delle 13 principali categorie messe nel paniere: un po’ troppo comodo, quindi, dare la colpa al prezzo del petrolio, è l’economia Usa che non è affatto ripartita, nonostante i record di Wall Street.
La cosa più preoccupante, però, è proprio che su questo quadro tutt’altro che roseo per l’economia Usa va a impattare adesso anche il calo del prezzo del greggio, tanto che nel suo ultimo “Beige Book” presentato due giorni fa la Fed ha parlato chiaramente di preoccupazioni per gli impatti che questa dinamica può avere sull’economia reale. Se infatti il calo delle quotazioni è un bene per i consumatori, sta creando non pochi problemi alle aziende del comparto, con la Fed di Dallas che ha reso noto come le attività in Texas stiano cominciando a congelare le nuove assunzioni e i nuovi progetti per compensare il calo della domanda che va dal 15% al 40%. Stesso problema anche nella regione di Kansas City, dove sia l’attività di trivellazione che l’investimento in capitale sono stati rivisti al ribasso, anche a causa delle crescenti difficoltà nell’ottenere credito. Ma settore energetico a parte, la Fed ha notato un basso livello di consumi durante il periodo natalizio nel distretto di New York, preoccupazione confermata dal prima citato dato sulle vendite al dettaglio: per la Banca centrale, la spesa per consumi è cresciuta «in modo modesto» nonostante il calo del prezzo per l’energia che in alcune aree ha spinto il gallone sotto i 2 dollari. Ma nonostante tutto la Fed ha una sua nomea da mantenere, quindi ecco il lato positivo: le aspettative di una crescita più rapida restano intatte – dando un’occhiata ai numeri finora snocciolati non ne si capisce il motivo – perché sia i salari che la domanda di credito stanno crescendo: peccato che sia la stessa Federal Reserve, due righe dopo, a dover ammettere che i salari crescono moderatamente, mentre le pressioni salariali sono limitate ai lavoratori specializzato in ambito tecnico e la crescita nel settore residenziale e delle costruzioni «rimane piatta».
Detto fatto, ieri il dato sulle nuove richieste di sussidio di disoccupazione negli Usa ha confermato la grande ripresa: +316mila contro una previsione di 290mila, il peggior aumento dal giugno 2014. E che le dinamiche dei prezzi petroliferi stiamo cominciando a mordere l’economia Usa lo ha confermato ieri anche l’Opec, precisando che però il rallentamento non impedirà alla domanda di petrolio da parte del cartello di cadere quest’anno al livello più basso di un decennio. Nel suo report mensile, l’Organizzazione ha infatti previsto che la domanda di petrolio da parte del gruppo scenderà a 28,78 milioni di barili al giorno quest’anno, 140.000 barili al giorno in meno rispetto alla sua stima precedente. Si tratta del valore più basso dal 2004. In ogni caso ha alzato le stime sulla domanda mondiale di petrolio per quest’anno di 30.000 barili al giorno a 1,15 milioni di barili, come risultato di un aggiustamento della domanda nei Paesi Ocse, America e alcuni Paesi dell’Asia.
L’Opec ha anche tagliato il tasso di crescita dell’offerta non-Opec in parte a causa di un rallentamento del boom dello shale Usa: «Poiché la perforazione diminuisce a causa dei costi elevati e di un prezzo del petrolio che potenzialmente resterà basso, la produzione seguirà questo trend, probabilmente alla fine di quest’anno», ha fatto presente l’Organizzazione che, infine, ha abbassatole sue previsioni sulla fornitura di greggio totale da parte degli Stati Uniti quest’anno di 100mila barili al giorno. Dopo le previsioni dell’Opec il Brent si è confermato in calo, riportandosi sui minimi da sei anni, dopo che mercoledì per effetto della scadenza delle opzioni era balzato del 4,5%, maggior rialzo dal giugno 2012 ma aveva subito ritracciato dopo l’annuncio di un nuovo aumento delle esportazioni dell’Iraq a febbraio. Insomma, l’impostazione del mercato resta ribassista, visto che la produzione non accenna a diminuire e l’ultimo segnale di eccesso di output giunge dal dato della produzione in Russia, tornata ai livelli dell’era sovietica.
E qui occorre fare molta attenzione, perché tra alcune verità, l’Opec racconta anche parecchie bugie a fini strategici, visto che è di mercoledì il dato in base al quale le scorte di crude negli Usa sono cresciute di 5,39 milioni di barili, contro l’attesa di soli 1,75 milioni di barili e un calo lo scorso mese di addirittura 3,062 milioni di barili. L’Opec dice il falso, perché come ci mostra questo grafico, la produzione di US crude non presenta alcun segnale di rallentamento e, anzi, la scorsa settimana gli Usa hanno prodotto qualcosa come 9,19 milioni di barili al giorno, record assoluto dal 1983, anno in cui si cominciò a tracciare il dato.
Ecco quindi emergere con sempre maggiore chiarezza la strategia Usa che vi spiegavo nel mio articolo di ieri, il concetto di “State within a State”, ovvero una situazione politica relativa a una nazione in cui un organo interno, il cosiddetto “Deep State”, come ad esempio le Forze armate, i Servizi segreti o la polizia, non rispondono più a una leadership civile. Visto che per una serie di ragioni (instabilità geopolitica, aumento dei consumi interni nelle nazioni esportatrici, contrazione del capitale a disposizione per rimpiazzare la produzione in calo) il cosiddetto “cheap oil”, il petrolio a basso costo, è destinato a diventare scarso, per il “Deep State” è un’eccellente strategia quella di consumare il petrolio di chiunque voglia venderlo a 40-50 dollari al barile e mantenere intatte le proprie riserve quando sarà quota 100 dollari a diventare di nuovo “cheap”.
Ci sono quindi almeno due ragioni per cui il “Deep State” statunitense sia paradossalmente a favore della strategia saudita di forzare un taglio della produzione verso i suoi rivali: primo, la perdita di introito per i rivali/nemici è una forma molto a buon mercato di warfare finanziario che indebolisce la loro abilità di mantenere forze armate e prestazioni di welfare state, attualmente garantite dagli introiti dell’export di petrolio. Quindi, sono più facilmente destabilizzabili. Secondo, l’opportunità di consumare il petrolio a buon mercato di qualcun’altro lascia le riserve Usa al sicuro e pronte all’utilizzo e alla vendita in tempi futuri e a prezzi maggiori, data la maggiore richiesta.
Il dato su riserve e produzione parla chiaro, così come le preoccupazioni più o meno mascherate della Fed nel suo “Beige Book”: da un lato si dà vita a una strategia che vedrà le scorte Usa ai massimi quando il petrolio comincerà a risalire, soprattutto grazie ai giochi con le opzioni call, e dall’altro si cominciano a instillare dubbi e preoccupazioni sulla ripresa economica utilizzando proprio il crollo del prezzo del greggio come alibi, quindi scagionando la politica della Fed e creando le condizioni per ciò di cui vi parlo da mesi: la necessità di un quarto ciclo di Qe per mantenere in vita il boom artificiale di Wall Street, arrivato oggi a livelli insostenibili per più di un indicatore tecnico e non supportabile da quella pagliacciata che si prepara a essere il Qe della Bce (nonostante la decisione di ieri della Banca centrale svizzera di abbandonare la soglia minima di 1,20 sul cambio euro-franco, tagliando al contempo anche i tassi di interesse sui depositi a -0,75% da -0,25%, sia letta da molti non solo come la conferma che il Qe ci sarà, ma che sarà anche di enormi proporzioni). Ma gli scenari sono molto più ampi e ne parleremo domani.
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