Avrete certamente sentito parlare di dinamica “boom&bust”, ovvero de facto la teoria dei cicli economici della Scuola austriaca di economia, in cui uno dei concetti chiave è il fatto che l’intervento delle banche centrali non aiuta a limitare l’ampiezza dei cicli, ma spesso è causa stessa dei cicli economici, diretto risultato dell’eccessivo flusso di credito ai mercati, facilitato proprio da un’intenzionale politica di bassi tassi di interessi decisa dai governi. Quindi, con la manipolazione dei tassi di interesse, soprattutto al ribasso, le banche centrali creano periodi di boom artificiale e insostenibile che termina, sempre, in recessione. 

Per capire meglio i contenuti dell’articolo, proverò ora a sintetizzare al massimo la teoria del ciclo economico, sviluppatasi di fatto tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso, quando Ludwig Von Mises e Friedrich Von Hayek la raffinarono e spiegarono le ripercussioni di una variazione del tasso di interesse sulla struttura produttiva. La teoria esamina due situazioni: la prima in cui il tasso d’interesse scende perché la gente risparmia di più e la seconda in cui questa diminuzione avviene perché il sistema bancario ha ingannato il mercato creando denaro dal nulla. 

In un mercato libero, la diminuzione del tasso d’interesse segnala quindi che la gente sta consumando relativamente meno (risparmia di più) oggi con l’intenzione di aumentare i suoi consumi nel futuro: l’economia è ora pronta per crescere in modo sostenibile. Le famiglie hanno segnalato agli imprenditori di voler diminuire i consumi attuali per aumentare quelli futuri e il risparmio reale che si è creato è proprio ciò che alimenterà gli investimenti necessari per modificare la struttura del capitale e aumentare la produzione nel futuro. 

C’è poi la seconda variabile, ovvero la crescita economica indotta da un’espansione monetaria. Nelle economie moderne non è solo l’interazione tra risparmiatori e imprenditori a determinare il tasso di interesse, ma c’è la presenza ingombrante della Banca centrale che, come abbiamo visto in questi mesi e come ho cercato di spiegarvi a più riprese, ha il potere di manipolare i tassi di interesse a breve creando denaro dal nulla. Che cosa succede quando la Banca centrale decide di attuare una politica monetaria espansiva e abbassa artificialmente i tassi di interesse? 

Da una parte abbiamo i risparmiatori che, a fronte di un tasso d’interesse minore, decidono di diminuire i risparmi reali e aumentare i consumi presenti. Se il tasso d’interesse è molto basso, l’incentivazione diventa ancora più perversa ed è possibile che le famiglie non risparmino proprio niente e ricorrano anzi allo strumento del credito per finanziare ulteriori consumi: esattamente ciò che è successo negli Stati Uniti dopo il 2000. Dall’altra parte abbiamo invece gli imprenditori che interpretano il calo del tasso d’interesse in maniera opposta, ovvero ritengono che le famiglie stiano ora risparmiando e che saranno quindi pronte ad aumentare i consumi nel prossimo futuro. Il tasso d’interesse molto basso fa sì che numerosi progetti d’investimento che erano stati inizialmente giudicati fallimentari ora siano visti come profittevoli: quindi, non solo aumentano gli investimenti oltre la capacità di risparmio (overinvestment), ma questi vengono indirizzati verso progetti a lungo termine che sono destinati a fallire (malinvestment). 

Ricapitolando, una diminuzione del tasso d’interesse dovuta a un’espansione monetaria “tira” la struttura del capitale in due direzioni: nella sua parte terminale, per far fronte a un aumento dei consumi, e in quella iniziale, per far fronte all’aumento degli investimenti. Chiaramente questo tipo di crescita non è sostenibile a lungo e la situazione è destinata a tradursi in un boom che, dopo un certo periodo, si tramuta inevitabilmente in recessione. 

Bene, ora dalla teoria (seppur molto stringata e semplificata) passiamo alla pratica, perché il Giappone attuale e la politica di stimolo del suo governo denominata “Abenomics” rappresenta al meglio quest’ultimo scenario di ciclo “boom&bust” della teoria austriaca. L’ultimo dato trimestrale del Pil nipponico si è rivelato un assoluto disastro, visto che gli economisti avevano previsto una crescita tra il 2,2% e il 2,5%, ma il risultato è stato invece quello di una contrazione dell’1,6% su base annualizzata, quindi un -0,5% su base mensile: questo dopo il trimestre precedente nel quale il Pil era sceso addirittura del 7,3% su base annualizzata e dell’1,9% su base mensile. 

Insomma, a fronte di un’attività di stampaggio moneta quasi senza precedenti, l’efficacia di questa politica di eccessiva creazione di moneta è stata pari a zero, come ci dimostra il primo grafico a fondo pagina: la linea nera rappresenta l’espansione annuale della base monetaria a partire dal 1990, mentre quella del tasso di crescita anno-su-anno del Pil è la linea verde. Noterete da soli come dal 2013 la linea nera sia letteralmente esplosa, anche se nel 2014 il tasso di crescita si è un po’ ridotto, ma a far impressione è il fatto che nonostante questo, la linea verde del Pil sia letteralmente collassata. 

Il secondo grafico ci mostra invece l’andamento dei tassi di interesse giapponesi negli ultimi quaranta anni e fa notare plasticamente come a partire dal 2000 il Giappone abbia vissuto perennemente in un ambiente di tassi a zero, stiamo parlando di quattordici anni! Dal 2012 in poi, con il governo di Shinzo Abe, è inoltre partito l’esperimento dell’Abenomics, un programma aggressivo di riforme basato su tre elementi chiave: stimolo fiscale, riforme strutturali e allentamento monetario. Nei fatti, solo questa terza voce ha realmente caratterizzato le politiche economiche, ma nonostante questo il tasso di inflazione al 2% che era nelle intenzioni iniziali dei regolatori rimane un miraggio, nonostante il Qe in atto e tassi di interesse a zero. 

Insomma, i dati parlano chiaro e confermano la teoria della Scuola austriaca: la manipolazione dei tassi di interesse ha sempre delle conseguenze, in questo caso il rischio di sprofondare in recessione. E il problema non il “se” accadrà, ma “quando” accadrà: questa è la variabile che rischia di spiazzare i mercati e creare danni incalcolabili. E attenzione, perché la politica manipolatoria sui tassi va sempre di pari passo con quella altrettanto manipolatoria dei politici nei confronti di cittadini e imprenditori, ovvero creare enormi aspettative di inflazione crescente per spingere consumatori e business ad anticipare e accelerare i propri consumi e investimenti, facendo così in modo di garantire una dinamo all’attività economica: il problema è che questo tipo di logica di per sé è già fallace, ma messa in atto in un Paese con la ratio debito/Pil ben oltre il 240% è assolutamente suicida. 

Insomma, per i keynesiani nipponici e il loro guru Krugman, la crescita economica è parzialmente basata sull’aumento dell’inflazione, dinamica che intendono ottenere attraverso una crescita indotta dei consumi. Peccato che, come ci dimostra il terzo grafico, ci vorranno anni prima di raggiungere l’obiettivo di un aumento dei prezzi al 2%, un lasso di tempo durante il quale potrebbe però intervenire la dinamica “bust”, visto che oltre ai dati macro da mani nei capelli, la Bank of Japan sta monetizzando il 100% delle nuove emissioni di debito pubblico, di fatto distruggendo il mercato obbligazionario che non riesce più a fare prezzo, visto che comunque la Banca centrale compra qualsiasi sia il tasso di interesse. 

Non è un caso che la scorsa settimana il ministero delle Finanze nipponico abbia non solo piazzato 22 miliardi di dollari di obbligazioni a due anni con rendimento negativo del -0,003%, primo caso di bond governativo non a breve termine che sconfina in quel territorio, ma ha anche visto il titolo a 10 anni prezzare uno yield dello 0,31%, record al ribasso dall’aprile 2013 quando la Bank of Japan annunciò l’inizio del programma di stimolo. E attenzione, qui siamo alla follia pura: se infatti i rendimenti negativi sono ormai un classico sulla curva obbligazionaria nipponica, con i bill a 3 mesi e un anno che restano sotto quel livello da gennaio, il continuo aumento di prezzo e calo di rendimento su altri settori della curva ci confermano soltanto una cosa, ovvero la carenza a livello globale di collaterale di alta qualità (un qualcosa che nel 2015 peggiorerà per un ulteriore 20%), dovuta alla scelta delle banche centrali di inondare i mercati, potenziale detonatore in negativo della volontà attuale delle stesse di portare a un aumento artificiale dei rendimenti per “confermare” a livello globale che una reflazione è già in atto. 

Questo perché il Giappone non è il solo caso: lo yield del Bund a due anni è rimasto negativo da agosto in poi, mentre per quanto riguarda il debito svizzero il rendimento è negativo anche sulla note a 5 anni. Ecco gli effetti, gli unici, della politica della Bank of Japan sui mercati: distorsione, la teoria austriaca al suo meglio. E il perché è presto detto, visto che la Banca centrale nipponica con la sua espansione del programma di acquisti fino alla monetizzazione del 100% delle emissioni lorde del 2015 ha innescato anche un’altra dinamica: Tokyo sta infatti comprando non solo i propri bond, ma anche quelli già esistenti sul mercato privato, di fatto permettendo ai soggetti da cui acquista titoli l’operatività sul mercato verso altre securities. Ciò, garantisce liquidità attraverso l’acquisto di propri titoli di debito e con quella liquidità i soggetti privati possono comprare altro.

Insomma, Tokyo sta comprando tutto, in maniera diretta o indiretta, basti vedere il dato in base al quale i fondi pensione nipponici nel terzo trimestre di quest’anno hanno acquistato securities non giapponesi per 18,6 miliardi di dollari, il dato maggiore dal 1998 e sette volte tanto rispetto al secondo trimestre. E cosa ha permesso loro di fare questo? Il fatto di aver venduto 2,85 triliardi di yen di bond nipponici nei tre mesi conclusisi il 30 settembre, un massimo storico e il doppio di quanto scaricato nel secondo trimestre. E a chi hanno venduto? Ma alla Bank of Japan, ovviamente! La quale, così facendo, non solo ha acquistato ma ha anche ucciso il mercato, perché continua ad alzare l’asticella della domanda di prezzo per i bond governativi lungo tutta la curva, schiantando i rendimenti: insomma, compra solo lei e a ogni prezzo, quindi se ancora esistesse una logica di mark-to-market oggi nessuno saprebbe in realtà quale sia il reale valore di quella carta, non avendo essa di fatto un mercato privato e libero ma solo statale e monopolistico. 

Capite ora perché tutti tifano per l’Abenomics e anzi chiedono sempre maggiori implementazioni degli acquisti? Perché, indirettamente, la Bank of Japan sta comprando anche securities straniere per un ammontare record, triliardi di acquisti di titoli: una manna per chi vuole vincere facile. Quindi, in parole povere, fino a quando i tassi giapponesi continueranno a scendere grazie agli acquisti della Bank of Japan, le equities a livello globale continueranno a salire, sfondando record dopo record: siamo alla sperimentazione faustiana di un sistema monetario in cui nulla più conta, tanto meno i fondamentali, se non l’operato delle Banche centrali. 

Così facendo però la Bank of Japan sta giocando con il fuoco: se infatti essere bullish sul Giappone è stata una moda per almeno due anni, con gli investitori esteri che pesano per il 60% del trading sulla Tokyo Stock Exchange, a oggi non solo l’obiettivo di alzare il tasso di inflazione non è affatto raggiunto, ma, come vi dicevo mercoledì, dopo aver pompato liquidità come non ci fosse un domani nei titoli giapponesi lo scorso anno, proprio gli investitori stranieri stanno scappando e come dei pazzi: gli inflows nel mercato nipponico sono infatti calati del 94% a quota 898 miliardi di yen (7,5 miliardi di dollari), un tasso tale da portare il livello di investimento estero annuale ai minimi dall’inizio della crisi nel 2008. Quindi, ora si capisce il vero intento dei sempre maggiori stimoli voluti dal governo, l’ultimo la scorsa settimana per 29 miliardi di dollari: mantenere in piedi la facciata, ovvero fare in modo che la Bank of Japan compri tutto il comprabile e non faccia crollare, dopo il mercato obbligazionario, anche l’indice Nikkei. 

Inoltre, sfortunatamente per i pianificatori centrali, una vera ripresa economica non può seguire a un periodo dominato dalla paura e dello scetticismo, con consumatori spaventati dall’idea di spendere troppo e gli imprenditori disincentivati dall’investire. Poi, scorporando le componenti del PIl giapponese si scopre che gli effetti di stimolo dell’Abenomics sui cittadini, business ed export sono tutti a breve termine, col fiato corto e quindi senza effetti reali nell’innescare dinamiche di crescita sostenibili, mentre l’unico segmento che beneficia di un reale effetto economico è quello della spesa pubblica. Di più, il potere d’acquisto netto dei cittadini è sceso, visto che come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, il gap tra salari nominali e reali si sta allargando, uno dei trend che deve in assoluto spaventare di più, visto che ci dimostra plasticamente come i lavoratori siano le prime vittime de facto della politica di stimolo del governo. 

Di conseguenza, anche il prestito bancario, un driver chiave per la crescita economica, è cresciuto pochissimo in Giappone negli ultimi anni, come ci mostra il secondo grafico: non sorprende, quindi, che nel 2014 in Giappone non ci siano stati segnali di crescita economica. Dato il combinato di assenza di crescita reale del PIl e dell’inflazione, la gigantesca espansione monetaria giapponese si riduce a nulla più che a una stamperia senza alcun potere o effetto costruttivo per l’economia e data l’estensione di questa strategia e la sua inefficacia nel creare un impatto sulla crescita reale appare chiaro che questo strumento di politica monetaria ha come unico scopo quello di spostare il più avanti possibile – ma in questo modo aggravandola – la recessione che verrà. 

Se poi uniamo a questo quadro la decisione folle presa lo scorso aprile di aumentare l’Iva, il tutto si aggrava ulteriormente, come confermato dalle proiezione del Pil del secondo trimestre di quest’anno. La conferma di quanto dico la offre Fumihiko Ike, Presidente dell’Associazione costruttori di automobili giapponese (Jama), il quale recentemente ha confessato come l’Abenomics abbia avuto come unico effetto per il suo settore il fatto di scoraggiare i cittadini ad acquistare prodotti di alta gamma come appunto le auto: «L’Abenomics non sta avendo una chiara azione di trazione nel Paese e se anche come comparto industriale noi beneficiano di uno yen più debole, sentiamo comunque un’atmosfera di crisi perché semplicemente non si vendono macchine». 

 

Certo, se il Giappone vivesse in maniera autarchica forse l’Abenomics avrebbe un effetto, ma in un mondo globalmente interconnesso come questo la complessità delle scelte economiche e delle variabili in atto è cresciuta enormemente: prendiamo lo yen debole, certamente sta aiutando l’export, ma sta rendendo molto costosa l’importazione di beni e servizi, una dinamica che forse alla Bank of Japan stanno un po’ sottovalutando. Lo stesso Ludwig von Mises in tempi non sospetti disse che «non ci sono mezzi per evitare il collasso finale di una fase di boom determinata dall’espansione del credito. L’alternativa risiede unicamente nello scegliere se questa crisi debba arrivare prima come risultato di un abbandono volontario di ulteriore espansione del credito o dopo come come fase finale e totale catastrofe per il sistema monetario coinvolto». 

Insomma, il Giappone ha imboccato a tutta forza il binario della fase “bust” nel prossimo futuro, resta incerto il timing perché il destino di paesi come il Giappone è totalmente in mano ai banchieri centrali, i quali però non sono in grado di manipolare il mercato all’infinito: a un certo punto, determinate dinamiche interrompono con la loro forza gli sforzi eterodiretti e i mercati si arrendono e la sfiducia prende il posto della speranza. Sarà per questo che oltre ai grandi acquirenti come Russia, Cina e India, sempre più Paesi – tra cui l’Olanda – stanno rimpatriando di corsa il loro oro fisico stoccato fuori dai confini nazionali, quasi tutto presso i caveau della Fed di New York? 

Quando infatti si palesa uno scenario “bust”, l’asset class per eccellenza è proprio il bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi e poi i cicli di crisi stessa, ovvero l’oro, il quale non ha rischio di controparte e permette una strategia di hedging perfetta, oltretutto anche come garanzia implicita alla propria valuta. Meglio sempre preparasi con un anno di anticipo alla crisi, sbagliando i propri calcoli per eccesso di pessimismo, che con anche un solo giorno in ritardo.