Il conto alla rovescia sembra partito e questa volta potrebbe non essere la solita minaccia. Uno dei più influenti think tank tedeschi, infatti, ha chiesto che venga posto in essere un meccanismo chiaro per obbligare la Grecia a uscire all’euro se il nuovo governo ellenico proseguirà nella sua linea di ripudio del pagamento del debito da 245 miliardi che grava sulle casse del Paese: «Bisogna tagliare il supporto finanziario se la Grecia non terrà fede ai suoi impegni sulle riforme. Se Atene intende utilizzare le maniere forti, allora deve fare lo stesso anche l’Europa», ha scritto in una nota il German Economic Research (Iw). E non si tratta del primo caso, visto che il gruppo di ricerca Zew martedì ha chiesto che le autorità europee ordinino un immediato stress test per tutte le banche esposte sulla Grecia e che facciano intendere ad Atene che lasceranno che un eventuale default faccia il suo corso piuttosto che sottostare a ricatti: «L’Europa deve mandare un segnale chiaro del fatto che non è suscettibile a minacce».
E non solo la cosiddetta società civile tedesca sta perdendo la pazienza con Alexis Tsipras ma anche il governo, visto che il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha detto chiaramente come ogni ipotesi di cancellazione anche parziale del debito di Atene è fuori discussione: «Chiunque in queste ore stia discutendo dell’ipotesi di haircut non sa di cosa sta parlando», ha tagliato corto, aggiungendo poi «come Europa e Germania abbiano dato un aiuto eccezionale alla Grecia» e che «rispetto al 2010 i mercati finanziari sono forti a sufficienza per reggere uno shock, hanno fiducia nell’eurozona. Non esiste rischio di contagio, per cui nessuno pensi di poterci mettere sotto pressione facilmente. Siamo rilassati». Insomma, un invito nemmeno troppo velato alla Grecia: sottostai alle condizioni oppure vattene, visto che qui nessuno farà nulla per fermarti.
Tanto più che l’alleanza con il partito “Greci indipendenti” ha radicalizzato il profilo del nuovo governo ellenico, tanto da far dire a Holger Schmieding di Berenberg Bank che «questo sviluppo politico aumenta il rischio di una collisione frontale con i creditori internazionali». Inoltre, sempre Schmieding conferma come la possibilità di un’uscita della Grecia dall’euro stia crescendo e sia ora al 35%, visto che «Tsipras rischia di subire a breve uno shock realistico dopo aver fatto tre promesse impossibili al suo Paese in campagna elettorale. C’è il rischio che mandi in rovina la sua nazione, esattamente come ha fatto la peronista Cristina Kirchner con l’Argentina. I circoli viziosi si innescano in fretta».
Fonti vicine ad Alexis Tsipras si dicono certe che i leader tedeschi stiano bluffando e che stiano alzando i toni solo perché non possono ammettere che l’intera strategia di gestione della crisi dell’eurozona sia stata un fallimento, peccato che però il mercato non la pensi esattamente così: martedì il credit default swap greco a 5 anni è salito di 248 punti, raggiungendo quota 1654 (addirittura quello a un anno ha toccato quota 2935), un livello che implica il 76% di possibilità di default, basando il calcolo su presupposti di ripresa standard (nel caso greco, decisamente alti), mentre quelli di Italia, Spagna e Portogallo si sono mossi solo frazionalmente. Sintomo chiaro di assenza di contagio e del fatto che, come vi dicevo martedì, ormai la Grecia trada in un mercato tutto suo, sconnesso da quello sistemico dell’eurozona.
Per Jurgen Matthes, direttore internazionale di Iw, l’Europa deve essere pronta a punire chi viola le regole, al fine di mantenere in vita la strategia dell’austerity ed evitare un collasso della disciplina: «Abbiamo dato vita a un strategia di prevenzione della crisi che si basa sulla condizionalità, se questa non sarà rafforzata nel caso della Grecia, allora chiunque potrà dire che vuole fare allo stesso modo. Syriza ha avuto successo nel vendere l’illusione che la Grecia può fermare le riforme e smettere di ripagare il suo debito, pur restando comunque nell’euro. Questo è impossibile, se fanno questo la Bce deve smettere di accettare collaterale garantito dal governo ellenico. Questo obbligherà i greci a tornare alla dracma e questo porterà danni enormi. Ci sarà un default sovrano, default bancario e default corporate: il sistema finanziario, semplicemente, collasserà».
Matthes non esclude a priori la possibilità di estendere i tempi per ripagare il debito da parte di Atene, ma questo deve imporre dei costi, visto che oggi il tasso di interesse effettivo che è stato pagato è al 2,6%, ben distante dalla media concordata del 4,2%. Il nuovo ministro delle Finanze greco, il cacciatore di oligarchi, Yanis Varoufakis, ha però un’agenda differente, visto che ha già annunciato l’intenzione di abbassare il target per il budget primario del Paese dal 4,5% all’1%, in modo da liberare risorse per garantire le promesse fatte, ovvero elettricità e mense scolastiche gratis per i poveri e un sollievo fiscale per i redditi medio-bassi. Ma anche in questo Iw stronca l’ipotesi, visto che stando a loro calcoli il massimo a cui Atene può sperare a livello di ridimensionamento del budget sta nel range del 3-4% e questo solo se si prosegue con la politiche di riforme e con un’implementazione del sistema fiscale. Inoltre, l’istituto mette in guardia Atene dall’illusione di trovare negli altri Paesi della cosiddetta “periferia” come Italia, Spagna e Portogallo dei potenziali alleati, visto che i contribuenti di quelle nazioni hanno sborsato cifre pro capite quasi pari a quelle dei tedeschi per la Grecia attraverso il Fondo salva-Stati: «Non ci sarà flessibilità nell’Eurogruppo, né una coalizione di Stati del Sud Europa. In ballo ci sono soldi reali». Un po’ brutale ma realistico.
Ma a rendere noto fin da subito che sarà difficile trovare il sostegno dell’Eurogruppo al taglio del debito della Grecia ci ha pensato nientemeno che il vice-presidente della Commissione europea per il Lavoro, la crescita, gli investimenti e la competitività, Jyrki Katainen, il quale ha ribadito la linea ferma dell’Ue sulle condizioni di salvataggio di Atene dopo le elezioni che hanno portato alla vittoria del partito radicale Syriza. «È improbabile che il nuovo governo greco ottenga il sostegno dell’Eurogruppo per una riduzione del debito», è la posizione di Katainen dopo che nella prima riunione di gabinetto il primo ministro ellenico, Alexis Tsipras, si è detto pronto a negoziare con i partner Ue al fine di ridurre il debito e trovare una soluzione equa e praticabile. «L’economia reale non è cambiata dopo le elezioni, la situazione è sempre la stessa. Da parte nostra non mi aspetto molti cambiamenti e la Commissione continuerà a collaborare con qualsiasi governo», ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni europee sono disposte a parlare con Atene “il prima possibile”, ma devono restare fermi gli impegni presi dai greci verso gli altri cittadini europei.
E anche il ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel, ha escluso la possibilità di una riduzione del debito ellenico e ha chiesto al nuovo primo ministro, Tsipras, di mantenere un atteggiamento aperto nelle negoziazioni e di rispettare le condizioni del programmi di aiuti: «Non posso immaginare uno sconto sul debito», ha affermato il vicecancelliere socialdemocratico di Angela Merkel. Duro anche il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, il quale ha detto che si può e si dovrà discutere su una riduzione del tasso di interesse o su un allungamento dei tempi per ripagare il debito, ma che una cancellazione anche parziale dello stesso è fuori discussione: «Qual è il debito che ha la Grecia? È un debito verso la Bce, verso l’Unione europea, verso le nazioni che hanno condiviso lo sforzo di questo sacrificio. Non è possibile nemmeno pensare a un trasferimento dell’onere dai contribuenti greci a quelli di Francia, Germania, Spagna o Slovenia. Non ci sarà un contributo di questa natura, assolutamente».
Ma non basta. A detta di Joachim Nagel, membro del consiglio di gestione della Bundesbank, «se il nuovo Governo greco decidesse di sospendere il piano di aiuti esistente per il Paese, ci sarebbero conseguenze fatali per le banche greche. Se la continuazione del programma di aiuti alla Grecia dovesse essere messa in discussione, già questo potrebbe mettere a repentaglio il rifinanziamento di politica monetaria». In un’intervista al quotidiano Handelsblatt, Nagel ha poi ricordato che «questo avrebbe conseguenze fatali per il sistema finanziario del Paese. Le banche greche perderebbero l’accesso al denaro della Banca centrale, un aspetto che in queste ore viene sottovalutato».
Chi invece non lo sottovaluta è il mercato, perché in soli tre giorni di governo Syriza ha letteralmente massacrato la Borsa greca, titoli bancari in testa. Mentre Alexis Tsipras annunciava trionfalmente che «cambieremo radicalmente il modo in cui sarà amministrato questo Paese», gli investitori prezzavano questa svolta radicale spedendo il rendimento del bond ellenico a dieci anni sopra l’11%, all’11,132% con spread al livello monstre di 1073 punti base, ma quello che preoccupa maggiormente il mercato è il fatto che il costo di finanziamento del triennale sia sopra il 18% e quello del quinquennale superi 14%. Inversione netta dei tassi: insomma, i players vedono, inequivocabilmente, il default di Atene. E che dire della Borsa: nonostante ieri si sia registrato il più classico dei rimbalzi del gatto morto, con i dip-buyers impegnati a comprare come matti sui minimi storici (sperando nell’addio rapido di Tsipras e quindi nella rivalutazione degli assets che la sua politica sta schiantando, anche solo a fini speculativi sul brevissimo termine), giova ricordare che l’indice Ftse Athex ha perso in tre giorni – da lunedì a mercoledì – il 12,7%: Piraeus Bank giù del 40%, mentre Eurobank Ergasias, National Bank of Greece e Alpha Bank nello stesso intervallo di tempo conoscevano cali quasi del 30%, tutte con volumi di scambio a tre cifre ma ben sopra quota 300%.
Dall’inizio di dicembre, gli istituti ellenici hanno perso metà del loro valore e le quattro banche poco fa citate hanno visto polverizzarsi da domenica qualcosa come 7,7 miliardi di valore di mercato, senza contare le enormi fughe di capitali già in atto da settimane e destinate a intensificarsi con il passare dei giorni, a meno che il governo non decida di suicidarsi subito imponendo controlli sul capitale in stile cipriota. Ad accelerare le vendite, il timore che il nuovo governo anti-austerità dirotti gli 11 miliardi di euro rimasti nell’Ela, il fondo per la ricapitalizzazione delle banche elleniche, verso il welfare o il pagamento del debito in scadenza. In forte calo anche il titolo della maggior utility del Paese, Ppc (-8,9%), la quale garantisce da sola due terzi dell’output energetico nazionale, dopo che il governo di Syriza ha annunciato lo stop alla sua privatizzazione e quelle della Hellenic Petroleum e del porto del Pireo (-9,9%), dopo che Atene ha dichiarato che bloccherà la vendita delle quota di maggioranza, le ultime destinate all’acquisto da parte del gigante cinese delle spedizioni Cosco che intendeva trasformarlo nel suo nuovo hub europeo: veramente un decisione lungimirante quella del governo ellenico.
Così come le altre finora poste in essere, ovvero la riassunzione di personale posto in mobilità nella Pubblica amministrazione, l’eliminazione di tasse sulla proprietà in un Paese che solo in gennaio ha già un buco di budget da 1 miliardi di euro per mancate entrate fiscali, l’aumento del salario minimo da 580 euro lordi a 751, la reintroduzione della tredicesima mensilità per i pensionati, l’eliminazione del ticket ospedaliero da 5 euro, nonché la buffonata propagandistica della cittadinanza greca a qualsiasi bambino figlio di genitori stranieri che nasca nel Paese. Insomma, la domanda è: Tispras fa davvero sul serio?
Un primo banco di prova, almeno nei confronti degli obblighi verso i creditori internazionali, ci sarà tra poco, all’inizio di marzo quando Atene dovrà ripagare 2 miliardi di euro, di cui 1,5 al Fondo monetario internazionale. Lo farà? O non lo farà, perché quei soldi serviranno a mettere in pratica le promesse elettorali di Syriza? Una cosa è certa, a tre giorni dall’insediamento del nuovo esecutivo Standard & Poor’s ha già posto il rating B della Grecia in creditwatch con implicazioni negative, proprio ritenendo alcune delle politiche economiche e di bilancio previste dal governo incompatibili con il quadro politico concordato tra il precedente esecutivo e i creditori di Atene.
A destare preoccupazione sono anche l’accelerazione del ritiro dei depositi da alcune banche greche e il concomitante incremento dei finanziamenti Bce alle banche elleniche, soprattutto alla luce del fatto che l’accesso all’Eurotower come prestatore di ultima istanza continuerà a essere connesso alla firma da parte del nuovo governo greco di un accordo con la Commissione europea, il Fmi e la stessa Bce. Ma al netto delle analisi, penso che Tsipras stia scherzando col fuoco, visto che non solo la Germania vedrebbe di buon grado la Grecia fuori dall’Ue, tanto più che ci sarà da salvare la Spagna, quindi i soldi vanno tenuti via per quello ma anche altri partner europei potrebbero presto dire al giovane leader che le sue riforme da Chavez allo tzatziki se le paghi con i suoi soldi, non con quelli dei contribuenti europei.
Ora, partiamo dal presupposto che la Troika in generale fa più danni della grandine e le sue ricette hanno portato con sé questi risultati: la Grecia è passata dal 67mo all’81mo posto nel ranking mondiale per la competitività del World Economic Forum, dietro a Ucraina e Algeria, e l’imposizione dell’austerity cieca ha sostanziato un calo degli investimenti del 63,5%, del Pil del 26%, ha portato il tasso di disoccupazione giovanile al 62% e la ratio debito/Pil è salita al 178%. Di più, le minute del Fmi del maggio 2010 dicevano chiaro e tondo che quanto stava accadendo «potrebbe non sembrare un salvataggio della Grecia, la quale dovrà subire un aggiustamento economico devastante, ma un salvataggio dei detentori privati di debito greco». Tutto vero, sacrosanto. Ci sono però altre cifre che non trovano mai spazio sui giornali, ad esempio il fatto che nonostante la recessione durissima che hanno patito, i greci come popolo restano comunque molto più ricchi dei loro vicini, visto che parliamo di un Pil pro-capite di 22mila dollari contro i 4mila dell’Albania, i 5mila della Macedonia e gli 8mila della Bulgaria, che è membro dell’Ue come la Grecia.
A detta di Ruslan Stefanov, direttore del programma economico del Center for the Study of Democracy di Sofia, «sarà molto difficile far passare presso i lavoratori bulgari il concetto che devono devolvere una parte delle loro tasse per aiutare la gente in Grecia, gente che è più ricca di loro. Se stai spendendo quei soldi in Grecia, allora dovresti spenderli in Bulgaria e in altri paesi dell’Est europeo. E questo argomento è all’ordine del giorno tra i nostri politici». Inoltre, giova ricordare che in ossequio alla politica della cicala, dal 2000 al 2008 i salari nel settore pubblico ellenico sono cresciuti del 60% in termini reali, quindi una parte della crisi economica greca va di fatto considerata una salutare correzione di ciò che era una politica di spesa pubblica fuori controllo, al limite del clientelismo criminale: insomma, è stata in parte la deflazione di una bolla creata dall’eccesso di spesa. La medesima ricetta riproposta ora da Tsipras, il quale ha già annunciato più spesa pubblica, aumento dei salari minimi e ritorno alla vecchia regolamentazione del mercato del lavoro: perché dovremmo pagare noi, con i nostri soldi, la volontà greca di tornare alla disfunzionalità economica e sociale?
Sempre restando all’esempio bulgaro, visto che è Paese membro dell’Ue, bisogna ricordare che anche Sofia ha vissuto una crisi del debito negli anni Novanta, perdendo quasi un terzo del Pil, ma ha pagato tutto quanto doveva ridare in termini di aiuto e lo ha fatto solo recentemente, stando a uno scadenziario prefissato, esattamente come quello di Atene di cui parleremo tra poco. Sempre Ruslan Stefanov ricorda come «c’è la percezione chiara che la Grecia non abbia fatto abbastanza per poter chiedere ulteriore aiuto ai partner europei», calcolando che esattamente come la Bulgaria, Atene è beneficiario netto dell’Ue, ricevendo molto più di quanto versa e vedendosi garantiti fondi per i paesi disagiati e sussidi agricoli. Solo tra il 2014 e il 2020, la Grecia – se resterà nell’Unione – riceverà da Bruxelles più di 17 miliardi. Conclude Stefanov, «la Grecia sta ricevendo finanziamenti dall’Ue dal 1982, come vogliamo chiamare questa cosa? Non è forse un piano Marshall?».
E ora veniamo alla famosa sostenibilità o meno del debito greco, la cui ratio sul Pil è appunto del 178%, la più alta dell’eurozona. Tsipras vorrebbe ottenere un taglio del valore di queste liabilities, una riduzione netta di quanto vada ripagato o, quantomeno, ridiscutere l’arco temporale in cui spalmare i pagamenti verso i creditori internazionali. Insomma, qual è il problema legato a quei 317 miliardi di debito? Il tempo, non i soldi. La Grecia ha già beneficiato di un’estensione del debito e addirittura nel 2012 ha dato vita alla più grande ristrutturazione del debito per il settore privato della storia: oggi come oggi, la scadenza media dei debito ellenico è di 16,5 anni, quindi è tutta questione di tempo, non di fondi. Guardate il primo grafico a fondo pagina: questo è lo scadenziario per il pagamento dei 245 miliardi di pacchetto di salvataggio ottenuto da Atene, si estende già ora fino al 2054! Insomma, parliamoci chiaro, concedere ulteriore tempo alla Grecia per onorare i prestiti contratti significa dar vita a un trasferimento fiscale in piena regola ma con altro nome.
Inoltre, Atene ha già ottenuto una condizione di favore rispetto ai costi di servizio di quei prestiti, come ci mostra il secondo grafico, pagando un tasso di interesse molto più basso di quello applicato agli aiuti concessi a Spagna, Portogallo e Irlanda. Stando a calcoli su base reale e non nominale, la Grecia paga non il 4% ma il 2,6% del Pil in interessi sul servizio dei debito ogni anno, questo perché di fatto il Paese otterrà indietro gli interessi che paga alla Bce se continuerà con il programma di riforme concordato e per il 2015 arriverà a un tasso di interesse reale sotto al 2%, grazie anche al crollo dei tassi a livello globale registrato l’anno scorso. Peccato che Tsipras abbia già ribaltato il piano delle riforme concordate da Atene con la Troika e stia di fatto già andando nella direzione opposta, ovvero finanziare spesa pubblica a pioggia e improduttiva con i soldi che intende risparmiare grazie al taglio sul debito da ripagare che intende imporre ai partner europei e agli organismi internazionali. Ma il giovane leader non è stupido e siccome sa che il “Grexit” ci sarà, perché di fatto alla Grecia conviene (diverrà infatti insolvente sui prestiti ottenuti e potrà dar vita a una svalutazione competitiva con la sua moneta nazionale) ha immediatamente attivato i canali necessari per garantirsi l’appoggio della Russia, anche finanziario, nel momento in cui dirà addio all’Unione: dicendosi infatti contrario alle sanzioni contro Mosca, Tsipras ha mandato un segnale chiaro sia a Bruxelles che a Mosca, visto che per implementare le stesse in sede europea occorre l’unanimità e Atene ha di fatto preannunciato il suo veto.
Non dimenticherete, poi, che il 16 di gennaio il ministro dell’Agricultura russo, Nikolai Fyodorov, aveva detto chiaramente che «se la Grecia abbandonerà l’Unione europea costruiremo delle nostre relazioni bilaterali e il bando sui cibi e sui prodotti agricoli ellenici in Russia non sarà più applicato». Ieri, poi, il segnale più esplicito di appeasement verso il Cremlino, quando Alexis Tsipras in persona, intervistato dall’agenzia di stampa Athens News Agency, ha dichiarato che «Syriza pensa che il nuovo governo in Ucraina sia andato al potere come risultato di un colpo di Stato, è di fatto una junta. Non potremmo accettare o riconoscere il governo di neonazisti in Ucraina. Noi nell’Ue non dovremmo dare preferenze rispetto ai cambiamenti di confini, ma dobbiamo rispettare le posizione della gente che ha deciso di creare una Federazione all’interno dello Stato».
Quindi, Tsipras dovrebbe almeno essere onesto: vuole andare sotto l’ombrello di Mosca e dell’Unione euroasiatica? Faccia pure, nessuno lo tiene a forza, però lo dica chiaro e non cerchi di estorcere altro tempo e soprattutto altri soldi ai paesi membri dell’Ue. Tanto più che l’aria sta cambiando, visto che da ieri la Germania è entrata ufficialmente in deflazione, con i prezzi scesi a gennaio dello 0,5%, il dato deflazionistico peggiore dal luglio 2009. E visto che, come ci mostra il terzo grafico, da quando Draghi ha annunciato il Qe le aspettative inflazionistiche a 5 anni per l’Europa sono peggiorate costantemente, raggiungendo ora solo l’1,52% (a 5 anni, però), dubito che Berlino accetterà che la pantomima greca vada troppo per le lunghe, rischiando di di riaccendere tensioni in tutta l’area, visto che per ora il contagio è scongiurato.
Insomma, per usare le poco elegante metafora di Ricucci, la Germania starebbe per dire a Tsipras che è facile fare il paladino del popolo con i soldi dell’Ue. E questa volta non avrebbe tutti i torti.
P.S.: Quando questo articolo era già stato spedito in redazione per essere impaginato, arrivava la conferma che il rapporto bilaterale russo-ellenico era qualcosa di più che un flirt estemporaneo. Parlando alla Cnbc, infatti, il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, dichiarava quanto segue: «A meno che non trovi una nuova, alternativa fonte di finanziamento, una che non abbia nulla a che fare con la natura establishment del Fmi, i cui “salvataggi” sono meramente cortine fumogene per implementare politiche pro-occidentali e permettere la rapida liquidazione di ogni società “salvata”, se la Grecia dovesse avanzare al governo russo una richiesta di aiuto finanziario, noi le prenderemo assolutamente in considerazione».
E non fatevi ingannare dalla crisi economica russa, dal rublo ballerino e dal prezzo del petrolio in calo: Mosca ha riserve per oltre 380 miliardi di dollari, 1250 tonnellate di oro fisico e fa parte della neo-costituita Banca dei Brics, istituto con a disposizione 100 miliardi di dollari di riserve e nato per bypassare proprio la Fed e le altre Bnache centrali dei Paesi sviluppati. La partita ora si fa seria e il “Grexit” decisamente più vicino a fattibile. Ma a quale prezzo, questa volta politico, per l’Ue?