Con mossa inaspettata, mercoledì la Turchia ha confermato che i due kamikaze responsabili della strage di Ankara erano affiliati all’Isis. Dico inaspettata perché, con le elezioni politiche fissate per il 1° novembre, la tentazione di incolpare i guerriglieri curdi, il cui partito minaccia la maggioranza assoluta per quello di Erdogan, poteva essere molta. Tanto più l’atteggiamento di Ankara nei confronti dell’Isis è stato, finora, quantomeno opaco e tutt’altro che risoluto. Ma, anche in questo caso, vale la legge del beduino: ovvero il nemico del mio nemico (i curdi) è mio amico. Di fatto, invece, retromarcia e un bell’assist alla campagna aerea di Vladimir Putin, visto che mettere il timbro dell’Isis anche sulla strage di oltre 100 civili inermi in un Paese affiliato della Nato pare più che una legittimazione, ancorché morale, ai raid dell’aeronautica russa in Siria. 

Perché questo cambio di impostazione politica? Perché prendere ora una posizione contro il Califfato, quando una forza non alleata – e di fatto ostile alla Nato – come la Russia sta mettendo in forte imbarazzo l’Alleanza atlantica e in principal modo il suo membro numero uno, ovvero gli Usa? Certo, c’è il tornaconto elettorale di farsi vedere duro con i terroristi, ma Erdogan e la sua politica hanno stancato i turchi e non sarà certo questo voltafaccia tardivo e interessato ad abbindolarli. No, c’è dell’altro e c’è parecchia, parecchia strategia dietro quanto sta accadendo negli ultimi giorni. 

Dopo aver sospeso i capi della sicurezza di Ankara e aver detto che i principali sospetti sono sull’Isis, ma non si esclude a priori la pista curda del Pkk (pare per alcuni tweet da parte di due loro militanti), il premier turco, Ahmet Davutoglu, ha infatti dichiarato che «la Turchia non tollererà  mai aiuti armati a un’organizzazione affiliata al Pkk», riferendosi ai curdo-siriani del Pyd, che in Siria combattono contro l’Isis. Di più, «non permetteremo il trasferimento in Turchia di scorte di armi che si trovano in Siria», ha aggiunto sempre mercoledì Davutoglu, precisando di aver espresso chiaramente agli ambasciatori di Stati Uniti e Russia la posizione di Ankara su Pkk e Pyd, che considera entrambe organizzazioni terroristiche. Insomma, geopolitica da un lato, furbizia elettorale e diplomatica dall’altro. 

Ma per capire davvero cosa sta accadendo tra Turchia e Russia e per comprendere appieno le parole di Ahmet Davutoglu, tocca fare un salto indietro di pochi mesi, esattamente a giugno, quando la Russia siglò un memorandum di intenti con Shell, E.On e Omv per raddoppiare la capacità di trasporto della pipeline Nord Stream, la via più breve dai giacimenti russi all’Europa, come ci mostra la cartina qui sotto. Come potete notare, quella scelta di Mosca era strategica ancor prima che meramente commerciale, visto che Nord Stream permette di bypassare l’Ucraina, un’ipotesi desiderabile per ovvie ragioni. Meno contenti della scelta, invece, furono i Paesi dell’Est come l’Ucraina, appunto, ma anche la Slovacchia, visto che il flusso del gas fa generare loro entrate. Non a caso, il premier slovacco Robert Fico andò su tutte le furie: «Ci stanno prendendo per idioti. Non si può parlare per mesi su come stabilizzare la situazione e poi, di colpo, prendere una decisione che mette Slovacchia e Ucraina in una situazione non valida». 

Ma anche in questo caso, esattamente come per l’atteggiamento di Ankara verso l’Isis, i Paesi dell’Est potrebbero a breve cambiare posizione, di fatto divenendo addirittura aperturisti verso una maggiore cooperazione con Gazprom. Il motivo è semplice: proprio i rapporti sempre più tesi tra Mosca e Ankara in fatto di relazioni energetiche stanno cambiando dinamiche ed equilibri di blocco che si pensavano consolidati e invariabili. Ovviamente, a queste vanno unite le violazioni dello spazio aereo turco da parte dell’aviazione russa e più in generale il supporto della Russia verso il regime di Assad, mentre la Turchia di Erdogan ha a lungo supportato una sua uscita di scena, anche a costo – appunto – di apparire quantomeno ambigua nei confronti dell’Isis e di quanto passasse nottetempo dal suo confine con la Siria. 

E la frattura è di quelle serie, perché soltanto lo scorso anno Recep Tayyip Erdogan, all’epoca premier, fu l’unico uomo di Stato occidentale a presenziare alla cerimonia di apertura dei Giochi invernali di Sochi, boicottata dagli altri leader per la questione ucraina e a latere della stessa incontrò Vladimir Putin. Di più, al termine del meeting informale, Erdogan sottolineò il forte legame che unisce la Turchia alla Russia. Un idillio. Ma ora la Siria ha rovinato tutto, mettendo anche a rischio la costruzione della nuova pipeline attraverso il Mar Nero che avrebbe dovuto cementare l’amicizia tra i due Paesi: la scorsa settimana, infatti, Erdogan ha avvisato Putin che, a causa del suo intervento militare in Siria, la Russia rischia di perdere il contratto da 20 miliardi di dollari per costruire una centrale nucleare sulla costa mediterranea della Turchia. «Possiamo trovare fonti di gas altrove», aggiunse inoltre il presidente turco, mettendo il carico da novanta contro Gazprom. 

Due giorni fa, poi, l’ennesimo voltafaccia. In un gioco di specchi classico di chi non sa bene come posizionarsi, Erdogan ha infatti prima dato ordine di dispiegare una brigata corazzata turca oltre il confine siriano per occupare la città di Etmeh, prendendo posizioni sulle alture di al-Halak, ma poi ha lanciato un messaggio tranquillizzante verso Mosca, dicendo che non ci saranno problemi per l’approvvigionamento di gas e che anche la costruzione della centrale termica nucleare non è in discussione. Insomma, mostro i muscoli militari (quasi esclusivamente in chiave anti-curda in vista delle elezioni), ma abbasso i toni che avevo utilizzato solo una settimana fa. Ed ecco che i riferimenti del premier turco, Ahmet Davutoglu, rispetto alle spedizioni di armi ai curdi siriani di cui abbiamo parlato prima trovano una spiegazione e una mossa pratica, così come il lasciare aperta una finestra di dubbio (interessato) al coinvolgimento del Pkk nella strage. 

Cosa c’è dietro? Qualche dato che Erdogan ha dovuto prendere seriamente in esame, dopo che immagino i suoi ministri e consiglieri avranno sottoposto alla sua attenzione alcuni dossier. Circa il 75% dell’utilizzo energetico turco deriva da fonti estere e la sola Russia pesa per un quinto dei consumi totali, più di chiunque altro. Come già detto sarà una ditta russa, per l’esattezza la Rosatom, a costruire la prima centrale nucleare turca l’anno prossimo e i due Paesi sono partner in una nuova, grande pipeline per il gas naturale, la TurkStream, la quale dovrebbe portare il gas nel cuore dell’Europa attraverso il confine turco-greco, bypassando anche in questo caso l’Ucraina. Peccato che recentemente Gazprom, il più grande produttore di gas naturale al mondo e firmatario dell’accordo TurkStream, abbia detto che il progetto potrebbe essere rimandato e la sua capacità tagliata. 

Un azzardo, visto che la Turchia rappresenta il secondo mercato di Gazprom dopo la Germania, ma, come abbiamo visto, a giugno è emersa l’ipotesi Nord Stream, la quale consente anch’essa una percorso che eviti il passaggio ucraino e che il mese scorso, guarda caso poco prima dell’intervento russo in Siria, ha avuto via libera proprio da Putin, con un progetto di ampliamento che collegherà direttamente la Russia alla Germania (costretta a non esporsi troppo per lo scandalo Volkswagen, caso strano scoppiato negli Usa). Per Sijbren de Jong, analista per la sicurezza energetica presso il Hague Centre for Strategic Studies, «Putin sta scommetendo su Nord Stream, ma è una scommessa rischiosa. Può davvero Gazprom permettersi di irritare la Turchia e rischiare di perdere le revenues del gas? Penso sia difficile». 

L’Europa riceve circa un terzo del gas dalla Russia e un terzo di quel flusso passa attraverso le pipeline ucraine, ma Gazprom intende chiudere o comunque ridurre il suo transito di gas dall’ex Repubblica sovietica nel 2019, non appena scadrà il contratto in essere. Più importante è però il fatto che fino a gennaio per Mosca la nuova tratta turca era prioritaria per ottenere l’obiettivo di bypassare il territorio ucraino, mentre adesso Gazprom punta tutto sul link diretto tra il Mar Baltico e la Germania, denominato Nord Stream-2, ovvero l’ampliamento della prima rotta. Certo, Putin corre qualche rischio puntando tutto su Nord Strem-2, perché ad esempio il progetto potrebbe incontrare l’opposizione dell’Ue, visto che la scorsa settimana il Commissario europeo all’Energia, Miguel Arias Canete, ha dichiarato che «questo collegamento rischia di concentrare l’80% delle importazioni di gas dal blocco russo su un’unica tratta», mentre le altre nazioni dell’Est hanno colto la sponda di Bruxelles per sottolineare i rischi che comporta bypassare l’Ucraina. 

Per tutta risposta, Gazprom ha fatto spallucce, sottolineando che i mercati chiave del programma Nord Stream-2 sono quelli che stanno facendo aumentare le vendite di gas russo, con l’export verso l’Europa che all’inizio di questo mese era già salito del 36% su base annua. Insomma, un incrocio geo-politico e geo-energetico enorme, il quale ci fa capire in maniera elementare ma incontrovertibile che alla radice della disputa siriana e della spaccatura tra le parti in causa ci sono dispute energetiche tra i due assi regionali di potere, più che la figura e il governo di Bashar al-Assad. 

Come andrà a finire fra Turchia e Russia? Chi la spunterà? Difficile dirlo con certezza, soprattutto perché la situazione sul campo ma anche quella diplomatica sono fluide e in divenire continuo. Ma fossi in Ankara mi muoverei con molta attenzione, visto che se Erdogan davvero intende distruggere il progetto TurkStream come ritorsione al supporto militare di Mosca alla Siria, deve sperare che Mosca e Teheran non abbiano successo nella loro difesa di Assad, altrimenti non ci sarebbe speranza nemmeno per la rotta alternativa dal Qatar, quella rappresentata dalla linea verde nella cartina a fondo pagina e che vede la Turchia come corridoio per arrivare al cuore dell’Europa. Se poi davvero lo stesso Erdogan pensasse di poter dar seguito alla sua minaccia di poter fare a meno del gas russo, potendone trovare altrove, lo inviterei caldamente guardare il grafico più in basso, dal quale si evince che alla luce degli attuali schieramenti e alleanze in campo, Ankara farebbe davvero bene a pensarci due volte prima di fare la dura con il Cremlino. E guerra di potere energetico, totale. 

E guarda caso, con timing a dir poco sospetto, ieri il Wall Street Journal informava che l’Amministrazione Obama aveva dato vita a un’inversione di 180 gradi rispetto al ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, confermandone la presenza. I piani originali prevedevano il rientro in patria della gran parte dei 9.800 soldati Usa entro la fine dell’anno prossimo, lasciandone sul campo afghano solo 1.000, mentre ieri si è scoperto che tutti i 9.800 rimarranno per la gran parte del prossimo anno e 5.500 resteranno per tutto il 2017. Il motivo? Contrastare il risorgente attivismo dei talebani, supportando le forze di sicurezza locali e ricercare membri dell’Isis e di altri gruppi fondamentalisti che hanno trovato rifugio in Afghanistan. Ovvero, il fallimento su tutta la linea dell’operazione Usa, sia in Siria che in Afghanistan. 

Washington, ironia della sorte, non se ne può andare perché deve dare la caccia all’Isis, che ha di fatto creato e perché Al Qaeda attraverso i talebani minaccia la stabilità del Paese, ovvero gruppi diventati nemici dopo l’11 settembre, ma che gli Usa hanno armato e addestrato in chiave anti-russa proprio in Afghanistan. Una cosa però è geograficamente certa: l’Afghanistan confina con l’Iran.