Ognuno può pensare ciò che vuole di Vladimir Putin come politico e leader, ma una cosa è incontrovertibile: in meno di dieci giorni ha dimostrato al mondo che il famigerato Stato Islamico può essere battuto, se solo si combatte davvero e non ci si comporta come gli Usa che hanno passato un anno a bombardare le milizie di Assad invece che i covi dell’Isis. Detto questo, non solo la lotta al terrorismo e le finalità geopolitiche legate alla stabilità del regime di Assad sono alla base dell’interventismo russo in Medio Oriente, c’è anche dell’altro e molto importante: mitigare le molte pressioni negative che incombono sulla vitale industria energetica del Paese, tra cui i bassi prezzi del petrolio e le sanzioni occidentali. Basta guardare tutti gli outlook del Fmi dal 1992 a oggi per vedere la netta correlazione tra crescita del Pil russo e dinamiche di produzione di gas e petrolio, loro export e prezzi. 

Le esportazioni di gas naturale e greggio hanno coperto il 65% dell’export, il 52% del budget federale e il 14,5% del Pil lo scorso anno: se poi uniamo il loro contributo a livello domestico, gli idrocarburi rappresentano il 30% del Pil della Federazione. Ma gas e petrolio russi non sono vitali solo per Mosca, bensì anche per i suoi vicini e per la cosiddetta Eurasia: la Russia ha fornito infatti circa il 30% del gas naturale europeo nel 2014 e circa il 25% del greggio nel 2013. Inoltre, sono le infrastrutture di trasporto e distribuzione a terra il vero punto di forza della Russia, con 150mila chilometri di pipeline in continuo ampliamento ed evoluzione e che potrebbero coprire l’Europa, il Nord Africa, ma anche la regione del Caspio e il Nord Est dell’Asia. Un controllo pressoché totale attraverso gli assets di trasporto, cui vanno unite le enormi riserve strategiche e non. 

Le infrastrutture di trasporto a terra per il greggio sono più piccole ma non meno importanti, visto che la pipeline Druzhba da 4mila chilometri garantisce il rifornimento del 30% delle spedizioni totali verso l’Europa, mentre nel Far East la Rosneft ha fornito 22,6 milioni di tonnellate di greggio in Cina nel 2014 attraverso la pipeline East Siberian Pacific Ocean (Espo). E il governo Putin, conscio dell’importanza strategica delle commodities, sta cercando di ampliare la sua rete di distribuzione: verso l’Europa con alcuni progetti di pipeline (Nord Stream 2, Turkish Stream 2, 3 e 4, oltre a South European Pipeline) e verso la Cina con due grandi pipeline, la Power of Siberia Pipeline (per fornitura dalla Siberia dell’Est) la Altai pipeline (per rifornimenti dalla Siberia dell’Ovest). 

Il problema è che negli ultimi anni le minacce all’industria energetica russa sono aumentate, soprattutto dallo scorso anno quando l’Arabia Saudita ha imposto all’Opec di mantenere la produzione giornaliera a 30 milioni di barili nonostante la saturazione del mercato, scelta ritenuta strategica per mettere alle corde il settore shale Usa e mantenere quote di mercato, ma che ha schiacciato non solo i prezzi ma anche i margini operativi e le entrate dei governi esportatori. E anche i volumi di export del gas naturale sono scesi, tanto che il Fmi ha avanzato previsioni allarmanti per le casse del Cremlino: rispetto ai livelli del 2014, le entrate da export petrolifero scenderanno molto sia quest’anno che il prossimo (rispettivamente 109,8 miliardi di dollari e 96 miliardi di dollari) e anche quelle da gas naturale andranno in contrazione (rispettivamente a 12 miliardi e 14,3 miliardi di dollari). 

E attenzione, perché queste stime sono fatte con il prezzo del greggio a 60,1 dollari per quest’anno e 65,8 dollari per il 2016 ma la Eia statunitense prevede che il Brent resterà sotto i 60 dollari, esattamente a 54,07 per quest’anno e a 58,57 per il 2016: insomma, si rischia di pagare un prezzo ancora più salato. Come se questo non bastasse, le sanzioni di Usa e Ue per l’invasione e l’annessione della Crimea hanno posto ulteriore pressione sull’industria energetica russa, visto che il bando include anche il finanziamento e la fornitura di tecnologia ed equipaggiamento per importanti progetti energetici. 

Ad esempio, a Novatek e ai suoi partner Total e Chinese National Petroleum Company mancano ancora 15 dei 27 miliardi necessari per finanziare l’impianto di Yamal, mentre lo stesso vice-ministro dell’Energia, Denis Khramov, il 28 settembre ha annunciato che sia Gazprom che Rosneft hanno rimandato alcune trivellazioni offshore di tre anni, proprio a causa di sanzioni e basso prezzo del greggio. Senza contare che proprio le sanzioni non hanno permesso a Gazprom di sviluppare i giacimenti di Chayandinskoye e Kovyktinskoye nella Siberia dell’Est, proprio quelli legati al contratto di fornitura bilaterale con la Cina da 400 miliardi di dollari firmato lo scorso anno. 

Insomma, come vedete le sanzioni non erano una ritorsione per quanto accaduto tra Mosca e Kiev, ma solo l’ennesimo trucco degli americani per azzoppare i concorrenti e garantire strada spianata al boom dello shale oil (oltretutto controproducenti per l’Europa, visto l’interscambio commerciale con la Russia). In che modo, quindi, l’attivismo in Medio Oriente può aiutare l’industria energetica russa? Di fatto sponsorizzando l’attrattività della fornitura di greggio e gas naturale russo nell’area rispetto a quella di Arabia Saudita e Paesi alleati del Golfo. Qual è infatti la prima prerogativa che si chiede a un fornitore di commodities energetiche, a parte il prezzo? La sicurezza. I cinesi, ad esempio, preferiscono le forniture via pipeline piuttosto che via mare. Le minacce al trasporto di gas e greggio sono l’arma vincente russa, visto che in un’area critica come quello dove si sta operando militarmente, sia Riyad che gli altri Paesi del Golfo dipendono interamente da spedizioni via mare attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso per fornire sia petrolio che gas naturale liquefatto. 

Nella più ardita delle ipotesi, Vladimir Putin potrebbe pensare addirittura a una sorta di sabotaggio del commercio dei Paesi del Golfo, visto che le tre rotte principali che partono da Golfo Persico e Mar Rosso passano attraverso un cosiddetto “choke point” (nel caso del Mar Rosso attraverso il Canale di Suez per arrivare in Europa e lo Stretto di Mandeb per l’Asia, mentre dal Golfo Persico attraverso lo Stretto di Hormuz). Se, come stanno cercando di fare, i russi riusciranno a creare una grande base aerea in Siria e si coordineranno in un’alleanza con il governo Assad, l’Iran e magari anche l’Iraq, potrebbero causare non pochi problemi – eufemisticamente parlando – alle spedizioni dai terminal di Golfo Persico e Mar Rosso. Questo anche perché i canali di export della Russia sono meno suscettibili a sabotaggi, visto che a parte l’export di gas naturale liquefatto attraverso Sakhalin verso l’Asia, il resto del gas russo viene distribuito ai clienti via pipeline. 

Per quanto riguarda l’export petrolifero, invece, il 70% delle spedizioni via mare russe è suscettibile a “choke point” ma sicuramente in aree meno turbolente di quelle utilizzate da Arabia Saudita e soci, essendo due porti del Golfo di Finlandia attraverso il Mar Baltico fino all’Atlantico e un porto sul Mar Nero attraverso il Bosforo fino al Mediterraneo. E, in questa chiave, depotenziare il governo turco, visto che oltretutto il mese prossimo il Paese andrà alle urne, garantirebbe all’industria energetica russa ulteriore sicurezza, senza contare l’appoggio nelle aree del Nord della Siria al confine con la Turchia delle milizie curde. Il 30%, invece, passa direttamente attraverso pipeline, come quella verso l’Europa al porto di Primorsk, vicino Vladivostok. 

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