Per i miei lettori più fedeli quanto sto per raccontare è solo la conferma di una convinzione che esprimo da mesi, ma vale comunque la pena ribadirlo: non solo quella relativa al Pil Usa è una delle più grosse operazioni manipolatorie mai viste, ma, soprattutto, la Fed non potrà affatto alzare i tassi né a giugno, né a settembre. Anzi, avanti di questo passo, agli Stati Uniti potrebbero servire due cose per evitare di precipitare nella quasi recessione in cui stanno entrando: un nuovo ciclo, più blando, di Qe e un evento geopolitico di ampia portata che faccia risalire in fretta il prezzo del petrolio. E il fatto che mercoledì sia uscita la conferma che, nonostante il tonfo delle valutazioni del greggio e le chiusure di giacimenti, negli Usa l’output petrolifero sia ai massimi da 19 anni e le scorte mai così abbondanti, certifica la possibilità di un conflitto su larga scala. Ovvero, Washington ha fatto il piano per non patire scarsità o prezzi alle stelle dovuti a qualche instabilità geopolitica di portata superiore alle attuali.
Ma veniamo alla questione legata al Pil Usa, schizzato al 5% nel terzo trimestre dello scorso anno grazie a revisioni e spostamenti delle scadenze di pagamento legate al programma Obamacare, sceso nel quarto al 2,6% e rivisto ancora al ribasso 2,18% la scorsa settimana. Cosa dobbiamo attenderci per il primo trimestre di quest’anno? Per scoprirlo ufficialmente servirebbe attendere due mesi, ma basta perdere un po’ di tempo nei meandri dei siti delle varie sedi della Fed e quando si arriva a quello giusto, ovvero a quello di Atlanta, e nella fattispecie al Center for Quantitative Economic Research, si scoprono cose interessanti, come ad esempio il modello di calcolo GDPNow, uno strumento che calcola il Pil in tempo reale.
La stima offerta da GDPNow è basata sull’aggregazione statistica di modelli di previsione di 13 subcomponenti che compongono il Pil, ma a differenza di altre rilevazioni che sono aggiornate solo mensilmente o a trimestre, che non sono disponibili per il pubblico e che non forniscono previsioni per le subcomponenti, il GDPNow ha invece tutte queste caratteristiche. Insomma, si usano gli stessi criteri degli enti federali ma lo si fa in tempo reale invece che con cadenze più lunghe e prefissate: e cosa si scopre rispetto al primo trimestre di quest’anno? Ve lo dice il grafico a fondo pagina, dal quale si desume che il Pil dei primi tre mesi del 2015 è a quota 1,2% contro un consenso medio (area azzurra) di oltre il 2,5% e, soprattutto, un tonfo dell’1% in meno rispetto a quanto predetto dallo stesso modello GDPNow soltanto un mese fa!
Com’è possibile? Cosa è successo all’economia Usa? Nulla di misterioso o complottistico, basta andare a vedere un semplice foglio excel allegato al dato e che riporto in fondo e che ci mostra quale voce aggregata ha consentito un crollo dal 2,3% del 13 febbraio alla metà registrata il 2 marzo: “Strutture”. E da cosa è composta questa subcomponente? Investimenti non residenziali, ovvero spesa in capex che riguarda per la gran parte proprio il comparto dello shale oil attraverso la costruzione o l’acquisizione di uffici e strutture estrattive, inclusi i pozzi per petrolio e gas. Quindi non solo il prezzo crollato del petrolio non si è tramutato nel tanto sperato “taglio fiscale” che avrebbe dovuto far aumentare voci come le vendite al dettaglio, non solo ha comportato un aumento della disoccupazione ma sta schiantando lo stesso output economico del Paese e creando i prodromi per una possibile crisi del comparto immobiliare, altro driver dell’economia Usa.
Non ci credete? Guardate il primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra plasticamente quale sarebbe la capitale degli Stati Uniti se il criterio valutativo fosse quello dello spazio per uffici attualmente in costruzione: Houston, in Texas, la patria del settore petrolifero. E proprio la skyline di questa città rischia di essere la prima vittima immobiliare del crollo del prezzo del petrolio, visto che con il boom del settore energetico registratosi negli ultimi anni, i costruttori si sono precipitati a Houston per costruire come pazzi per le aziende legate al comparto: un sesto di tutto lo spazio per uffici in costruzione degli Usa attualmente è nell’area metropolitana di Houston! Molti di quei progetti rischiano di rallentare se non di essere abbandonati del tutto e se il prezzo del petrolio continuerà a restare così basso, il danno potrebbe essere maggiore.
Per William Page, direttore del centro studio della CoStar Group, un gruppo immobiliare, «la domanda per spazi da dedicare a ufficio è praticamente ferma e questo dato è più grave quando si hanno un sacco di costruzioni in atto». Entro la fine dello scorso anno sono partiti lavori in 80 palazzi per un totale di 18 milioni di metri quadri di spazi per uffici a Houston, molti dei quali erano stati decisi quando il petrolio era a 100 dollari al barile: ora molti di quei progetti sono a rischio e con essi l’indotto occupazionale, economico e finanziario rispetto ai prestiti bancari accesi. Per capirci, a Houston stanno costruendo su un’area che è pari alla città di Kansas City.
Insomma, la chiusura di strutture per l’estrazione di gas e petrolio sta inferendo un colpo mortale all’economia statunitense. Tanto più che gli effetti reali dei bassi prezzi del petrolio si rivelano più chiaramente anche attraverso un’altra voce, quella dell’attività mineraria, ovvero di investimenti fissi non residenziali legati a esplorazioni minerarie, pozzi e sfiatatoi. Stando a dati della Fed di St. Louis, nel 2013 questo tipo di investimenti pesava per circa il 5% degli investimenti fissi totali e solo per lo 0,8% del Pil reale, ma dal terzo trimestre del 2009 l’attività mineraria è cresciuta al tasso annuale del 17,1%, molto più velocemente del 5,5% di tasso di aumento negli investimenti fissi privati. Come dimostra il secondo grafico, l’attività mineraria in generale è correlata positivamente al prezzo del petrolio: ovvero, quando il prezzo sale, gli investimenti crescono e viceversa. Questo ci dimostra che non solo il modello GDPNow della Fed di Atlanta è accurato, ma anche predice esattamente quanto accadrà nei prossimi mesi.
E c’è di più, l’altro giorno il colosso petrolifero Exxon ha comunicato di aver deciso un taglio dei propri investimenti Capex del 12%, portando il budget di spesa per l’anno in corso a 34 miliardi di dollari dai 38,5 spesi nel 2014: ma Exxon è stata solo l’ultima major in ordine di tempo a fare questa scelta, molte altre hanno già tagliato drasticamente le spese per investimenti e – se il prezzo non risalirà in fretta – molte altre lo faranno. Quindi, c’è il potenziale rischio che nei prossimi mesi il settore petrolifero ed energetico in genere viva una collasso della spesa di centinaia di miliardi di dollari.
Questo significa che il dato attuale di Pil all’1,2% nel primo trimestre di quest’anno potrebbe essere solo la prima prova di questo collasso in corso e che potrebbe quindi peggiorare ancora, visto che la stessa Fed di Atlanta descrivendo la metodologia che utilizza ricorda come «più dati macro diventano disponibili, più la previsione GDPNow per un trimestre particolare evolve e diviene generalmente molto più accurata». Insomma, al netto della Fed e del governo federale Usa, la situazione è tutt’altro che rosea per quanto riguarda l’economia. E il dato sulle richieste iniziali di disoccupazione uscito proprio ieri mentre Mario Draghi annunciava il lancio del Qe, lo conferma, visto che la scorsa settimana sono salite a 320mila, molto peggio delle attese di 295mila e al massimo da maggio 2014. Inoltre, le richieste non stagionalizzate sono salite di altre 29.361 unità per un totale di 310mila, facendo diventare questo inizio anno il peggiore dal 2009 per quanto riguarda questa statistica.
Insomma, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, dalla fine del Qe3 della Fed e dell’anno fiscale governativo, il trend di miglioramento occupazionale è finito per fare posto a un nuovo regime di indebolimento delle dinamiche del mercato del lavoro. E c’è dell’altro, prima di chiudere. Proprio ieri il capo economista della NFIB, William Dunkelberg, lanciava l’allarme sul fatto che la relazione tra il cosiddetto “net worth” statunitense (ovvero la somma dei valori di tutti gli assets, reali e finanaziari, che i consumatori detengono, meno il loro debito, inclusi mutui, leasing e carte di credito) e il Pil ha raggiunto vertici insostenibili, stando agli standard storici. I consumatori americani hanno infatti circa 14 triliardi di debito e un “net worth” di oltre 80 triliardi, stando a dati della Federal Reserve. Il benessere che abbiamo è un modo di accumulare il nostro potere d’acquisto, ovvero possiamo vendere le nostre azioni di Apple per comprare delle cose e il misuratore più ampio di quelle “cose” è proprio il Pil: quindi, costruire un ratio tra “net worth” e Pil ci mostra le fluttuazioni tra benessere nominale e output nominale.
Come mostra il secondo grafico, dal 1970 fino a metà anni Novanta avevamo una media di 3,5 dollari in claim sull’output per ogni dollaro di Pil. Poi sono arrivati il boom delle dot.com e quello generato dalla Fed: come vedete, ogni picco è stato seguito da un recessione e oggi siamo tornati a una ratio di circa 4,7 dollari. Storicamente, quella ratio dovrebbe collassare ancora e tornare in area 3,5 dollari: come? Aumento enorme del Pil? Altamente improbabile, mentre pare più percorribile la non piacevole strada di un calo enorme del valore degli assets, del “net worth”.
Unite a questa dinamica l’effetto accelerante che ha l’uso della leva in quasi tutti i settori finanziari statunitensi, dai mutui in poi e avrete una proiezione di quanto stia bollendo in pentola nell’economia americana. Una narrativa un po’ diversa da quella dei grandi giornali.