Brutte notizie per Mario Draghi, già alle prese con la rogna greca che pare essere meno gestibile di quanto sembrasse, se si parla nuovamente di aiuti sotto forma di finanziamenti in tranche (di fatto una partita di giro, ovvero soldi Ue che vanno ad Atene per tornare all’Ue o al Fmi sotto forma di pagamento dei prestiti). Il Pmi dell’Eurozona ieri ha infatti tagliato le gambe ai mercati, visto che la sintesi di dati su manifattura e servizi ha mostrato ad aprile una crescita inferiore al previsto, scendendo a 53,5 da 54 di marzo contro le attese degli economisti per un aumento a 54,4. La stima flash del Pmi manifatturiero, infatti, ha indicato un calo a 51,9 da 52,2 di marzo, contro un consenso che si aspettava un aumento a 52,6, mentre la stima flash del Pmi servizi si è attestata a 53,7, in flessione rispetto a 54,2 di marzo e anche in questo caso contro una previsione di un aumento a 54,5. 

A deludere stavolta, guarda caso (alla luce di quanto vi sto dicendo da due giorni) sono state sia la Germania che la Francia. La crescita del settore privato tedesco ha infatti rallentato ad aprile: l’indice Pmi composito è calato a 54,2 da 55,4 di marzo, rimanendo comunque ampiamente sopra la soglia di 50 che separa la crescita dalla contrazione per il 24esimo mese consecutivo, tuttavia il sottoindice per la manifattura è sceso a sorpresa a 51,9 da 52,8 di marzo (il consenso lo vedeva in crescita a 53), così come quello per i servizi passato a 54,4 da 55,4 quando gli economisti si aspettavano un dato a 55,5. 

Anche l’indice preliminare Pmi del settore servizi francese è arretrato a 50,8 contro il 52,4 di marzo, mentre gli economisti prevedevano un mini rialzo a 52,5. Si è contratto di più il settore manifatturiero con il Pmi sceso a 48,4 da 48,8 del mese precedente, sotto le previsioni che indicavano un miglioramento a 49,2, mentre l’indice composito si è attestato a 50,2: si tratta della lettura più bassa in tre mesi consecutivi di espansione. Per Chris Williamson, capo economista di Markit, il rallentamento di aprile è il sintomo di un indebolimento dell’espansione sia in Germania che in Francia, con quest’ultima che ha registrato quasi un blocco della crescita a causa di un’accelerata contrazione nel settore manifatturiero. 

L’esperto, contattato da Class-Cnbc, ha anche notato segnali di maggiore cautela tra le aziende e i loro clienti, fattore attribuito in alcuni casi «alle preoccupazioni sulla situazione della Grecia e che probabilmente ha portato a un indebolimento della domanda». Nel caso della Francia, per Williamson la performance negativa sembra riflettere un malessere che dura da più tempo e che, dopo un inizio d’anno promettente, mostra in realtà pochi segnali di ripresa. «Il calo dei Pmi dell’Eurozona suggerisce che i timori sulla Grecia potrebbero già aver iniziato a pesare sulla crescita del Vecchio Continente», ha commentato all’agenzia Mf-DowJones, Jessica Hinds, economista di Capital Economics, puntualizzando che «c’è il chiaro rischio che i Pmi possano scendere ulteriormente se le preoccupazioni sulla situazione di Atene e sulla sua possibile uscita dall’Eurozona dovessero intensificarsi, minacciando un nuovo rallentamento della crescita dell’Europa». 

Eppure, a parte il calo di ieri i mercati non sembravano dar troppo peso alle sirene greche di nuova crisi, eccezion fatta per gli spread dei cosiddetti Paesi periferici, tutti in aumento da contagio ma comunque ancora in un range di oscillazione non certo da allarme rosso. Peccato che invece il livello di allarme sia proprio quello, nonostante nessuno ne parli. Mentre infatti Mario Draghi sta scassando il mercato obbligazionario drenando collaterale di qualità, spedendo l’Euribor in negativo e congelando a proprio rischio e pericolo il mercato repo, occorrerebbe prestare attenzione a un’altra dinamica, quella esplicitata nel grafico a fondo pagina. A gennaio di quest’anno, i prezzi dei titoli azionari europei erano infatti saliti del 50% (oggi sono ancora più alti) dal famoso discorso del “whatever it takes” del numero uno della Bce nel luglio del 2012, questo nonostante fosse da registrare un contemporaneo calo degli introiti corporate del 7%. 

Com’è spiegabile una dinamica simile? Semplice, i banchieri centrali hanno creato con le loro azioni un mercato che può funzionare soltanto in modalità di bolla e quindi hanno bisogno di bolle sempre più grandi per preservarlo ed evitare la più fisiologica delle correzioni. Mario Draghi, poi, è riuscito nel capolavoro di far sembrare la manipolazione dei prezzi degli assets operata dalla Fed di Alan Greenspan un lavoro amatoriale: l’euro in calo e la percentuale sempre maggiore di debito europeo che trada negativo su scadenze sempre più lunghe sono soltanto due variabili quasi risibili se messe in correlazione con altro, ovvero le valutazioni delle equities nell’eurozona. Guardate il primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra che essendo entrati nel sesto anno di mercato rialzista ciclico negli Usa, l’espansione dei multipli di utile per azione nell’eurozona è semplicemente folle, ingestibile, completamente e lunarmente sconnessa dai fondamentali. Stiamo parlando di un livello di oltre 20x per l’eurozona (oggi saremo ormai già oltre 21x) contro il 18.5x per gli Usa negli ultimi due anni, lasso di tempo durante il quale lo stra-manipolato mercato giapponese ha mantenuto una ratio utile per azione sui multipli a 12 mesi pari a 14x. 

Vi pare gestibile una situazione simile, oltretutto in un contesto di Qe che potrebbe vedere – più prima che poi – una fuga dall’obbligazionario a rendimento zero e una rotazione proprio sull’azionario? Come potrebbe gestire uno sviluppo simile la Bce? Ma si sa, viviamo in un mondo e in un mercato strano. Dove Deutsche Bank pagando 25mila dollari per ogni trader coinvolto, ha evitato la galera ai suoi dipendenti legati alla manipolazione del Libor, mentre misteriosamente un singolo trader britannico sarebbe l’epico esecutore del “flash crash” del 2010: come dire, capro espiatorio a orologeria.

Ma succede anche di peggio nelle sale trading, fidatevi. Guardate il secondo grafico, il quale ci mostra come magicamente negli ultimi due giorni il rendimento del Bund decennale su basi assolute sia salito ai massimi dall’ottobre 2014, caso strano da quando Bill Gross ha dichiarato che andare ribassisti sul titolo di Stato tedesco è “lo short di una vita intera”: chi è così screanzato da vendere Bund quando invece Mario Draghi promette ancora acquisti? A occhio, qualcuno sta già andando frontrun su Bce e Banche centrali, come vi spiegavo ieri o sta uscendo dal giochino prima di scottarsi le dita prima e tutto il braccio poco dopo. 

Questo breve excursus mi è servito per introdurre il nucleo centrale della riflessione di oggi, ovvero per contestualizzare quanto sta accadendo in Europa per mettere meglio in prospettiva quanto stia succedendo in Italia. È dell’altro giorno infatti la pubblicazione del bollettino mensile dell’Abi, dal quale desumiamo una dinamica ancora negativa dei prestiti bancari a febbraio. Sulla base di prime stime, il totale dei prestiti a residenti in Italia è risultato pari a 1.821,1 miliardi di euro, segnando una variazione annua del -1,4% (-1,5% il mese precedente). Sembra, invece, ripartire il mercato dei mutui. Le nuove erogazioni per l’acquisto di immobili, in termini di valore cumulato, del trimestre novembre 2014-gennaio 2015 hanno segnato un aumento di oltre il 35% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre il flusso delle nuove operazioni di credito al consumo ha mostrato un incremento su base annua dell’8,1%. 

I prestiti a famiglie e società non finanziarie hanno raggiunto quota 1.405 miliardi di euro, con una variazione annua lievemente negativa: -1,4%, comunque il miglior risultato da luglio 2012 (-1,5% a gennaio; -0,8% nella media dell’area euro). I segnali positivi emergono con maggior chiarezza anche dai finanziamenti alle imprese che hanno segnato in termini di valore cumulato del trimestre novembre 2014-gennaio 2015 un incremento di circa il +4%, mentre è in lieve flessione la dinamica tendenziale del totale prestiti alle famiglie (-0,5% a gennaio 2015, lo stesso valore del mese precedente; -1,5% a novembre 2013). 

 

 

Direte voi, qualche segno di miglioramento si vede: certo, peccato che sia con l’Euribor a 3 mesi in negativo, ovvero con le banche strapiene di liquidità e quindi quei dati dovrebbero essere quantomeno il doppio in un contesto di normalità. E con l’Euribor a zero come siamo messi con i tassi di interesse? Stando all’Abi – quindi state certi che le condizioni reali sono peggiori – il tasso medio sulle nuove operazioni per acquisto di abitazioni si è attestato al 2,78% contro il 2,82% del mese precedente, segnando il valore più basso da ottobre 2010 (era al 5,72% a fine 2007). Bene, dimezzato in otto anni: ma quanto caricano ancora di spread le banche al netto di un -0,001% di Euribor a 3 mesi, dopo due aste Ltro, un Tltro e ora il Qe, non contando i soldi ottenuti dai cicli di stimolo della Fed attraverso le filiali estere? Sapete perché le dinamiche sono ancora queste? Perché non si arresta la corsa delle sofferenze bancarie. 

Con il perdurare della crisi e dei suoi effetti a gennaio le sofferenze lorde sono risultate pari a 185,5 miliardi di euro, 1,8 miliardi in più rispetto a dicembre 2014 e circa 25 miliardi in più rispetto a fine gennaio 2014, segnando un incremento annuo del 15,6%! Avete letto bene. In rapporto agli impieghi, le sofferenze sono risultate pari al 9,7%, il valore più elevato da fine 1996, quando era al 9,9%, (8,4% un anno prima; 2,8% a fine 2007, prima dell’inizio della crisi). Il valore raggiunge il 16,3% per i piccoli operatori economici (14,2% a gennaio 2014), il 16,3% per le imprese (13,4% un anno prima) e il 7% per le famiglie consumatrici (6,5% a gennaio 2014). Infine, le sofferenze al netto delle svalutazioni sono risultate a gennaio pari a circa 81,3 miliardi di euro, in flessione rispetto agli 84,5 miliardi del mese precedente. 

Rispetto allo stesso mese dell’anno precedente sono aumentate di circa 2,1 miliardi (+2,6% l’incremento annuo, in decelerazione rispetto al +22,9% di un anno prima). Il rapporto sofferenze nette/impieghi totali si è attestato al 4,50% dal 4,64% di dicembre 2014 e dal 4,31% a gennaio 2014. Tra le cause del perdurante ed elevato stock di sofferenze, oltre alla crisi economica, il rapporto dell’Abi ha evidenziato anche la lunghezza delle procedure di recupero dei crediti: stando agli ultimi dati del ministero della Giustizia, relativi al 2012, la durata media dei procedimenti di fallimento è pari mediamente a 7 anni e una durata media dei procedimenti di esecuzioni immobiliari di 3 anni e 5 mesi (ma guai a parlare di riforma del sistema o messa in discussione delle ferie dei giudici, altrimenti si passa per berlusconiani). 

Signori miei, se anche nessuno ha il coraggio di dirvelo, la traiettoria delle sofferenze bancarie italiane è perfettamente in linea con quella spagnola o greca, solo traslata di qualche trimestre. E quando parliamo di sofferenze nette rapportate al capitale più le riserve (ovvero quelle sulle quali le banche NON hanno ancora messo coperture a bilancio) parliamo di un dato che sta continuando a salire e dunque a erodere il “margine” di sicurezza costituito dal capitale degli istituti. 

Cosa significa questo? Che il Qe della Bce, a livello di riattivazioni del meccanismo di trasmissione del credito a famiglie e imprese non serve assolutamente a nulla, come vi dico che ancor prima che venisse lanciato. Ma non basta. È poi rimasto in calo il trend della raccolta bancaria, penalizzata dalla dinamica negativa della componente a medio-lungo termine: la raccolta complessiva ha, infatti, registrato a febbraio una diminuzione di circa 16,2 miliardi di euro rispetto a un anno prima, con una variazione su base annua del -1% (-0,6% a gennaio di quest’anno). In particolare, la raccolta a medio e lungo termine, cioè tramite obbligazioni, ha segnato a febbraio un calo del -13,5%, con una diminuzione su base annua in valore assoluto di 68,5 miliardi di euro: strano, con i rendimenti schiantati chissà come mai nessuno pensa di investire i suoi sudati risparmi in bond di banche zombie come quelle italiane. 

Di converso, a livello conservativo, i depositi sono invece risultati ancora in aumento di quasi 52,3 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente (+4,3% su base annua, da +5,1% a gennaio 2015). Dalla fine del 2007, prima dell’inizio della crisi, a oggi la raccolta da clientela è passata da 1.513 a 1.701,2 miliardi di euro, segnando un aumento in valore assoluto di quasi 190 miliardi. E attenzione anche a livello di depositi, perché due giorni fa il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha dichiarato durante un’audizione alla Commissione Finanze del Senato che «le banche devono informare la clientela del fatto che potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca». 

Il Fondo di risoluzione unico, previsto dal Meccanismo di risoluzione unico, pienamente operativo dal primo gennaio 2016, dovrà infatti essere dotato di «un adeguato backstop pubblico europeo, attivabile in breve tempo. Le risorse comuni eventualmente anticipate dal Fondo dovranno essere comunque recuperate ex post a carico degli intermediari, coerentemente con un quadro normativo che ha l’obiettivo di attribuire al settore privato l’onere di sostenere i costi della crisi». Insomma, il modello Cipro ora vale per tutta Europa, anche l’Italia. Ora, questo non vuole essere un invito a correre in banca, ritirare tutto e metterlo sotto il materasso, ma solo un’informazione rispetto a come stanno evolvendo dinamiche e regolamentazioni del mondo bancario, un qualcosa che ci riguarda tutti da vicino e che troppo spesso passa sotto silenzio. 

Insomma, il quadro è di quelli preoccupanti, ma state tranquilli, come anticipato ci penseranno i fieri giapponesi a garantire ancora un po’ di mesi al rally azionario, trasformando in eutanasia lenta quella che potrebbe invece essere uno schianto senza precedenti. Durante una sessione parlamentare, il Governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, ha infatti spiegato infatti che il target del 2% d’inflazione potrebbe non essere raggiunto prima dell’inizio dell’autunno 2016: «Il tasso d’inflazione probabilmente raggiungerà il 2% per marzo 2016 o nella prima parte dell’anno fiscale 2015», ha dichiarato Kuroda (l’anno fiscale giapponese decorre da aprile a marzo, ndr). A spiegazione delle sue affermazioni Kuroda ha osservato che l’economia continua nel trend di crescita moderata e che gli utili aziendali dovrebbero mantenersi elevati, mentre occupazione e salari dovrebbero migliorare. 

L’inflazione però sembra destinata a restare su ritmi modesti, tenuta sotto controllo dal calo dei prezzi dell’energia. Occorre notare, tuttavia, che i tempi per raggiungere 2% saranno più o meno veloci a seconda dell’andamento del prezzo del greggio: «Questo perché, partendo dal presupposto che per i prezzi del greggio si prevede un aumento moderato rispetto ai livelli recenti, l’incremento dei prezzi al consumo rischia di amplificare gli effetti del calo dei prezzi del greggio, così che il target del 2% potrebbe essere raggiunto anche nell’anno fiscale 2015». Benedetto petrolio, un alibi ancora migliore del maltempo! 

Ironia a parte, sapete qual è l’ultimo dato macro che ci arriva dal Giappone dopo due anni di Abenomics senza sosta? Il settore manifatturiero è entrato in contrazione in aprile: l’indice Pmi, calcolato da Markit, è infatti sceso a 49,7 punti ad aprile dai 50,3 punti di marzo. E come ormai sapere, sopra i 50 punti l’indice segnala un’espansione dell’economia, sotto una contrazione. Sembra una barzelletta, invece è l’amara e pericolosa realtà. Il governo italiano intervenga sulle banche, anche con una bad bank se serve e lo faccia in fretta: dopodiché, una bella riforma che vieti – pena la galera per i manager – agli istituti commerciali di fare trading come fossero banche d’investimento. Si torni a erogare credito e gestire risparmio, altro che riforma delle popolari. Altrimenti, ci si tramuti in investment bank e buona fortuna, ma, parafrasando Ricucci, giocando con i derivati con soldi propri, non dei correntisti.