Il mondo è definitivamente impazzito. Sapete cos’ha avuto il coraggio di dire ieri il governatore della Bank of Japan, il valoroso samurai Kuroda? «Non vedo nessuna bolla sugli asset o bolla sul mercato azionario. Di più, non vedo nessun eccesso finanziario nell’economia». Ora guardate il grafico a fondo pagina e ditemi se il buon Kuroda non ha bisogno urgente di un ottimo oculista: a vostro modo di vedere, cosa succederà al capitale del Bank of Japan se il suo portafoglio equity dovesse soffrire una correzione del 2%, del 5% o magari del 10%? Questi sono dei folli, non c’è altra spiegazione. 

Ma sempre restando in Asia, ieri è suonato un campanello d’allarme. È stato infatti pesante il calo patito dalla Borsa di Shanghai, dopo la stretta alle attività di margin trading sul mercato dei capitali decisa dalle autorità regolatrici, la China Securities Regulatory Commission, authority dei listini cinese, e la China Banking Regulatory Commission, ente regolatore del settore bancario. L’indice Composite ha perso il 6,5% a fine seduta, a 4620,27 punti, ma è terminata in calo anche la Borsa di Shenzhen, che ha ceduto il 6,19%, chiudendo a 15912,95 punti. Tra i ribassi più significativi, quello dell’indice ChiNext della Borsa di Shenzhen, dove sono quotati i titoli tecnologici cinesi, che ha ceduto il 5,39%, a 3432,98 punti, ma ha chiuso in calo anche l’indice Hang Seng della Borsa di Hong Kong, del 2,2% a fine seduta. 

Correzione? Storno? Pausa di riflessione? Una cosa è certa: negli ultimi dodici mesi, nonostante l’economia nazionale sia in fase calante, il mercato azionario cinese ha segnato un aumento del 140%, destando la preoccupazione degli analisti che vedono come totalmente ingiustificato un simile incremento. E, infatti, tre società di brokeraggio cinesi – Guosen Securities, Southwest Securities e Changjiang Securities – hanno annunciato regole più severe per i prestiti sul mercato azionario. Nei giorni scorsi altri due grandi broker cinesi, Haitong e Gf Securities, avevano annunciato misure simili. 

Il perché è presto detto: venerdì scorso, il margin trading sulle piazze cinesi aveva superato per la prima volta la cifra record di duemila miliardi di yuan, a quota 2030 miliardi, pari a 296,85 miliardi di euro. Cosa deve dirci, dunque, il crollo di ieri? Che la giostra continuerà a girare, si è solo preso fiato per un po’. A giustificare il tonfo, infatti, ci sono tre fattori: il ritocco sui margini, la decisione del fondo sovrano cinese di vendere le sue quote di partecipazione in due banche a controllo statale e la decisione della Banca centrale cinese di drenare liquidità dalla banche commerciali al fine di limitare gli eccessi. 

Insomma, una normalissima logica di mercato: ci sono stati più venditori che acquirenti. Oltretutto, stando a Steve Wang, direttore del centro ricerche della Reorient Financial, «il mercato cinese sta tradando a livello base come uno yo-yo. È guidato da investitori retail, gente che si limita a seguire il trend». Per Li Shaojun, analista alla Minsheng Securities Ltd, «il tonfo di ieri potrebbe trasformare il mercato da toro impazzito a toro rallentato». Insomma, invece che qualche milione di nuovi conti titoli aperti ogni settimana, ci si limiterà a qualche centinaio di migliaia in meno. Ma la musica è destinata a non cambiare, il tema di fondo resta. 

E sapete perché? Per spiegarvelo devo fare un passo indietro e raccontarvi un’altra storia, sempre cinese ma apparentemente slegata dal tonfo azionario. Sempre ieri, infatti, la Cina ha sperimentato il suo terzo default corporate, dopo che lo scorso mese il mancato pagamento di un coupon da 14 milioni di dollari vide il Boading Tianwei Group andare a zampe all’aria, primo caso che riguardasse una sussidiaria di un’azienda statale. Ora è stato il turno della Zhuhai Zhongfu Enterprise, azienda produttrice di bottiglie in plastica e fornitore di marchi come Coca Cola e Pepsi per il mercato cinese, la quale domattina dovrebbe ripagare 590 milioni di capitale su un bond emesso nel 2012 al 5,28% di rendimento e che invece sarà in grado di onorare soltanto 149 di yuan più tutti gli interessi, circa 31,15 milioni di yuan. 

L’azienda, basata nella città del sud di Zhuhai e che occupa oltre 4mila persone, il 21 maggio scorso aveva reso noto agli investitori che un consorzio di banche aveva respinto la sua richiesta di un prestito da 500 milioni di yuan, di fatto ufficializzando una drammatica crisi di liquidità. Direte voi, succede. Certo, peccato per tre piccole criticità. Primo, non si tratta di un’azienda da due lire, ma della fornitrice di giganti come Coca Cola e Pepsi che rischia il default su un bond che va a scadenza. Secondo, prima che venisse sospeso il mese scorso, il titolo dell’azienda sul listino di Shenzhen aveva macinato il +120% da inizio anno, viaggiando a un multiplo di utile per azione di 71x. Terzo, il grafico a fondo pagina ci spinge a una considerazione: come può esserci crisi di liquidità in un mercato simile? Le banche cinesi, infatti, hanno assets per circa 30 trilioni di dollari, quasi il doppio degli istituti statunitensi e la Banca centrale cinese e dal 2008 la liquidità degli istituti è cresciuta di 15,4 triliardi di dollari, contro i 9,8 triliardi di Fed, Bank of Japan, Bank of England e Bce messe insieme. Eppure c’è crisi di liquidità. 

Perché? Due motivi: sofferenze bancarie alle stelle e decisione del governo di stroncare il sistema bancario ombra. Dunque, siamo nella trappola perfetta. Un sistema sull’orlo dell’esplosione, parrebbe. E cos’ha evitato finora che la pentola a pressione smettesse di lanciare guaiti e finisse in mille pezzi? L’enorme casinò del riciclaggio legale, la Borsa. E qui veniamo al perché, a mio avviso, il tonfo di ieri altro non è che una fisiologica pausa di un rally completamente sconnesso dai fondamentali ma destinato a durare. 

L’equity market sta infatti giocando un ruolo sempre più importante per quanto riguarda sia gli obiettivi politici di breve termine che le riforme strutturali più ambiziose del governo cinese, ne è il driver. A Pechino pensano infatti che un rally azionario sostenuto può implementare il Pil dello 0,5% attraverso attività finanziarie legate al trading e di un altro 0,2% grazie ai maggiori consumi garantiti dalla creazione di benessere. Il cortocircuito totale, visto che di solito dovrebbe essere un Pil solido a far correre i titoli azionari e non il contrario. 

 

Peccato che ci siano alcune variabili che fino a oggi, guardando alla Cina, il mondo ha preferito ignorare. Ad esempio, il fatto che la crescita della credito seguita al crollo Lehman ha di fatto rappresentato la dinamo che ha tenuto in piedi il mondo almeno dal 2009 al 2013, anno in cui Pechino si è resa conto di avere un problema che la sua ratio debito/Pil che flirtava con il 300% e con uno stock di debito che gravava sull’economia e rischiava di tramutarsi in una metastasi, il cui epilogo sarebbe stato quella di un’ondata di default in stile effetto domino. 

A metà 2014 si intervenne quindi con la mannaia sul sistema bancario ombra, operazione che portò però a un netto rallentamento del Pil sia cinese che globale (una delle causa dell’asfittico dato del Pil Usa del primo trimestre di quest’anno, oltre ovviamente al proverbiale maltempo che la Fed cita ad ogni piè sospinto), ma si attivò anche il rally del mercato azionario, il quale entro fine dello scorso anno aveva guadagnato già il 50% e un altro 50% è stato incamerato fino a oggi. Insomma, il governo cinese non è che non vuole, non può far esplodere la bolla azionaria in atto, deve farla proseguire e gonfiare a più non posso perché altrimenti si ritrova annegato di debito e liquidità. Il problema però è quale sostenibilità questa possa avere, se già viaggia su multipli da manicomio e non si ha un Pil robusto come un tempo che possa sostenere quella crescita incontrollata dei multipli: resisterà la Cina a eventuali shock esterni? O sarà lei a inviarne uno ingestibile al resto del mondo? 

Io propendo per la prima ipotesi. A meno che qualcuno quella bolla non abbia tutto l’interesse a farla scoppiare nella maniera più fragorosa possibile, ma dubito abbia abbastanza fegato per farlo, visto quale potrebbe essere la reazione di Pechino. E attenti, perché lo stato di salute della Cina diviene giorno dopo giorno più importante per l’Italia, visto che solo nei primi sette mesi del 2014 gli investimenti diretti nel nostro Paese avevano un controvalore di 5,7 miliardi di euro. Di più, stando a un rapporto di Deutsche Bank, la presenza cinese si è fatta più massiccia un po’ in tutta Europa a partire dal 2011: «Investitori cinesi sono arrivati in misura crescente facendo crescere l’ammontare degli investimenti diretti di oltre quattro volte nel giro di due anni». Nel 2010, gli investimenti della Cina nell’Unione europea erano solo di 6,1 miliardi di euro, meno di quelli che il Dragone aveva in Nigeria e Islanda. Poi la crisi ha cambiato le carte in tavola e la cifra è aumentata fino a 26,8 miliardi verso la fine del 2012: tanto per fare qualche esempio, Dongfeng Motor Group è oggi uno dei principali azionisti di Peugeot, mentre la China Investment Corporation detiene il 10% della Heathrow Airport Holdings, il gruppo che gestisce il principale aeroporto di Londra. E la tendenza sembra destinata a continuare. 

Per Hsbc, citando fonti governative, nel 2014 gli investimenti diretti cinesi verso il resto del mondo sono cresciuti del 14,1%, raggiungendo i 102,9 miliardi di dollari, mentre quelli stranieri in Cina sono aumentati solo dell’1,7% e proprio le autorità pubbliche incoraggiano l’espansione internazionale delle compagnie cinesi. Per esempio, Pechino ha recentemente inaugurato un progetto chiamato Nuova Via della Seta che dovrebbe unire la Cina e l’Europa tramite una rete di autostrade, ferrovie e gasdotti da costruire in Asia centrale e meridionale, facilitando ulteriormente gli investimenti nei Paesi di riferimento. Il progetto verrà probabilmente realizzato con l’aiuto dell’Asian Infrastructure Investement Bank (Aiib), voluta dal presidente Xi Jinping lo scorso autunno con l’intenzione fare concorrenza alla Banca Mondiale a guida Usa. 

La nuova istituzione, capitanata dalla Cina e aperta ad altri Stati (Italia, Germania e Francia dovrebbero essere tra i membri fondatori), avrà un budget iniziale di 50 miliardi di dollari e servirà a finanziare investimenti nei paesi in via di sviluppo, contribuendo così ad accrescere l’influenza della Repubblica Popolare nel mondo. Bene così? Per Alberto Forchielli, managing partner presso Mandarin Capital Partners Md interpellato da Rataran, l’ondata di capitali cinesi che sta arrivando nel Vecchio Continente è da imputare anche alle scarse difese dei paesi europei: «I cinesi hanno i soldi, vogliono migliorare la qualità dei loro settori industriali e hanno tre mercati nei quali comprare: l’Europa, gli Stati Uniti e il Giappone. In Giappone non scendono nemmeno dal traghetto e negli Stati Uniti vengono bloccati dalle autorità, mentre in Europa possono fare quello che vogliono. Mancano le protezioni, l’Europa è allo sbando. Da noi non devono nemmeno fare una domanda per comprare, è un rapporto asimmetrico». 

Capito adesso perché è meglio che la Cina riesca a gestire la sua bolla nel modo migliore possibile? Ma si sa, qui l’unico problema davvero sentito è quello della questione greca, ieri entrata nella sua fase terminale di bufala del secolo. E una volta risolta la questione, tutte le altre criticità dell’eurozona spariranno? Caleranno di botto le ratio debito/Pil? Si riattiverà il meccanismo del credito? Crollerà la disoccupazione? Si riattiverà la ripresa? I Pil andranno sulla luna? Ci credete davvero, davvero pensate che Atene conti davvero qualcosa in un mondo dove la Cina da sola può comprarsi mezza Ue senza battere ciglio? Un’Europa così, a vostro modo di vedere, non merita di finire colonizzata?