Non è che la Cina, nonostante la vulgata comune, sta facendo un grosso favore a tutti con la svalutazione dello yuan? E, magari, non è che i principali e unici players del mercato, leggi le Banche centrali, erano consci di quanto stava per succedere ben prima che questo accadesse? Non è dietrologia d’accatto, fidatevi, è soltanto un minimo di lettura critica dei fatti e delle parole dette e scritte. Ad esempio dalla Bce, la quale teme il mix Cina e rialzo dei tassi Usa, non più la Grecia. «Gli sviluppi finanziari in Cina potrebbero avere un impatto negativo maggiore delle attese dato l’importante ruolo del Paese nel commercio mondiale», si legge nelle minute rese note ieri della riunione di luglio della Banca centrale europea, prima quindi dell’inizio delle svalutazioni dello yuan che ieri è proseguita. La Banca centrale cinese, per il terzo giorno consecutivo, ha infatti svalutato ulteriormente la sua valuta nei confronti del dollaro dell’1,1% rispetto al tasso ufficiale del giorno prima, dopo aver deprezzato la divisa nazionale contro il biglietto verde dell’1,6% mercoledì e dell’1,9% martedì. 

Di fatto e in totale controtendenza con la versione ufficiale con le dichiarazioni della Banca del Popolo, sembrerebbe quindi una svalutazione competitiva, ma ci sono delle criticità. Primo, la svalutazione di ieri è stata a una velocità più bassa dei due giorni precedenti e siccome lo yuan non fluttua sul mercato possiamo aspettarci giornate in cui rimarrà stabile e altre in cui verrà nuovamente fatto scendere. Insomma, una scommessa. Secondo, se davvero è svalutazione competitiva, allora il cammino sarà lungo e doloroso, visto che alla fine il conto dovrà essere come minimo di un -10/15% (più probabile un -20%, visto che il Giappone per ottenere pochi mesi di sollievo si è caricato un -35%) dalla partenza, altrimenti non si capisce bene a cosa possa essere servito, se non per dare un “segnale” all’Occidente. Per ora siamo a un totale del 4,65% di svalutazione sul dollaro, un niente assoluto se lo scopo è quello di risollevare l’export. Ma non è quello lo scopo, fidatevi. 

Ma torniamo un attimo alla Bce. A detta della quale per la zona euro resta il rischio di una crescita economica più debole delle attese anche alla luce di alcuni dati macro come la deludente produzione industriale in primavera. Inoltre, avverte l’Istituto centrale europeo, il rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti potrebbe avere potenziali ricadute: «A questo rischio potrebbero sommarsi gli effetti indiretti derivanti dal rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti sulla crescita delle economie dei mercati emergenti», si legge ancora dalle minute dove, invece, la Bce ha espresso pochi timori per la Grecia, sostenendo che i rischi derivanti dai negoziati in corso con i creditori internazionali sono «complessivamente contenuti» e che il terzo piano di salvataggio, se venisse pienamente concordato, rafforzerebbe la fiducia in tutta la zona euro. 

Cosa vi dicevo qualche settimana fa, quando sembrava alle porte il Grexit? La Grecia non conta nulla, è solo un esperimento politico di laboratorio per testare la tenuta di Spagna e Portogallo al potenziale arrivo al potere di forze politiche populiste alla Syriza, ovvero gli agenti provocatori sotto copertura del grande capitale e delle Banche centrali. Certo, la Bce fa il suo compitino quando avvisa che «eventuali battute d’arresto in tali negoziati potrebbero ancora negativamente impattare sulla fiducia» e che al contempo non bisogna sottovalutare i potenziali rischi di contagio in scenari particolarmente avversi, ma nel complesso, quindi, per l’Eurotower i rischi sull’outlook economico della zona euro restano orientati al ribasso. 

Ma ecco il punto fondamentale, quello che ci lega direttamente alla mossa cinese. L’outlook sulle esportazioni nette, nonostante i benefici dei più bassi prezzi dell’energia e del miglioramento della competitività sul prezzo, «è rimasto soggetto a rischi al ribasso legati al possibile rimbalzo delle quotazioni dell’energia, agli sviluppi sul mercato valutario e alla crescita del commercio globale inferiore alle attese». Insomma, nonostante il Qe che ha indebolito l’euro, l’eurozona non esporta più, chi glielo dice ai tedeschi? Per la Bce è quindi necessario monitorare attentamente la situazione sui mercati finanziari, con particolare attenzione alle implicazioni per la stabilità dei prezzi, ed essere «pronti a rispondere a un cambiamento nell’outlook di medio termine per il livello dei prezzi». Le aspettative di inflazione non sono cambiate significativamente ed è «ancora troppo presto per considerarle fermamente ancorate», conclude l’Eurotower. 

Bene, torniamo alla Cina. Basta guardare come a Hong Kong lo yuan venga scambiato a livelli ancora più bassi per capire che il mercato stia già prezzando una nuova svalutazione, sia questione di giorni o settimane poco cambia. Il problema è un altro: chi sarà il prossimo a reagire alla mossa cinese, svalutando? Ve lo dico subito, anzi ve lo faccio dire dal premier del Paese in questione, ovvero Shinzo Abe: «Se le mossa cinese di svalutare lo yuan dovesse impattare troppo sulla domanda estera del Giappone, allora la Bank of Japan potrebbe stimolare ulteriormente la politica monetaria». Ovvero, più Qe per tutti, sia in volume di intervento (magari comprando direttamente azioni per non far collassare l’indice Nikkei) che in durata! Una vera pacchia! E già, perché nonostante le fanfaronate di keynesiani e Sole24Ore, l’Abenomics si è rivelata un fallimento totale, basti guardare le dinamiche salariali, in discesa netta ormai da tre anni. 

E, guarda caso, immediatamente, l’adviser di Shinzo Abe, il prode samurai Hamada, fa notare «che la mossa valutaria della Cina tende a far apprezzare lo yen, ma il Giappone può operare un offset a questa svalutazione con maggiore stimolo monetario in caso l’export venga colpito troppo». È solo l’ennesima partita di giro tra Banche centrali, la quale avviene però in un periodo di enorme instabilità e indebitamento netto a livello globale, quindi con rischi collaterali non da poco per i Paesi emergenti, ad esempio. Ma cosa volete che sia un po’ di miseria in più in Indonesia o qualche centinaio di miliardi buttati nell’esplosione dei carry trade globali di fronte alla prospettiva ormai certa di una nuova, devastante recessione per l’intero pianeta, visto che operando in questo modo la Cina esporterà deflazione negli Usa, dove già oggi i dati macro urlano e il tracciatore in tempo reale del Pil della Fed di Atalanta parla di una crescita solo dell’1% nel terzo trimestre, sintomo che sta svanendo il doping delle scorte di magazzino record e quindi andiamo incontro a un inverno da recessione conclamata, altro che ripresa obamiana! 

Così facendo, la Cina garantisce alla Fed un ritardo almeno fino al 2016 del rialzo dei tassi di interesse e il fallout di una svalutazione su scala globale potrebbe spalancare le porte a nuovo stimolo, come già ha annunciato il Giappone: ovvero, ecco il Qe4 che eviterà una riproposizione in dimensione enormemente maggiore del 2008. Insomma, se la Cina riesce nel suo intento di svalutare, allora lo farà anche Tokyo e subito dopo la Corea del Sud e poi… E poi, chi? A vostro modo di vedere, in un regime simile, a chi esportano i tedeschi, visto che per mantenere alto il surplus comprimono da anni la domanda interna? 

Guarda caso, proprio mercoledì, mentre la Cina dava vita alla seconda svalutazione, l’indice Zew relativo al sentiment in Germania nel mese di agosto è crollato a 25 punti dai 27,9 di luglio, mettendo così a segno il quarto cedimento consecutivo dopo il positivo trend osservato in autunno. Il dato, elaborato dall’Istituto di ricerca tedesco ZEW Institute, disattende completamente le stime degli analisti che erano per un miglioramento a quota 32 punti: «La locomotiva tedesca continua a viaggiare senza problemi. Tuttavia l’attuale situazione geopolitica e la congiuntura economica globale rendono improbabile un forte miglioramento della Germania nel medio termine», ha commentato senza timore di vergogna il presidente dello ZEW Institute, Clemens Fuest. Peccato che in contemporanea venisse diffuso un altro dato, quello sulla produzione industriale nell’eurozona, calata oltre le attese. 

Il dato, rilasciato da Eurostat, ha registrato un calo dello 0,4% a giugno, su base mensile, contro un consenso che vedeva un calo dello 0,1%. Su base annuale, però, il dato ha mostrato un aumento dell’1,2%. Nei Paesi Ue, invece, la flessione della produzione industriale è stata dello 0,2% su base mensile, con un aumento su base annua dell’1,7%. È da ricordare che la produzione industriale dell’Eurozona aveva già registrato un calo dello 0,2% a maggio, mentre quella dell’Ue dello 0,1%. In Italia la produzione industriale ha registrato a giugno un calo dell’1,1% rispetto a maggio e una flessione dello 0,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ovvero, realtà contro narrativa, visto che i dati della produzione industriale non riflettono l’ottimismo che i Pmi manifatturieri hanno mostrato di recente e questo pone delle domande sul recupero manifatturiero quest’anno, che potrebbe sottoperformare rispetto alle stime precedenti. 

Insomma, nonostante il Qe l’Europa è a pezzi a livello macro e di economia reale. Volete la riprova di quanto vi sto dicendo? Pronti, con una domanda: chi è stato fino a oggi il più strenuo avversario di un aumento dei tassi della Fed? Il Fmi, il quale guarda caso, in quasi perfetta solitudine, plaude alla mossa di Pechino perché «una maggiore flessibilità nei tassi – che prima erano ancorati al dollaro – consentirà a Pechino una rapida integrazione nei mercati finanziari globali». Il giochino è fin troppo semplice: le Banche centrali hanno visto avvicinarsi il redde rationem e siccome i vari programmi di stimolo non sono serviti assolutamente a nulla, se non a gonfiare i corsi azionari a beneficio dei soliti noti (andate a vedere i dati sui buybacks di luglio, a livelli record, mentre le spese per investimenti fissi delle medesime aziende, il CapEx, è crollato), serviva il solito capro espiatore per calciare ancora un po’ in avanti la lattina, stampare per far contente banche e corporations e sperare che qualcuno, non si sa chi, magicamente risolva la situazione. 

Andrebbero processati tutti per alto tradimento, dal primo all’ultimo banchiere centrale.