La storia, ha detto Barack Obama, è dalla sua parte sull’Iran. Mercoledì scorso il Presidente americano ha difeso strenuamente l’accordo con Teheran sul nucleare dal palco della American University di Washington, dove ha chiesto la sua approvazione a un Congresso e un’opinione pubblica recalcitranti: «La scelta che abbiamo davanti è alla fine tra la diplomazia e una qualche forma di guerra. Forse non oggi, ma presto». Per Obama «l’accordo con l’Iran fa parte di questa tradizione. Non risolve tutti i problemi con Teheran, ma raggiunge un obiettivo essenziale per la sicurezza». E ha attaccato i critici: «Sono spesso gli stessi che erano a favore della guerra in Iraq. Ma i costi di quella guerra sono stati sottovalutati, il popolo americano ingannato. E ancora oggi viviamo con le conseguenze dell’invasione dell’Iraq». Il presidente ha aggiunto che «tutti concordano sulla minaccia di un Iran armato di una bomba atomica. Un accordo negoziato è però la soluzione più efficace e verificabile. I rigorosi sistemi di controllo e ispezione impediscono in modo permanente a Teheran di acquisire arsenali atomici. Se cercassero di ingannarci lo scopriremmo». 

Certo, non dovendo cercare consenso per una rielezione – nella fattispecie, presso la potente lobby ebraica Usa – Barack Obama può giocare la carta dello statista illuminato ma dietro questa scelta c’è dell’altro, come al solito. Per l’esattezza, 185 miliardi di ragioni. È questo infatti l’ammontare, in dollari, degli investimenti in gas e petrolio su cui gli Usa hanno messo gli occhi in Iran, su stessa ammissione del vice-ministro per il petrolio e gli affari esteri, Hossein Zamaninia, il quale la scorsa settimana ha confermato che il governo del suo Paese ha già identificato 50 progetti legati agli idrocarburi per cui verranno indette gare d’appalto nei prossimi cinque anni. La chicca di questi 50 progetti è l’Ipc o “Integrated Petroleum Contract”, una nuova struttura contrattuale per investitori stranieri che rispetto ai vecchi contratti a breve termine avrà durata tra i 20 e 25 anni, ma lo stesso Zamaninia ha detto che tutti i dettagli al riguardo verranno resi noti entro i prossimi tre mesi. 

Insomma, miliardi di dollari che valgono bene un accordo con il diavolo e che potrebbero addolcire le posizioni di molti lobbysti al Congresso. O forse no, perché come per magia in contemporanea con il discorso di Obama, ecco che salta fuori la prima rogna iraniana: il capo della Iaea, Yukiya Amano, ha infatti dichiarato al Wall Street Journal che l’Iran si è rifiutato di permettere agli ispettori dell’Onu di interrogare scienziati e ufficiali dell’esercito riguardo al presunto programma nucleare segreto del Paese per la costruzione di armamenti. Che sorpresa, chi lo avrebbe mai detto! Caso strano, poi, proprio mentre Obama parlava, il buon Amano era a Capitol Hill per rassicurare i legislatori riguardo la capacità dell’Iaea di ispezionare i siti nucleari iraniani e chiarire una volta per tutte l’argomento riguardo le armi. Risultato? «Devo dire che molti membri sono rimasti con enormi preoccupazioni riguardo al regime delle ispezioni così com’è, non è stata una riunione rassicurante», ha dichiarato il capo della Commissione per le relazioni estere del Senato Usa, Bob Corker. 

Dubito che a Tel Aviv abbiano pianto per queste parole. Ma attenti, perché in Medio Oriente è in atto un qualcosa di molto, molto pericoloso, nonostante i grandi media fingano di non vederlo o raccontino altro. 

Se infatti l’Iran prova a ripartire, il basso prezzo del petrolio e i costi della guerra contro l’Isis, stanno spingendo in crisi finanziaria conclamata l’Iraq, dove l’export di greggio pesa per il 50% del Pil e per il 90% delle entrate statali. Anche se il Paese sta pompando al massimo, circa 4 milioni di barili al giorno, il prezzo in area 50 dollari sta schiantando non solo l’industria petrolifera ma anche il budget governativo: la valutazione attuale è la metà di quella necessaria per raggiungere il break-even fiscale. E se da un lato il governo sta tagliando i nuovi investimenti a causa delle mancate entrate, i grandi investitori come Eni, Lukoil e Dutch Shell stanno anche tagliando e guardando proprio all’Iran come nuova e più sicura area di investimento. Stando a dati del Fmi, il Pil iracheno si è contratto del 2,7% nel 2014 e il tasso di disoccupazione è superiore al 25%, mentre la Banca mondiale ha classificato l’Iraq al 156mo posto su 189 totali nella classifica come Paese peggiore per fare business. Nonostante Baghdad stia discutendo proprio con il Fmi per un prestito da 800 milioni di dollari, se le dinamiche petrolifere sui prezzi non cambieranno – e non si vedono dinamo per trend rialzisti, anzi – questo non sarà sufficiente, creando le condizioni per malcontento e instabilità sociale, terreno fertile per l’Isis e la sua folle ideologia. E il petrolio ha parecchio a che fare anche con la svolta turca, passata di fatto da fiancheggiatore dell’Isis in chiave anti-curda a partner privilegiato degli Usa nella campagna aeree contro i tagliagole partita questa settimana. 

Già, Ankara – membro Nato – ha infatti aperto le proprie basi a velivoli Usa e della coalizione, dopo aver raggiunto un accordo con Washington per garantire copertura aerea al nuovo gruppo anti-Daesh addestrato dagli statunitensi lungo un territorio di circa 80 chilometri del suo confine con la Siria. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu ha confermato: «Visti i miglioramenti compiuti all’interno dell’accordo con Washington, abbiamo deciso di aprire le nostre basi, soprattutto Incirlik, la più grande del Paese vicino alla città meridionale di Adana». Ma il buon ministro, mancando di diplomazia e sangue freddo, ha detto anche altro, forse volendo inviare un messaggio nella bottiglia agli Usa: «Ci cono altre nazioni all’interno della coalizione interessate a unirsi a noi in questa campagna, come la Gran Bretagna e la Francia ma anche paesi della regione come Arabia Saudita, Qatar e Giordania che prenderanno parte alle operazioni». Insomma, in parole povere una coalizione con Usa, Turchia, Arabia Saudita, Qatar e Giordania starebbe per invadere di fatto la Siria nel nome della battaglia senza quartiere contro l’Isis. 

E Damasco cosa dice? «Abbiamo detto e ripetiamo che supportiamo ogni sforzo per combattere l’Isis, ma in coordinamento e dopo consultazione con il governo siriano, altrimenti ogni atto sarà ritenuto una violazione della nostra sovranità», ha dichiarato mercoledì il ministro degli Esteri, Walid al-Moualem. E al netto della minaccia di Vladimir Putin di inviare truppe in sostegno di Bashar al-Assad, se questo non avverrà le condizioni ormai provate dell’esercito siriano sembrano far propendere per un successo di questa violazione della sovranità siriana. 

Volete sapere perché questa variopinta coalizione, di colpo, si è unita come una falange di opliti nella lotta contro l’Isis? Ve lo spiega la prima cartina a fondo pagina, senza che io debba aggiungere altro, se non una parola: petrolio. E guarda caso, se l’Arabia Saudita – la quale sta contemporaneamente combattendo una guerra proxy in Yemen – avesse avuto bisogno di una scusa per invadere la Siria, nemico storico, proprio ieri pomeriggio un attentato kamikaze presso la mosche di Abha potrebbe avergliene fornita una splendida su un piatto d’argento. Tanto più che quella moschea, ancora una volta guarda caso, era parte del quartier generale dell’unità di sicurezza statale chiamata “Special Emergency Force” e dei 13 morti, 10 erano proprio membri della forza speciale. 

Ormai le false flag te le fanno in faccia, quasi dicendotelo, sono senza più vergogna talmente tanta è la disperazione per la sete di petrolio e per il moltiplicatore keynesiano del Pil per antonomasia, ovvero quella guerra che potrebbe aiutare la crescita ed evitare – o, almeno, posticipare – la nuova recessione globale e il tonfo dei mercati (segnatevi la data del 7 ottobre prossimo, al riguardo). 

E tanto per darvi il tocco finale e la dimostrazione plastica di come quanto stia accadendo sia funzionale a interessi diversi dalla lotta al Califfato, ecco che l’ultima cartina ci mostra plasticamente quali siano le reali intenzioni della Turchia, spalleggiata negli Usa, all’interno di questa operazione militare. Ovvero, utilizzare la scusa della guerra all’Isis per chiudere una volta per tutte i conti con i curdi dello Ypg, gli unici che hanno combattuto veramente e scacchiato da Kobane l’Isis! La delirante “Islamic State free zone”, infatti, altro non è che un tentativo di depotenziare i guerriglieri curdi, garantendo ad Ankara un’area strategica del Paese non solo libera da Isis, ma anche dall’etnia curda, visto che stranamente in quella parte di Paese sulla sponda occidentale dell’Eufrate la popolazione è in maggioranza turcofona o araba! 

Durante le guerre balcaniche, basti ricordare l’operazione “Tempesta” in Krajina contro la minoranza serba che vide insieme caccia Usa ed esercito di Zagabria, la missione funzionò a meraviglia. Ed essendo chi la compie coperto dal sacro mandato umanitario della lotta contro l’Isis nessuno parlerà di pulizia etnica. Il mondo sta letteralmente impazzendo, perché si sta scherzando con il fuoco in un’area già di per sé esplosiva. Ecco cos’è la geofinanza al suo meglio. O peggio, come preferite.