Quale potrebbe essere l’atto dirimente di politica economica che un’amministrazione Trump potrebbe compiere per diventare davvero protagonista e non mero passacarte delle scelte della Fed? Fare la guerra alla Fed stessa? Troppo rischioso in un mondo come quello attuale, ma i rapporti tra Donald Trump e Janet Yellen sono gelidi da sempre, tanto che nell’ultima parte della campagna elettorale, quando i temi economici hanno scalzato quelli sociali e di politica estera, il neo-eletto presidente attaccò frontalmente la politica della Federal Reserve, accusandola di creare bolle sugli assets e arrivando a ventilare un licenziamento della Yellen stessa in caso di suo approdo alla Casa Bianca. Caccerà davvero il numero uno della Fed?
Partiamo da più indietro, ovvero dalle scelte di politica economica che Trump ha annunciato in campagna elettorale. Oltre la reazione iniziale e di pancia, con un Congresso a colori repubblicani, c’è un’alta probabilità che sia effettivamente messa in atto una politica fiscale espansiva in un momento in cui l’occupazione lambisce la piena capacità, fattore che unito a una linea protezionistica come quella più volte sbandierata da Trump, potrebbe dare un forte impulso inflattivo interno, quindi rendere meno stringente eventuali opzioni di intervento diretto della Fed e operando un offset sulla costante esportazione di deflazione della Cina.
Ma quale sarebbe la reazione della Federal Reserve di fronte a un rialzo dei prezzi più aggressivo? Scontata, ovvero l’Istituto di Washington dovrebbe accelerare la stretta monetaria, anche se non è chiaro quando questo processo prenderà il via. Infatti, se le condizioni generali dovessero rimanere difficili, un’azione da parte della Fed a dicembre potrebbe essere rimandata, ma se lo scenario dovesse stravolgersi velocemente, la Banca centrale potrebbe proseguire sulla propria strada fino a fine anno per poi adottare un approccio più attendista. Insomma, la Fed potrebbe azzardare un errore volontario a dicembre, per un semplice motivo: mettere in atto un enorme stress test, i cui risultati negativi verrebbero quasi certamente scaricati sull’incertezza ingenerata dal quadro macro globale e dalla politica che la nuova amministrazione intenderà perseguire.
E ora veniamo al punto caldo, i rapporti Trump-Yellen. La reggenza dell’attuale governatore della Fed terminerà nel 2018, anno in cui sarà onere di Trump nominare il nuovo presidente e vice-presidente dell’Istituto: Trump potrebbe compiere l’azzardo di sollevarla dall’incarico prima? Per Quentin Fitzsimmons, gestore obbligazionario globale di T. Rowe Price, «un atto simile potrebbe mettere in discussione la credibilità della Federal Reserve stessa e questa è una questione di rilevanza internazionale, non solo nazionale». Ma per Edward Mills di Fbe, «il futuro della presidenza di Janet Yellen e della sua politica espansiva sono in dubbio» e anche lo strategist di Deutsche Bank, George Saravelos, ritiene che «i mercati guarderanno con apprensione alla conferma del fatto che la Yellen non si dimetta o non venga fatta fuori. Trump è stato particolarmente critico verso la sua gestione, quindi una continuità politica sarà particolarmente importante».
Chi invece non ha dubbi è il capo economista di JP Morgan, Michael Feroli, il quale in una nota del 7 novembre intitolata “If Trump wins would Yellen leave?”, ha risposto alla domanda seccamente e con una sola parola: no. Ecco la sua tesi: «Il mandato della Yellen scade nel febbraio del 2018 ed è estendibile fino al gennaio del 2024: il Federal Reserve Act permette al presidente di rimuovere il governatore solo per “giusta causa” e storicamente questa prerogativa di autorità non è mai stata abusata dai presidenti. Per esempio, Nixon non cercò di far fuori William McChesney Martin nel periodo 1968-1970, anche se credeva che proprio la sua politica monetaria gli fosse costata la sconfitta contro John Fitzgerald Kennedy alle presidenziali del 1960». Inoltre, non esiste alcun precedente nemmeno di dimissioni del governatore della Fed per dissapori politici, ma, anzi, ci sono tantissimi precedenti di numeri uno della Banca centrale nominati da un presidente di un partito che hanno continuato il loro mandato sotto la presidenza di un altro colore politico. Dal Treasury-Fed Act del 1951, infatti, ogni governatore della Fed ha servito sotto presidenze diverse, a parte proprio Janet Yellen (finora) e allo sfortunato G. William Miller. Inoltre, proprio per l’orientamento filo-democratico della Yellen, la scelta di dimettersi paradossalmente offrirebbe un potere e un’influenza enorme a Trump in fatto di scelte di politica monetaria e regolatoria, quindi è più facile una convivenza ai ferri corti che l’abbandono del governatore.
Diversa sarà la questione quando a febbraio 2018 scadrà il mandato, perché storicamente tutti i numeri uno della Federal Reserve, tranne Marriner Eccles, si sono dimessi dopo il primo mandato, nonostante sia legale la sua prosecuzione. C’è però una qualcosa da tenere in conto: per Wall Street, la Yellen è salva. Il problema è che gli esperti di finanza che vedono impossibile uno scontro frontale fra Trump e la Yellen che termini con un addio anticipo sono gli stessi che non davano nemmeno una possibilità di vittoria al tycoon alle presidenziali, mostrando un’incapacità totale da profiler politico.
Occorrerà attendere le prime uscite del neo-eletto presidente su temi strettamente economici per capire quale sarà l’andazzo tra Pennsylvania Avenue e Constitution Avenue. Anche perché Donald Trump cominciò a mettere nel mirino la Yellen dallo scorso ottobre, pochi giorni dopo una sua dichiarazione relativa ai programmi di QE e alla loro composizione. Parlando in una video-conferenza con i banchieri di Kansas City, la numero uno della Fed disse che «la Fed potrebbe essere in grado di aiutare l’economia Usa in una prossima fase di crisi attraverso l’acquisto di bond corporate e titoli azionari». La Yellen disse che l’argomento non era di stringente attualità e sottolineò che attualmente all’istituto da lei guidato era vietato per legge l’acquisto di assets corporate, ma ribadì che «l’attuale kit di strumenti di intervento potrebbe essere insufficiente in una crisi ribassista, se si raggiungesse il limite in termini di acquisto di safe assets, come ad esempio i T-bond a più lungo termine. Potrebbe essere utile essere in grado di intervenire in assets dove il prezzo ha un collegamento più diretto con le decisioni di spesa».
Come ho già scritto nei giorni scorsi, entro l’autunno gli Usa entreranno di nuovo in recessione ma una crisi borsistica o sui rendimenti obbligazionari potrebbe scatenarsi prima, soprattutto se venisse a mancare la certezza da parte del mercato che le Banche centrali continueranno il loro ruolo di infermiere. Se Trump dovesse dire qualcosa di direttamente legato al futuro della Fed o qualcosa di mal interpretato al riguardo, cosa accadrebbe sui mercati, la cui reazione di ieri ha scongiurato l’effetto Brexit che quasi tutti prevedevano?
Non so voi, ma io un Trump che entrasse a gamba tesa sulla Fed non lo vedrei affatto male, perché l’unica domanda che dobbiamo farci oggi è la seguente, quando parliamo di politica monetaria: l’andazzo attuale può andare avanti per sempre? Ovviamente no, ma nei comportamenti dei mercati cresce di giorno in giorno la convinzione che le elites, in questo caso monetarie, abbiano trasformato il sistema capitalistico in un macchina del moto perpetuo attraverso l’acquisto di tutti gli assets finanziari da parte delle Banche centrali, veri motori immobili. In questo modo si possono fissare e determinare i prezzi di pressoché tutto quasi in eterno, eliminando il concetto di business cycle(quello della Scuola austriaca di cui i keynesiani negano persino l’esistenza) e spingendo il mondo in quella che viene dipinta come un’eta dell’oro di crescita e prosperità a guida governativa, cioè statale.
Siamo al classico pensiero da “picco del ciclo” e più questa convinzione viene condivisa e presa per reale, più il sistema si avvicina al collasso. Nel 1999 un sacco di gente pensava che la bolla tecnologica sarebbe stata permanente perché il governo non avrebbe voluto rinunciare alle tasse lucrose sul capital gain che gli garantiva: non è andata così. Nel 2006 i prezzi delle case erano visti da tutti come in crescita perenne e costante perché il governo considerava la proprietà immobiliare come un concetto centrale del “sogno americano”, convinzione che portò a tassi ultra-bassi e regolamentazione bancaria sui mutui che vedeva concessioni a pioggia: arrivarono i subprime e crollò tutto. Allo stesso modo, oggi, l’idea che titoli azionari e bond continueranno a vedere crescere le loro valutazioni, solo perché il governo continuerà a comprarli attraverso le Banche centrali, appare una pericolosa fallacia.
Forse un atto di distruzione creativa potrebbe farci del male nel medio termine, ma curare la malattia più grave che il sistema ha in incubazione. E solo uno come Donald Trump può essere così pazzo da compiere un azzardo simile. Attenti al rapporto Casa Bianca-Fed, potrebbe essere davvero la chiave di svolta per mercati ed economia. A livello globale.