State sereni, in un modo o nell’altro il referendum costituzionale verrà rimandato. La conferma ci è arrivata ieri e non da Roma ma da Londra: il volere del popolo non conta nulla se non collima con quello delle lobbies, quindi un modo per bloccare cambiamenti indesiderati si troverà sempre. L’Alta corte inglese ha infatti reso noto che la Brexit deve passare attraverso il voto del Parlamento prima di avviare il conto alla rovescia di due anni e che il primo ministro, Theresa May, non può cercare scorciatoie per far uscire in fretta Londra dall’Unione europea. «Se la comunicazione viene data ai sensi dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, inevitabilmente modificherà il diritto interno», ha spiegato il giudice John Thomas ieri mattina, riferendosi all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Quindi, una bella battuta d’arresto alla volontà di avviare unilateralmente il processo di uscita nel marzo del prossimo anno: la chiamano democrazia. Casualmente, da qualche giorno la sterlina era inspiegabilmente in trend rialzista e ieri, dopo la decisione dell’Alta Corte, è letteralmente esplosa: qualcuno era long perché sapeva e ha fatto un sacco di soldi?
Partendo da questi presupposti, pensate che tra una decina di giorni il Tribunale di Milano non rinvierà alla Corte costituzionale la richiesta di spacchettamento del quesito referendario invocata da Valerio Onida, creando un bell’ingorgo di attribuzioni a quindici giorni dal voto? E tutta una pantomima, ve lo dico da mesi. L’altra sera la Fed, per l’ennesima volta, ha mantenuto i tassi invariati per non far crollare tutto, ma ha reso noto che il mese prossimo sarà quello buono per un ritocco all’insù di un quarto di punto: lo dice da un anno. Sono in trappola, chiusi nell’angolo, ma non vogliono mollare la presa. E che dire della Bce, la quale ieri nel suo bollettino mensile ha detto chiaramente alla Germania che il Quantitative easing non si tocca, almeno fino alla scadenza prefissata. Di più, nel documento viene ribadito che l’Istituto è pronto a mettere in atto tutte le misure necessarie, non escludendo un allungamento del programma di acquisto oltre marzo 2017. Guarda caso, la data in cui la May avrebbe dovuto invocare l’articolo 50 per il Brexit: tu guarda le coincidenze.
Come vi ho già detto, una tale opzione di prolungamento, di fatto già prezzata dai mercati, sarà oggetto di discussione l’8 dicembre, data del prossimo direttorio operativo che farà le sue dovute considerazioni anche sulla base delle nuove proiezioni macroeconomiche fino al 2019. Guarda caso, quattro giorni dopo il referendum italiano e il voto per il ballottaggio alle presidenziali austriache: difficile che accadano sorprese, fidatevi. Ma il Qe funziona, almeno? No e ve l’ho detto mille volte. Stando all’Eurotower, lo stato di salute dell’area euro è in fase di recupero a un ritmo moderato ma costante, in linea con le aspettative, tuttavia i rischi per le prospettive di crescita permangono e riguardano principalmente il contesto esterno.
Nello specifico, ciò che desta preoccupazione, è la mancanza di «segnali convincenti di una tendenza al rialzo dell’inflazione di fondo», con l’indice dei prezzi al consumo che, sui dodici mesi, è salito allo 0,4% a settembre, dallo 0,2% di agosto, riflettendo il trend dei beni energetici. Dovremmo essere a circa l’1,1%, stando ai calcoli della Bce. A ogni modo, nel bollettino è specificato che «in prospettiva, il consiglio mantiene l’impegno a preservare il grado molto elevato di accomodamento monetario che è necessario per assicurare una convergenza durevole del profilo di inflazione verso tassi inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine». Azione della Banca centrale che ha dato un deciso impulso all’economia di eurolandia, «assicurando condizioni di finanziamento molto favorevoli per imprese e famiglie».
Dall’indagine sul credito bancario nell’area euro per il terzo trimestre di quest’anno, infatti, è emerso che il programma di acquisto di attività della Bce e il tasso negativo sui depositi presso la Banca centrale «hanno concorso a rendere più favorevoli termini e condizioni di credito». Al tempo stesso, si legge sempre nel bollettino, «le banche hanno continuato a segnalare un miglioramento della domanda di prestiti a fronte di ulteriori riduzioni dei tassi applicati, che ad agosto hanno toccato minimi storici. La ripresa della crescita dei prestiti è quindi proseguita a un ritmo moderato, pur avendo perso slancio durante l’estate. A settembre le emissioni nette di titoli di debito delle società non finanziarie hanno evidenziato un marcato rafforzamento rispetto al finanziamento basato sul mercato».
Voi, per caso, ve ne siete accorti? Nemmeno io. E nemmeno il Consiglio degli esperti di economia tedeschi, il quale soltanto mercoledì, con timing perfetto rispetto alla pubblicazione del bollettino di ieri, aveva attaccato frontalmente la Bce , poiché «la sua azione rappresenta una minaccia alla stabilità finanziaria», mentre Mario Draghi sarebbe reo di «nascondere attraverso la sua politica monetaria i problemi strutturali dell’area euro». E, guarda caso, mentre il titolo è tornato a schiantarsi sui minimi al DAX, a fare eco agli esperti tedeschi c’era anche il capo degli economisti di Deutsche Bank , David Folkerts-Landau, il quale ha sottolineato che la politica della Bce crea svantaggi più che vantaggi per l’Eurozona: «Di fatto, dal 2012, Eurolandia non ha quasi registrato una crescita, mentre ha segnato il peggiore sviluppo del mercato del lavoro rispetto ad altre aree industrializzate, livelli di disoccupazione a due cifre, un tasso di disoccupazione giovanile sopra il 20% e quote di indebitamento non sostenibili oltre ad aver segnato tassi di inflazione di gran lunga dietro l’obiettivo della Banca».
Parole tutt’altro che incoraggianti anche per il programma di Quantitative easing della Bce, acquisti di titoli che «hanno ridotto i rischi associati a questi ultimi per i Paesi periferici, ma ha anche quasi azzerato le prospettive delle riforme, fattore al quale si aggiunge la perdita della funzione di indicatore dei corsi dei titoli, l’aumento dei rischi a livello di bilancio dei Paesi core, il coinvolgimento dei risparmiatori e le bolle dei prezzi dei patrimoni».
Tutto vero, ma onestà intellettuale vorrebbe che si facesse anche notare qual è la vera criticità per i tedeschi, ovvero il calo dei profitti delle loro banche proprio a causa dei tassi di interessi negativi sui depositi: c’è poco da fare, ciò che va bene per la Germania non va bene per l’eurozona e il contrario. Temo che questo sarà l’unico scontro reale cui andremo incontro tra tante false minacce che i mercati paventano ogni giorno. Le richieste avanzate dal Consiglio degli esperti tedeschi, infatti, sono diametralmente opposte a quanto auspicano i mercati. Si chiede una riduzione della mole del programma e l’avvio di un’azione di tapering, per una chiusura antecedente la scadenza prefissata di marzo 2017, operazione che va contro le scommesse dei trader che da mesi puntano sul fatto che i membri dell’Eurotower optino per un prolungamento del Qe.
Davvero i tedeschi sono pronti ad affrontare il rischio di un’implosione dell’eurozona dovuta alla fine anticipata del Quantitative easing o dal suo non prolungamento? Io a questo punto non lo escluderei, tanto più che se la Gran Bretagna decidesse di restare nell’Ue, calpestando la volontà popolare, Berlino non perderebbe il partner con cui ha un enorme interscambio e potrebbe decidere di lasciare al loro destino i Paesi del sud-Europa, avanzando magari un progetto di federazione con doppia moneta, un euro normale scambiato sui mercati di capitale e un altro legato a peg fisso, stile vecchio franco svizzero, per i tanto vituperati Piigs. I quali, così facendo, però, non potrebbero svalutare e si troverebbero in un inferno competitivo: a quel punto, la scissione sarebbe inevitabile.
E temo che a Berlino abbiano già testato dei contingency plans per questa eventualità, mentre noi dibattiamo di bicameralismo paritario. Io sarò anche dietrologo, ma non vi sembra che comincino a diventare un po’ troppe le coincidenze?