Alla fine, il primo rialzo dei tassi da parte della Fed è arrivato. Un timido quarto di punto, ma sufficiente a schiantare i mercati asiatici e a creare qualche preoccupazione sulla tenuta del mercato azionario Usa, della politica espansiva promessa da Trump e della bolla obbligazionaria sul Bund tedesco. Il perché è presto detto: la Banca centrale Usa ha spiazzato tutti con l’annuncio di ben 3 (e non 2) rialzi nel corso del 2017, ovvero aspettative inflazionistiche decisamente in subbuglio. Detto fatto, l’Asia si è svegliata con le valute in enorme movimento e le Borse in tonfo, soprattutto in Cina, dove alle ore 7:30 italiane Hong Kong cedeva quasi il 2% e Shanghai l’1,05%. Lo yen si è portato a 117,45 sul dollaro da 115 di mercoledì mattina e Tokyo ha chiuso leggermente sopra la parità (+0,10%), nonostante l’indebolimento della valuta locale. L’euro, che il 5 dicembre scorso aveva toccato quota 1,0764 sul biglietto verde, ieri scambiava in ribasso a 1,04, il minimo da 13 anni. Insomma, c’è da stare parecchio attenti all’azzardo Usa.
Il rialzo multiplo del costo del denaro negli Stati Uniti, infatti, è già di per sé una cattiva notizia per la Cina e per il Far East in generale, perché fa defluire gli investimenti all’estero, verso gli Stati Uniti, dove il denaro viene ora remunerato meglio. L’aumento dei tassi Usa è poi un problema enorme per i gruppi asiatici indebitati in dollari e in particolar modo per l’area di Hong Kong, perché il dollaro locale è agganciato a quello americano. Ieri l’indice Hang Seng China Enterprises è arrivato a scendere del 2,7% e le vendite si sono concentrate, stando a Marketwatch, sugli sviluppatori di Hong Kong, affondati proprio dalle preoccupazione per i costi più elevati del debito. Lo yuan è scivolato dello 0,4% rispetto al dollaro, mentre il rendimento a 10 anni dei titoli sovrani della Cina è balzato a un record di 22 punti base. E a spaventare davvero è proprio il mercato obbligazionario cinese, visto che è letteralmente collassato da una crescita in bolla negli ultimi mesi: con lo yuan indebolito e le fughe di captali che accelerano, i futures sui bond cinesi sono crollati overnight, bruciando in una settimana i guadagni degli ultimi 18 mesi. Insomma, il rally dei bond iniziato nel novembre del 2014 grazie al rallentamento dell’economia e all’inizio di un conseguente ciclo di allentamento monetario, ora è finito: la pressione sulla liquidità si fa sentire sui mercati repo a breve termine, lo yuan off-shore è crollato di cinque handles subito dopo la notizia dei rialzi della Fed e, questione strettamente connessa, con questa dinamica del prezzo del denaro negli Usa, l’azionario giapponese necessita di uno yen stabilizzato per poter resistere.
Ma cosa nasconde la mossa della Fed? Un messaggio chiaro a Donald Trump e alla sua politica economica di investimenti da 1 triliardo di dollari, di fatto un driver di inflazione interna che giustifica, a livello teorico, quei tre rialzi nel 2017. Il presidente eletto sta facendo sul serio, almeno a parole, visto che in un tweet ieri ricordava alle aziende che intendono delocalizzare fuori dagli Stati Uniti che i loro prodotti verranno tassati del 35% all’atto di rientrare nei confini Usa per essere commercializzati. E questa minaccia di Trump viene presa molto sul serio, visto che Bloomberg ha testimoniato come molte aziende abbiano bloccato i loro piani di outsourcing in attesa di capire se alle parole seguiranno i fatti, una volta che il tycoon si sarà insediato alla Casa Bianca.
Ross Baldwin, responsabile della Tacna di San Diego, un’azienda che aiuta le ditte Usa che vogliono spostare la produzione in Messico, ha già ricevuto tre lettere di stop da altrettanti clienti, spaventati dall’elezione di Trump. Ma la Yellen ha detto anche altro nel giorno del rialzo dei tassi, un qualcosa che non deve far stare troppo tranquilli. Interpellata da un giornalista sul rischio che una bolla sul prezzo dei titoli azionari possa creare instabilità finanziaria nell’economia, la numero uno della Fed ha risposto in questo modo: «Non voglio commentare il livello dei prezzi dei titoli. Possono essere stati fatti salire dall’aspettativa rispetto alla politica fiscale, a possibili tagli nella tassazione corporate che sono stati molto discussi o ancora dalle aspettative di crescita o da una riduzione del rischio al ribasso per l’economia. Ma queste sono cose che i partecipanti del mercato stanno cercando di valutare con il possibile andamento dei tassi di interesse e io penso che tutte queste cose siano fattorizzate nelle valutazioni azionarie. Ma non voglio offrire il mio punto di vista riguardo al fatto che queste siano più o meno appropriate». Della serie, i titoli salgono per le promesse di Trump, quindi se si schiantano è colpa sua che non ha saputo far seguire i fatti alle parole e ha azzardato troppo, non della Fed che inonda il mercato di denaro gratis da anni.
Ma c’è dell’altro, perché il giornalista non ha mollato l’osso, chiedendo alla Yellen se si sentiva tranquilla con il Dow Jones alla soglia storica dei 20mila punti. Ecco la sua risposta: «Ritengo, alla luce del livello dei tassi di interesse che è molto basso, che il tasso di return sul mercato azionario rimanga all’interno di un range di normalità». Strano, perché nel maggio del 2015, la stessa Yellen disse, parlando ad un forum a Washington, che «è da sottolineare come le valutazioni del mercato equity a questo livello siano normalmente ritenute parecchio alte. Non sono poi così alte quando si comparano i returns on equities a quelli su asset rifugio come i bonds, che sono molto bassi ma ci sono dei rischi potenziali». E volete sapere qual è la comparazione delle valutazioni azionarie del maggio 2015 con quelle del dicembre 2016 sulla base dei multipli di utile per azione? Ce lo mostra plasticamente il grafico più in basso, senza bisogno che io aggiunga altro.
Il mio timore di qualche settimana fa diventa sempre più reale e pressante: sapendo che il mercato è in bolla e che quella stessa va sgonfiata in maniera ordinata per evitare un altro 2008, la Fed gioca l’azzardo del rialzo dei tassi, terrorizzando tutti con i tre rialzi annunciati per il 2017, per vedere l’effetto che fa sui mercati, avendo già scaricato la colpa di un’eventuale sell-off sull’eccessivo avventurismo in campo economico di Donald Trump attraverso le sue promesse elettorali.
Staremo a vedere. Ma c’è da vedere dell’altro, perché l’euro ai minimi da 13 anni sul dollaro non porta con sé solo note positive. Certo, ci sono molti motivi che spiegano la perdita di valore della moneta unica, tra cui la rinnovata instabilità politica dell’Ue, mercoledì giunta all’assurdo di sospendere gli aiuti alla Grecia perché dopo sette anni di lacrime e sangue il governo si è azzardato a dare un’una tantum ai pensionati più poveri, ma il nodo resta il Qe e la sua sostenibilità. Non tanto a livello di collaterale per gli acquisti, quanto per le dinamiche che ha innescato.
Ieri all’ora di pranzo il Bund tedesco, il più liquido tra i titoli di debito europei, rendeva lo 0,37% sulla scadenza dei 10 anni: certo, dopo aver vissuto tassi negativi, questo livello ci sembra alto, ma siamo alla stessa logica di gioco degli specchi delle valutazioni azionarie Usa, è una pura illusione. Quel tasso è ridicolo e frutto della più grande bolla finanziaria di sempre, una bolla da cui gli Usa stanno cercando di uscire con cautela – come ci dimostra la mossa della Yellen -, ma che in Europa è invece ancora in espansione, tanto che il differenziale fra T-Bond americani e Bund tedeschi è qualcosa come del 2,23%, quasi ai massimi di tutti i tempi.
Cosa significa? Negli anni Ottanta, quando lo spread fra Bund e T-bond sfiorò il 3,5%, i tassi erano tra il 4% e il 7%, una situazione completamente diversa da quella odierna, sicuramente meno lunare a livello di politica monetaria e costo del denaro. Qual è il rischio? Un euro troppo svalutato può portare alla conseguenza paradossale, dal punto di vista dei prezzi, di importare inflazione rispetto all’anno precedente, una dinamica che tramuta l’investimento in titoli di debito europei, soprattutto il Bund, in qualcosa di assolutamente non profittevole a questi prezzi. E se partisse una sell-off sul Bund in grado di far scoppiare la bolla obbligazionaria Ue? Pregate che non accada. In compenso, Janet Yellen stavolta ha davvero sparigliato le carte in tavola.