Attenzione a non bervi la notizia come ve l’hanno propinata i media ufficiali. Certo, è vero che dopo mesi di trattative serrate e aspre tra i protagonisti, l’altro giorno a Vienna l’Opec è riuscita a trovare un compromesso, abbracciando la proposta dell’Arabia Saudita di ridurre la produzione petrolifera a 32,5 milioni di barili al giorno (un taglio complessivo di 1,2 milioni di barili), ma non è affatto detto che le dinamiche porteranno a un vero riequilibrio. Il presidente dell’Opec, nonché ministro del petrolio del Qatar, Mohammed Bin Saleh Al-Sada, ha confermato che altri Paesi produttori non appartenenti all’Organizzazione si sono omologati alla scelta del Cartello, aderendo a una contrazione dell’offerta intorno ai 600mila barili giornalieri.
E qui, la prima inesattezza. La Russia dovrebbe infatti farsi carico del 50% di questa quota, ridimensionando l’output dei suoi siti di 300 mila unità. Peccato che nessuno si sia preso la briga di andare a sentire la conferenza stampa del ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, il quale ha spento gli entusiasmi senza troppi giri di parole. Per prima cosa, ha dichiarato che «la Russia potrebbe tagliare la produzione solo gradualmente a in base a criteri tecnici», di fatto rifiutandosi di fornire il dato reale del taglio che spetterebbe a Mosca, la quale – giova ricordare – oggi sta pompando ai livelli record dal crollo dell’Urss. Ecco le sue parole: «L’accordo raggiunto oggi rappresenta un passo importante per l’industria petrolifera globale, un qualcosa che ci aiuterà a restaurare il bilanciamento tra domanda e offerta. La Russia è pronta ad aderire a questo accordo ed è pronta a tagliare gradualmente l’output di 300mila barile al giorno nella prima metà del 2017, ma questo sarà dovuto solo a ragioni tecniche. Al momento non posso dare indicazioni riguardo al livello di taglio della produzione effettivo che la Russia è pronta a operare». Insomma, Mosca ha detto sì all’accordo, ma ovviamente, prima di tagliare anche un solo barile, vorrà vedere anche gli altri Paesi non-Opec, gli Usa dello shale in testa, fare lo stesso.
In dettaglio, all’interno dell’Opec, l’Arabia Saudita taglierà la produzione di 486mila barili al giorno scendendo dai 10,6 milioni attuali a 10,1 milioni, l’Iraq di 210 mila, gli Emirati Arabi Uniti di 139mila, il Kuwait di 131mila, il Venezuela di 95mila, l’Angola di 87mila, l’Algeria di 50mila, il Qatar di 30mila, l’Ecuador di 26mila e il Gabon di 9 mila. Libia e Nigeria sono state escluse dall’obbligo di calare l’offerta, mentre all’Iran è stato concesso di aumentare il proprio output a 3,975 milioni di barili. E quest’ultima questione va vista in prospettiva.
Certo, l’Iran post-sanzioni e sempre più stretto alleato di Mosca è avversario tosto con cui negoziare, ma il fatto che l’Arabia Saudita abbia ceduto così facilmente sulle quote mi fa pensare che a Ryad stiano scommettendo sulla priorità che la futura amministrazione Trump darà alla messa in discussione dell’accordo sul nucleare con Teheran, un qualcosa che potrebbe facilmente portare a nuove sanzioni. Quindi, evitiamo di fare la guerra all’Iran vanificando gli sforzi che hanno portato a un accordo di massima, seppur raffazzonato – come vedremo più avanti – e lasciamo che sia Washington a mettere pressione, anche per tutelare la propria produzione di shale oil, tornata a crescere dopo i default di massa dei produttori più piccoli ed esposti al sistema bancario del bacino di Bakken.
C’è poi un’altra criticità. Differente è infatti la situazione per l’Indonesia, riaccolta di recente nell’Organizzazione: il Paese ha infatti deciso di autosospendersi, in quanto diminuendo la propria quota produttiva tornerebbe a essere un importatore netto di idrocarburi. Un nuovo abbandono di Giacarta potrebbe quindi smorzare l’entusiasmo intorno all’annuncio, in quanto la riduzione concordata apparirebbe modesta nel caso in cui comprendesse già l’intera produzione indonesiana, ovvero 750 mila barili al giorno. Il mercato, però, avido di segnali “buy” e ancora euforico per il rally che la vittoria di Donald Trump ha innescato nelle equities, ha visto solo il lato positivo di quanto deciso a Vienna, anche perché si tratta del primo taglio effettuato dal 2008: dopo la notizia, il Brent ha di fatto aumentato il rialzo scambiando alle 18:45 a 51,67 dollari al barile (+9,19%), seguito dal Wti a 49,22 dollari al barile (+8,82%).
Ma qual è la vera natura di questo accordo? In occasione del vertice del 27 novembre 2014, l’Arabia Saudita, deus ex machina di fatto dell’Opec, riuscì a far prevalere la decisione di mantenere l’output invariato, nonostante il forte aumento dell’offerta globale legato al boom dello shale oil nordamericano. L’obiettivo di Ryad, all’epoca, era far scendere i prezzi per non perdere quote di mercato a favore dei produttori di idrocarburi non convenzionali di Usa e Canada che, sulla carta, avrebbero dovuto finire per cedere, a causa dei costi di produzione molto più elevati rispetto ai Paesi del Golfo. Tuttavia, i competitor mostrarono un’efficienza e una resistenza imprevedibili, innescando così il tracollo delle quotazioni, scese dai 70 dollari al barile di fine 2014 ai 26-27 dollari al barile dello scorso gennaio.
Come vi dico da sempre, l’Arabia Saudita è incappata nella classica arma a doppio taglio e si è suicidata, come dimostra il suo deficit di budget e il fatto che sia dovuta ricorrere a un’emissione obbligazionaria sovrana monstreper tappare i buchi di bilancio e pagare gli arretrati. Oggi invece qual è la ratio che sottende l’accordo? Più o meno, la stessa. La finalità ultimativa della decisione dell’Opec è infatti quella di normalizzare gli eccessivi livelli delle scorte e non di puntare a prezzi più alti per il barile, visto che quest’ultima finalità porterebbe immediatamente a un aumento della produzione di shale. Parlando a latere della riunione, il ministro del Petrolio nigeriano, Immanuel Ibe Kachikwu, ha infatti dichiarato che un prezzo del barile a 60 dollari sarebbe «perfetto, perché non consentirebbe un aumento eccessivo del peso dello shale oil».
Occorre capire le dinamiche: la normalizzazione delle scorte è un driver chiave per i Paesi produttori a basso costo. Questo per due motivi: primo, genera la cosiddetta backwardation che rimuove i guadagni dalle strategie di hedgingsui prezzi ai produttori ad alto costo e, contemporaneamente, aiuta i produttori a basso costo ad aumentare la quota di mercato. Secondo, riduce la volatilità del prezzo del petrolio che aumenta la valutazione del debito e dell’equity che i produttori stanno emettendo. Insomma, normalizzando il livello delle scorte non si punta a prezzi del petrolio elevati, perché l’appiattimento della curva dei costi del petrolio e la velocità di risposta senza precedenti dell’offerta di shale si tramuterebbe rapidamente in un boomerang per i produttori a basso costo, una volta che il barile abbia superato la valutazione dei 55 dollari. Non a caso, nella conferenza stampa finale e nel comunicato ufficiale dell’Opec non si parla di prezzi più alti, bensì di ribilanciamento del mercato petrolifero, menzionando specificatamente gli eccessi nei livelli delle riserve. Insomma, paradossalmente, leggendo tra le righe, quanto deciso a Vienna mercoledì potrebbe essere un segnale d’allarme e non di soddisfazione.
Attenzione, poi, alle sottovalutazione o alle analisi troppo frettolose, come mi paiono essere state quelle dell’Opec, la quale ha venduto la pelle dell’orso russo prima di averlo catturato, visto che Novak ha detto chiaro e tondo che non intende quantificare il taglio alla produzione. Inoltre, sta a mio avviso sottostimando l’addio indonesiano e mal calcolando l’afflusso di output da Paesi che hanno già detto che non intendono partecipare al taglio, come Norvegia, Oman e Messico. E quest’ultimo caso è da tenere molto in considerazione. Sempre il già citato ministro del Petrolio nigeriano, parlando ai giornalisti, aveva confermato un taglio della produzione messicana di 150mila barili al giorno, ma pochi istanti dopo la notizia del raggiungimento dell’accordo, attraverso Bloomberg, il produttore messicano Pemex spegneva ogni entusiasmo, dicendo che non intende pianificare alcun ulteriore taglio per l’intero 2017. Non fosse altro che per mettere il bastone tra le ruote allo shale del non amatissimo, da quelle parti, Donald Trump.
Strategia o veramente all’Opec hanno voluto fare i conti senza l’oste pur di raggiungere un accordo a ogni costo, come temo? Non ci vorrà molto a scoprirlo, visto che la prossima settimana si terrà il meeting di Doha tra i Paesi produttori e lì gli altarini potrebbero saltare fuori, generando però un effetto devastante su un mercato sovra-eccitato che si troverebbe a fare i conti con crolli dei titoli del comparto e corsa alla ricopertura forzata delle posizioni long. Infine, vi invito a riflettere su una cosa: gli Stati Uniti se ne fregheranno bellamente di qualsiasi decisione presa dall’Opec e continueranno a pompare al massimo, soprattutto ora che alla Casa Bianca è arrivato un isolazionista e protezionista in capo economico come Donald Trump. La cui politica economica, sebbene finora solo limitata ad annunci e proclami sta già destabilizzando i mercati.
Ieri Bloomberg notava come il mese di novembre sia stato disastroso per l’andamento delle obbligazioni: il Bloomberg Barclays Global Aggregate Total Return Index ha perso il 4% in novembre, il maggior ribasso dall’avvio del paniere nel 1990. E proprio l’accresciuta fiducia verso la crescita americana e la promessa di Trump di mettere in campo mille miliardi di dollari di tagli fiscali e investimenti infrastrutturali ha riportato in alto i rendimenti, insieme al fatto che la Federal Reserve potrebbe davvero alzare i tassi a dicembre. A livello globale, la fuga dall’obbligazionario ha eroso 1.700 miliardi di dollari dal valore dell’indice di novembre, mentre la capitalizzazione delle azioni è salita di 635 miliardi. Prima ancora di insediarsi, Donald Trump ha già creato un pericoloso tantrum sull’obbligazionario globale e se, per caso, davvero la Yellen decidesse di aumentare di un quarto di punto il costo del denaro tra due settimane, allora aspettiamoci un bagno di sangue sui mercati emergenti stra-indebitati in dollari. Gli stessi Paesi che, in molti casi, vedono il petrolio come unica fonte di introito fiscale: attenzione ai troppi entusiasmi per l’accordo in sede Opec, potrebbe rivelarsi a breve per quello che è. Una farsa.