«Mario Draghi corre un enorme rischio: quello di parlare ma senza essere capito dal mercato, il quale vuole sentire solo ciò che gli fa comodo». A esternare questo giudizio è un primario operatore finanziario della City, interpellato subito dopo la notizia dell’estensione del Qe da parte della Bce fino al dicembre 2017, «e oltre se necessario», ma con una riduzione degli acquisti mensili da 80 a 60 miliardi a partire dal prossimo aprile. E quel rischio, infatti, è stato prezzato immediatamente dal mercato, il quale aveva sì scontato un allungamento del programma di acquisto, ma nelle ultime ore aveva vissuto sull’aspettativa di una sorpresa, di un nuovo improbabile whatever it takes, tanto che il quotidiano economico Handelsblatt aveva addirittura avanzato l’idea che la Bce aprisse all’acquisto di titoli azionari. Pochi minuti dopo l’annuncio della Bce, il rendimento del Bund è salito al massimo da 11 mesi, così come l’intera curva degli yields europei e anche l’euro/dollaro, dopo un’impennata, è tornato a calare.
E che l’Eurotower sappia di giocare una partita a scacchi lo dimostra il fatto che abbia immediatamente sottolineato che «se l’outlook diventasse meno favorevole o la condizioni finanziarie diventassero meno consistenti con un ulteriore progresso verso un aggiustamento sostenuto dell’inflazione, il Consiglio intende incrementare il programma in termini di volume e/o durata». Come dire, siamo pronti a tornare a 80 miliardi al mese, state tranquilli. Questa decisione, da sola, basta a dimostrare come il Re sia nudo e non sia nelle condizioni di prendere una decisione definitiva, dovendo tenere aperta la porta a marce indietro.
Insomma, qual è il messaggio che Draghi ha inviato e che il mercato finge di non sentire? Che, di fatto, occorre mettersi in testa che il Qe non può durare in eterno, soprattutto con la Fed pronta ad alzare i tassi e le prospettive inflazionistiche Usa in salita per l’annuncio del piano da 1 triliardo di dollari di investimenti infrastrutturali fatto da Donald Trump, di suo già un driver di inflazione interna. Draghi ha messo in campo l’ipotesi del tapering, ovvero la riduzione degli acquisti, per segnalare questa dinamica al mercato, il quale però vede soltanto il lato positivo dell’allungamento del programma, non il sasso lanciato nello stagno, tagliando il volume di acquisto da 80 a 60 miliardi al mese. Molto diplomaticamente, Draghi ha fatto seguire al suo annuncio l’ipotesi di tornare a 80 se sarà necessario, ma resta il fatto che quella riduzione sia chiaramente frutto dell’opposizione tedesca in seno al board della Bce, sintomo di un innalzamento del livello dello scontro tra falchi capitanati dalla Bundesbank e governatore.
E qualcuno si è accorto della scelta di Draghi: «Rispetto alle nostre aspettative, che erano di un’estensione di sei mesi a 80 miliardi di euro, la Bce ha deciso di rallentare il ritmo di acquisti, ma di allungare oltre le nostre attese la durata del Qe», osservano gli economisti di JP Morgan. Non solo. Per Craig Erlam, Senior Market Analyst di Oanda, citato dall’agenzia Mf-Dow Jones, si tratta di «un tapering accattivante. La quantità di acquisti è stata ridotta a 60 miliardi di euro al mese da 80 miliardi, ma la scadenza è stata spostata a dicembre, invece che a settembre come ci si aspettava. Quindi, nel complesso, la realtà è che è pur sempre un tapering e uno stimolo minore di quello che i mercati prezzavano. Una volta passata la frenesia, i mercati lo riconosceranno. Ma ora spetta a Draghi convincerci del contrario». In pratica, «la Bce ha dato con un mano e ha tolto con l’altra», ha aggiunto Kathleen Brooks di City Index, puntualizzando che il comunicato dell’Istituto è sia falco che colomba: «L’estensione del Qe è superiore alle attese, ma il tapering da aprile è abbastanza da falco a pochi giorni dalla vittoria del “No” al referendum costituzionale italiano».
Inoltre, come vi avevo anticipato, la Bce ha deciso dei significativi cambiamenti ai requisiti di ammissibilità di titoli al suo programma di acquisti, in modo da garantirne un’ordinata prosecuzione e di non ritrovarsi attorno a giugno senza più collaterale eligibile. Innanzitutto, la forchetta di scadenza è stata ampliata e la maturazione minima è stata abbassata da 2 a 1 anno, come ha riferito il presidente Mario Draghi al termine del consiglio direttivo. Inoltre, nella misura in cui sarà «necessario», sarà possibile acquistare titoli con rendimenti inferiori alla soglia del -0,40%, il tasso dei depositi parcheggiati dalla banche commerciali presso la stessa Bce. Insomma, addio al criterio di capital key, come era ovvio, altro sintomo chiaro di fallimento del Qe, visto che a questo punto dell’anno avremmo dovuto avere un’inflazione all’1,4%. Detto fatto, non appena comunicati i nuovi criteri, il Bund a 10 anni ha visto il rendimento salire nettamente, mentre l’obbligazione sovrana a 2 anni ha registrato un netto calo dello yield, essendo divenuta appetibile: il tutto, spedendo però la curva dei rendimenti tedeschi (2-10 anni) al massimo da luglio del 2014.
Sicuramente, un qualcosa che non fa felice la Bundesbank, ma che comprime ulteriormente lo spread degli altri titoli di Stato, Btp in testa, verso il Bund. Eppure, il nostro differenziale e quello spagnolo sono saliti: qualcuno ha tentato di smascherare il bluff di Draghi, cogliendolo con la guardia abbassata in conferenza stampa? Lo capiremo meglio la prossima settimana. Ma che nel lato superiore della clessidra, la sabbia cominci a scarseggiare lo testimoniano le parole dello stesso Draghi: «Oggi non abbiamo parlato di tapering», sottolineando che la decisione di estendere il Qe di 9 mesi a un ritmo di 60 miliardi di euro al mese è stata presa a larga maggioranza. Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma la questione sul tavolo resta sempre la stessa: il mercato saprà calibrare razionalmente la sua reazione o vorrà leggere nella decisione della Bce solo il lato bullish, cioè l’estensione temporale, ignorando il segnale di tapering, prendendo per oro colato il diniego formale di Draghi?
Vista la reazione del Ftse Mib alle comunicazioni del numero uno dell’Eurotower, propendo per la seconda ipotesi. E parlando di Italia, ecco come Mario Draghi ha risposto a una domanda sui nostri istituti di credito: «Le vulnerabilità presenti nel sistema bancario italiano esistono da tempo, vanno gestite e sono fiducioso che il governo sa cosa fare e che verranno affrontate». Governo? Quale governo? Forse, quest’ultima frase è stata la più interessante dell’intera conferenza stampa, soprattutto alla luce dei boatos che vedono il Tesoro intenzionato a chiedere 15 miliardi al fondo Esm per stabilizzare Mps e le altre banche traballanti: se così fosse, in automatico arriverebbe la troika in Italia. Non vorrei che, troppo presi dal caos della crisi e delle consultazioni, non ci rendessimo conto che il futuro della politica italiana sia già stato stabilito altrove, ovvero prendendo decisioni vincolanti che obbligherebbero tutti ad accettare un “governo dell’Europa”, quindi o un Renzi-bis o un esecutivo a guida Padoan.
Attenzione, più che allo spread, ai titoli del nostro comparto bancario nei prossimi giorni: potrebbero dirci cose che le veline del Quirinale nascondono.