Tu guarda a volte le combinazioni. Anzi, le coincidenze. Uno sta cercando disperatamente una scusa per inviare le sue truppe in Siria e nell’arco di due giorni il cattivo di turno gli scatena contro due attentati, entrambi riconducibili a quel nemico che tanto vorrebbe combattere sul campo. Incredibile a volte il destino. Ieri il premier turco Ahmet Davutoglu, nel corso di una conferenza stampa nella sede dello Stato maggiore dell’esercito, ha dichiarato infatti che l’attentatore che si è fatto esplodere accanto al convoglio militare ad Ankara mercoledì (28 morti e una sessantina di feriti) si chiamava Saleh Nejar, aveva 24 anni ed era originario di Amude, nel nord della Siria. Sarebbe entrato in Turchia assieme ad alcuni profughi siriani, fingendosi rifugiato. L’identificazione è arrivata grazie al riconoscimento delle impronte digitali che la polizia aveva preso al momento dell’ingresso nel Paese. Strano, prima era un’autobomba, poi un kamikaze. Siriano, oltretuttto. La prassi degli ultimi tempi – Parigi insegna – vorrebbe che il suo passaporto fosse stato trovato intonso accanto al corpo, ma i turchi sono dei simpaticoni, hanno riconosciuto l’attentatore suicida, a tempo di record, dalle impronte digitali. Corpo smembrato ma mani che sembravano uscite da una manicure: che fortuna!
Ieri poi nuovo attentato, questa volta lungo la strada che collega Diyarbakir, la città più importante nel sud-est del Paese a maggioranza curda, al distretto di Lice: sette soldati sono rimasti uccisi nell’esplosione della mina fatta saltare al passaggio del loro convoglio militare. Attacchi del genere si sono verificati diverse volte negli ultimi mesi nel sud-est della Turchia, dopo la sospensione del cessate il fuoco, la scorsa estate, tra Ankara e i combattenti curdi. In compenso, già poche ore dopo l’esplosione dell’autobomba ad Ankara era partita la ritorsione dell’aviazione turca che mercoledì sera ha bombardato le posizioni del Pkk nel nord dell’Iraq, uccidendo 60-70 militanti, tra cui alcuni comandanti di alto livello, stando a quanto riferito dallo stesso Davutoglu. La Turchia, ha aggiunto il premier, continuerà a bombardare le posizioni delle milizie curdo-siriane Ypg sia nel proprio territorio, sia nel nord di Siria e Iraq. Insomma, casus belli trovato?
«I collegamenti con le milizie curde Ypg sono chiari ed evidenti – ha spiegato Davutoglu -. L’attacco dimostra che le milizie curde sono organizzazioni terroristiche». Immediata però la reazione del Pkk che ha negato qualsiasi coinvolgimento: «Non sappiamo chi abbia effettuato l’attacco di Ankara, ma potrebbe trattarsi di un atto di ritorsione per i massacri in Kurdistan», ha dichiarato il co-leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Cemil Bayik. Gli ha fatto eco poco dopo il partito curdo-siriano Pyd, che ha smentito la responsabilità del suo braccio armato, le Unità di protezione del Popolo (Ypg), nell’attacco terroristico: «Rifiutiamo completamente le accuse – ha dichiarato il co-presidente del partito, Salih Muslim -. Nemmeno un proiettile viene sparato dalle milizie Ypg in Turchia perché non considerano la Turchia come un nemico».
Vero? Falso? Conta poco. Conta il timing: da giorni i turchi stavano bombardando i curdi nell’area della Siria confinante con la Turchia, quindi una rappresaglia era il minimo che potessero aspettarsi: certi attentati non c’è infatti bisogno di “farseli da soli”, tanto per evocare lo spirito della false flag, basta creare le condizioni per cui avvengano. Ovvero, prima provoco e poi casualmente abbasso la guardia, lanciando un osso a chi non aspetta altro che farmela pagare. Funziona così ormai da una quindicina d’anni. E la Turchia ormai non ha più nulla da perdere, è nella disperata e disperante situazione di chi ha bisogno di creare caos a tutti i costi.
Lo confermano le parole pronunciate martedì dallo stesso Davutoglu durante la sua visita in Ucraina, quando, travalicando anche l’ultimo bastione del buongusto, ha dichiarato che «la Russia si comporta come un’organizzazione terrorista, costringendo i civili a fuggire. Se continuerà, daremo una risposta estremamente decisiva». Al di là del fatto che la Russia potrebbe tramutare la Turchia in un posacenere nell’arco di 72 ore se volesse, c’è dell’altro a ferire Ankara. In primis, la duplice offensiva russa proprio contro la Turchia: diplomatica in primo luogo, militare in subordine. Nello stesso giorno in cui Davutoglu lanciava le sue accuse, infatti, il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, sfoderava il guanto d’acciaio. Dopo aver confermato che negli ultimi sette giorni l’aviazione russa ha compiuto 444 missioni, colpendo 1593 obiettivi dei terroristi in sei province, Shoigu ha dichiarato che «i terroristi nelle province siriane di Idlib e Aleppo continuano a ricevere armi e rinforzi dal territorio turco, mentre l’esercito di Ankara continua a colpire con artiglieria le forze governative siriane e l’opposizione patriottica». Insomma, un’accusa precisa contro Ankara che sottende l’intero equilibrio in atto. Poi, il risvolto militare. Mosca, insieme agli iraniani e alle forze lealiste, accerchiando Aleppo ha infatti tagliato le linee di rifornimento dei ribelli con la Turchia, garantendo ai curdi dello Ypg di avanzare nelle città vicino al confine e di consolidare il proprio controllo del territorio a nord della Siria. Esattamente l’incubo che la Turchia non avrebbe mai voluto vivere.
E questo a cosa porterà? Le accuse di Davutoglu erano il chiaro tentativo di forzare un casus belli che garantisse ad Ankara la possibilità di invadere la Siria per difendere la città di Azaz dall’assedio dei curdi, i quali potrebbero voler riunire tutte le province dell’area inviando un chiaro segnale ai fratelli in territorio turco e iracheno, con questi ultimi che già chiedono un referendum sull’indipendenza. Stando a quotidiano Yeni Safak, «la Turchia sta pianificando l’invio di truppe 10 chilometri all’interno del territorio siriano per creare un’area liberata». Il perché è presto detto: se Azaz viene conquistata dai curdi, 400-500mila profughi potrebbero ammassarsi al confine turco. E, infatti, lo stesso Davutoglu ha dichiarato che «non lasceremo cadere Azaz, lo Ypg non sarà in grado di attraversare a oriente dell’Eufrate e a occidente di Afrin». Guarda caso, due attentato curdi in Turchia in meno di 24 ore.
Ma la cosa grave appare un’altra, al netto che dubito si arrivi a un’escalation tra Ankara e Mosca, visto che la prima è membro Nato e quindi attiverebbe la clausola di difesa da parte di tutti gli altri Stati componenti se la Russia la colpisse direttamente: la bomba dei nuovi migranti pronta a scoppiare in caso la situazione in Siria vada, come pare, fuori controllo a livello bellico. Come saprete, l’Austria sta chiudendo i confini meridionali, ovvero quelli del Brennero e di Tarvisio, per contenere i flussi di profughi e controllare meglio le frontiere: addio Schengen?
Non ci vuole un genio per dirlo, poiché interpellato a metà gennaio dalla Reuters, un funzionario tedesco sotto anonimato aveva dichiarato quanto segue: «Abbiamo tempo fino a marzo per trovare una soluzione europea. Dopo, Schengen finirà giù dallo scarico. C’è un grosso rischio che la Germania chiuda i confini, la Merkel potrebbe cedere alle pressioni interne e ribaltare il suo approccio verso i migranti. A quel punto, addio Schengen. C’è la forte probabilità che il mese di febbraio sia l’inizio della conto alla rovescia verso la fine». L’Austria, quindi, non sta facendo altro che anticipare i tempi di poche settimane con il suo provvedimento.
Il problema è duplice: primo, Berlino non sarebbe la prima a scegliere questa strada, visto che Paesi scandinavi e appunto l’Austria hanno già ripristinato i controlli alle frontiere. Secondo, la tabella pubblicata dal Washington Postche trovate a fondo pagina mette in prospettiva la situazione, dandoci cifre che i media cosiddetti autorevoli nascondono: compara infatti il numero di profughi arrivati in Europa dal primo gennaio al 7 febbraio di quest’anno con quelli arrivati dal primo gennaio al 28 febbraio dello scorso anno.
Già ora la situazione è devastante, ma con l’arrivo della bella stagione e il rischio di 600mila nuovi profughi in fuga da bombardamenti e combattimenti in Siria, la prospettiva è quella di una vera e propria invasione. Destinata a essere pagata sostanzialmente da Grecia, Italia e Balcani, visto che il resto d’Europa si prepara a chiudere le frontiere e la Turchia usa i rifugiati come merce di scambio per ottenere finanziamenti.Nel silenzio generale dei media, infatti, venerdì scorso l’ambasciatore turco presso l’Ue, Selim Yenel, ha rigettato la proposta avanzata dal governo olandese in base alla quale le nazioni europee avrebbero ridislocato su base volontaria 250mila profughi provenienti dalla Turchia ogni anno in cambio dell’impegno di Ankara nel chiudere le rotte marine che hanno portato centinaia di migliaia di migranti a imbarcarsi per raggiungere la Grecia. «Scordatevelo, queste richieste sono inaccettabili e non applicabili», ha tuonato Yenel.
Il ricatto migratorio è troppo ghiotto per Ankara per farselo portare via in cambio dei ricollocamenti. E se la Nato ha dato formalmente il via libera al pattugliamento nell’Egeo al fine di evitare che gli scafisti trasportino rifugiati dalla Turchia alle coste greche, parlando a un evento dei giovani della Confindustria turca, il presidente Erdogan ha minacciato direttamente l’Ue: «Se continuano i bombardamenti in Siria, ci saranno 600mila nuovi rifugiati. Quanti ne prenderanno le altre nazioni, 100, 500 e solo alcuni di loro? Non abbiamo scritto idiota sulla fronte, abbiamo tenuto duro, ma la nostra pazienza è finita. Non pensino che i pullman e gli aerei siano qui per niente. Non appena le Nazioni Unite diranno alle altre nazioni di accettare i rifugiati, noi glieli spediremo». A chi, a vostro modesto avviso, visto che tutta Europa sta chiudendo le frontiere? Ma continuiamo pure a parlare di Ddl Cirinnà in questo Paese senza più speranza.