“Close to the edge”, così si intitola l’ultimo studio di Credit Suisse sull’eurozona e ci dice molto dei tempi che stiamo vivendo. Primo, una nuova recessione potrebbe portare al collasso dell’area euro, visto che la moneta unica sarebbe schiacciata dal disordine politico che ne conseguirebbe. Secondo, il destino dell’eurozona sta tutto nella mani dei legislatori europei, i quali a oggi si sono dimostrati incapaci di evitare un’altra spirale ribassista e arginare il populismo anti-euro. Niente di nuovo, di fatto, ma nel suo report, Peter Foley, si spinge un po’ oltre e mette nel mirino due punti deboli: stress del credito nel settore bancario e volatilità di mercato.
Accipicchia, quindi la colpa non è da ricercarsi nelle famose e salvifiche riforme strutturali richieste dalla troika, non è questione di svalutazione competitiva attraverso il taglio selvaggio di salari e pensioni, non c’entra forse nemmeno il totem del rapporto deficit/Pil. Stress del credito nel settore bancario: colpa delle troppe sofferenze, quindi di quei poveri che tanto fanno schifo a Scalfari e che non riescono a onorare i propri debiti? Colpa dei troppi titoli di Stato in pancia, tanto che quei signori dei tedeschi ora ne chiedono la limitazione? No, colpa del fatto che le banche europee, almeno la gran parte, basano quasi l’intero business sul trading e non sulla gestione del risparmio e l’erogazione del credito: fanno le merchant bank con i soldi degli altri, parafrasando Ricucci. Liberissimi, dico io, essendo aziende private, ma in un mondo che vuole risolvere davvero i problemi, la soluzione è semplice: il tuo trading desk supera la soglia imposta per legge sugli attivi? Perfetto, via sportelli e filiali. E poi gioca pure a fare Gordon Gekko, magari piazzando subordinate a pensionati e muratori. Accidenti che traders!
Per Foley, «l’outlook di breve termine per l’attività economica, così come i rischi che la circondano, si è spostato drammaticamente e materialmente al ribasso». D’altronde, nonostante i proclami entusiastici di Matteo Renzi, i 19 Stati membri dell’eurozona sono cresciuti solo dello 0,3% nell’ultimo trimestre del 2015, oltretutto beneficiando di euro debole, petrolio ai minimi e 60 miliardi di acquisti della Bce: siamo ancora sotto al picco che ha preceduto la crisi finanziaria a livello di Pil, quindi facciamoci una domanda. E, tranquilli, dopo vi offrirò io una mia risposta. Alta disoccupazione, prezzi degli assets in calo e debito pubblico e privato in costante aumento sono un cocktail letale, il cui antidoto si troverebbe per le classi dirigenti europee nell’accusare chi attacca lo status quo o le scelte fatte: populism is the new black, attacca chi non è d’accordo dandogli del populista e sei sereno come Audrey Hepburn nel suo tubino. Ormai lo sappiamo, lo schemino ha funzionato fino adesso e, stante anche la poca dimestichezza con argomentazioni che abbiano un senso, i manovratori del Titanic europeo non intendono cambiare registro. Bene, sapete perché siamo in questa condizione?
Un dubbio mi è sorto ormai da circa tre settimane, ovvero da quando è tornato sulla scena politica e mediatica Mario Monti, sparito dopo la sua fallimentare esperienza di governo e ora magicamente protagonista di intemerate al Senato contro l’anti-europeismo di Renzi e in televisione nel difendere a spada tratta l’Ue, arrivando al parossismo di definire la Grecia «il più grande successo dell’euro». Ci sarebbe da chiedersi se certa gente non sia stata ricoverata per un tso per molto meno in qualche bar di periferia ma qui la questione è seria: Mario Monti non manda segnali a caso e non è stato colto da improvvisa vis civica, se ne stava tranquillo tra la Bocconi e casa sua. Ha un compito da portare a termine, però, su mandato europeo: fare in modo che Renzi concluda da bravo allievo il lavoro iniziato, inviandogli chiari messaggi oppure spianare la strada alla sua destituzione.
Il secondo dubbio che sostanzia la mia tesi l’ho avuto ieri, quando con enorme e colpevole ritardo ho scoperto che lunedì sera l’ex governatore della Bank of England, Mervyn King, ha presentato alla London School of Economics il suo libro “The end of alchemy”, sparando in faccia all’uditorio una lettura di quanto accaduto nel pieno della crisi del debito che, se reale, dovrebbe veder nascere commissioni di inchiesta parlamentare come se piovesse in metà Europa. Solo il Daily Telegraph ha dato lo spazio che meritava alla notizia, onore come sempre a loro ed ecco qual è la tesi di fondo: la profonda crisi economica europea, quella di cui parlava anche Foley nel suo report, non nasce ora a causa dei mercati emergenti o del petrolio, ma «è stata una scelta politica deliberata delle elites europee». Ora, capite che se queste cose le dico o scrivo io non c’è problema, mi danno del complottista e si chiude lì. Ma quando a dirle, in un incontro pubblico, è l’uomo che dal 2003 al 2013 ha guidato la Banca centrale di Sua Maestà, il peso di quelle parole è un attimino differente. Soprattutto quando le sostanzia presentando il grafico che vedete a fondo pagina a sostegno della sua tesi: compara la depressione in corso in Grecia con quella che soffrirono gli Stati Uniti nel periodo tra il 1929 e il 1939.
Come vedete, la depressione in Grecia è peggiore, più profonda e mortale di quella di allora, tanto più che mentre negli Usa a cinque anni dall’inizio della crisi si notò un lento risalire, mentre per quanto riguarda Atene l’encefalogramma economico risulta piatto. E tale resterà. Non lo dico io, ma King, quando afferma che «i Paesi alla periferia dell’area euro non hanno più nulla per controbilanciare l’austerità. Gli si impone puramente e semplicemente di tagliare la spesa totale, senza alcuna forma di domanda per compensare. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto, in un Paese europeo, una depressione più profonda di quella che gli Usa soffrirono negli anni ’30. È spaventoso, ed è avvenuto come un atto deliberato di scelta politica, il che lo rende ancora più grave». Ripeto, non è un anti-europeista incendiario, è un ex banchiere centrale. E non della Banca centrale del Botswana.
Per Mervyn King, le iniezioni di liquidità della Bce non servono più a niente, ci consegnano a un destino di «salvataggi bancari senza fine, imposizione di austerità e pressioni delle elites in Europa e Usa di fare dell’eurozona una zona di trasferimento». E ancora, «se la sola alternativa è l’austerità schiacciante, la continua disoccupazione di massa e l’impossibilità di porre rimedio al problema del debito, allora lasciare la zona euro sarà l’unica strada da seguire per invertire la rotta verso la crescita economica e il pieno impiego». Tanto più che, al netto dei rischi di un ritorno alla sovranità monetaria, «u benefici di lungo periodo superano i costi del breve». Parole e musica dell’ex capo della Bank of England. «L’unione monetaria ha creato un conflitto tra le oligarchie centraliste da una parte e le forze della democrazia a livello nazionale dall’altra… trasferire la sovranità, di nascosto, a un centro non-eletto, è profondamente viziato e incontrerà la resistenza popolare».
Ora, delle due, l’una. O Mervyn King sta segretamente facendo campagna a favore del Brexit, contestualmente togliendosi qualche sassolino dalla scarpa con gli altri banchieri centrali e i politici stranieri con cui a avuto a che fare durante il suo mandato oppure due indizi fanno una prova. Il primo fu quello di Tim Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, il quale svelò – anch’egli nel suo libro di memorie politiche – come nel 2011 Francia e Germania fecero pressioni sull’amministrazione statunitense affinché facilitasse la caduta di Berlusconi e un cambio di governo in Italia. «Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani», disse Geithner a un Obama pressato dal diabolico duo Merkel-Sarkozy. Ora, se sia Geithner che King avessero scritto e detto il falso, vista la gravità delle accuse e il profilo degli accusati, ci sarebbero state, magari non crisi diplomatiche, ma almeno richieste di smentita ufficiale e di ritiro del libro dal commercio. Nulla.
Come nulla hanno avuto da dire Merkel e Sarkozy quando dagli Usa arrivarono quelle accuse, forse perché la stampa “libera” era talmente felice della cacciata di Berlusconi e dell’arrivo al governo dei loden austeri da non fare nemmeno una domanda al riguardo. Qui non si tratta di complottismo per la caduta di un governo in cui certo io non mi riconoscevo, ma di stabilire la realtà, anche a livello legale. Perché è comodo parlare del processo della Procura di Trani contro le agenzie di rating per il loro presunto ruolo nella crisi del nostro spread nel 2011, ma occorre anche capire se qualche politico, magari ai massimi livelli, ha preso decisioni insieme a governi esteri riguardanti il nostro Paese e la sua sovranità democratica, quantomeno a livello di governo eletto e rappresentante del popolo.
Certo, Tim Geithner è lontano, ma Mervyn King è a due ore di volo da Roma e un’ora e mezzo da Milano: perché qualcuno non lo invita a presentare il suo libro, magari in una sede istituzionale come può essere la Commissione bilancio di uno dei due rami del Parlamento o la sede di Bankitalia o una prestigiosa università di indirizzo economico? Sarebbe interessante che ci confermasse quanto detto alla London School of Economics, ovvero che fu una scelta deliberata delle elite Ue quella di uccidere la Grecia per zavorrare l’intera eurozona, rendendola vulnerabile a quella che Credit Suisse chiama la possibile, nuova crisi fatale. Forse in Germania si erano resi conto che la spinta propulsiva dell’euro, ovvero il guadagno che l’economia tedesca poteva trarne, era arrivata al massimo e che all’orizzonte c’erano soltanto potenziali rischi da condivisione, leggi il bilancio di Target2 per la Bundesbank?
Possibile che non interessi a nessuno sapere come sono andate le cose? Peccato, perché dal passato potremmo conoscere il nostro futuro.