Tempi cupi per chi negli anni ha costruito una fortuna sui petrodollari. Il Fondo monetario internazionale ha infatti chiesto ai Paesi del Golfo di adattarsi ai bassi prezzi del petrolio e ha reso noto che la crescita economica delle sei nazioni della regione quest’anno sarà dell’1,8%, in calo rispetto al 3,3% del 2015. Il responsabile dell’area per il Fmi, Masood Ahmed, sostiene che i sei Paesi devono diversificare la loro base di entrate, per far fronte alla persistente caduta dei prezzi. Quest’anno, spiega, «assisteremo a una continuazione di uno scenario di bassi prezzi, per cui le entrate dell’export petrolifero scenderanno ancora, forse di circa 100 miliardi. Questo impatterà non solo la finanza, ma anche l’economia in termini di attività economiche».
Dalla metà del 2014 i prezzi del petrolio sono scesi di circa il 70% e, stando al Fmi, il prezzo del greggio recupererà solo modestamente, intorno a 50 dollari entro la fine di questo decennio. L’Arabia Saudita, ad esempio, quest’anno crescerà solo dell’1,2% contro il 3,4% del 2015. Insomma, i ricchi Paesi del Golfo sono un po’ meno ricchi. Quanto, è questione di punti di vista. A molti la cifra persa per strada dai grandi Stati esportatori a causa della crisi petrolifera sembrerà a dir poco spropositata: il crollo dei prezzi del petrolio ha fatto scendere di 390 miliardi di dollari i ricavi incassati l’anno scorso dai principali Paesi esportatori nel solo Medio Oriente, sempre stando ai calcoli del Fondo monetario internazionale. E nel 2016 il deficit di entrate è atteso ancora in salita, per attestarsi a oltre 500 miliardi.
Le previsioni precedenti del Fondo in materia di mancate entrate parlavano di una perdita di fatturato dell’ordine di 360 miliardi l’anno scorso a causa della crisi del petrolio, ma poi le quotazioni del greggio sono scese ancora a fine 2015, spingendo l’istituto a rivedere al ribasso le sue stime (una delle occupazioni principali e meglio adempiute dall’istituto Usa). Il report dell’organizzazione con sede a Washington dice che a causa del calo del petrolio, i Paesi esportatori del Medio Oriente potrebbero perdere dai 490 ai 540 miliardi di dollari quest’anno rispetto al fatturato registrato nel 2014. Anche se ora i prezzi hanno recuperato terreno e viaggiano in area 45 dollari, nel frattempo per risolvere i problemi di deficit i paesi del Golfo Persico hanno lanciato diverse misure, tra cui il taglio dei sussidi di energia e l’aumento delle tasse, ma la produzione petrolifera resta ai massimi.
E ora vi spiego il perché, qual è la vera dinamo che sta facendo muovere questo meccanismo e che potrebbe rivelarci quale sarà l’andamento delle quotazioni dell’oro nero, al netto di qualche “incidente” geopolitico, ad esempio in Libia. Ed è proprio la già citata Arabia Saudita a prendersi la scena, perché al netto del rimbalzo del prezzo del barile dai minimi record di fine 2015, qualcosa comincia a rompersi nel Regno: ovvero, una bella crisi di finanziamento delle banche, visto che il tasso interbancario a 3 mesi all’inizio di questa settimana è salito sopra quota 2% per la prima volta dal gennaio 2009. Insomma, fuga di capitali in atto. E di una certa entità.
Detto fatto, Re Salman ha dato il via libera al cosiddetto post-oil economic plan, ovvero un piano di diversificazione delle attività economiche del Paese che dovrebbe drasticamente ridurre la sua dipendenza dalla produzione e dall’esportazione di greggio. Per ora si sa molto poco dei dettagli del piano, data la nota opacità saudita, ma pare che l’intenzione sarebbe quella, tra l’altro, di vendere meno del 5% del colosso petrolifero statale, Aramco e di creare un fondo sovrano destinato a diventare il più grande del mondo, scalzando quello norvegese (di cui parleremo domani).
D’altronde, la situazione saudita è seria: al netto del costo esorbitante della guerra in Yemen, gli assets stranieri netti del Regno l’anno scorso sono calati di 115 miliardi di dollari per andare a tamponare un deficit di budget che aveva raggiunto il 15% del Pil, tanto che il governo è tornato sul mercato obbligazionario per finanziarsi e pianifica la prima vendita di bond denominati in dollari a livello internazionale. Inoltre, dopo almeno una decina d’anni in cui si è parlato di diversificazione dell’economia, ancora più del 70% delle revenues del governo saudita arrivano dal petrolio e in questo settore lo Stato impiega i due terzi dei lavoratori, con il settore privato che vede i lavoratori stranieri pesare per l’80% del totale.
Ora, torniamo per un attimo alla realtà macro del mercato petrolifero: c’è davvero da credere all’attuale rally dei prezzi, ancorché molto calmierato? Da inizio anno a oggi abbiamo fatto i conti con un’unica forza motrice del comparto, ovvero l’eccesso di posizioni ribassiste sul mercato dei futures che, complici rumors quotidiani, hanno continuato nel tempo a dare vita a short-squeeze che hanno comportato chiusure forzate delle posizioni short e quindi rialzo dei prezzi. Questo senza che realtà politiche serie si sostanziassero, visti continui fallimenti rispetto ad accordi per un congelamento della produzione tra i Paesi esportatori, ultimo dei quali la pantomima di Doha di due settimane fa. Oggi, però, in maniera parallelamente disconnessa dalla realtà macro, il quadro è totalmente cambiato, come ci mostra il grafico a fondo pagina: sul mercato futures le posizioni dominanti ora sono i long, ovvero rialziste e questo potrebbe essere prodromico a un nuovo calo delle valutazioni, perché gli squeeze possono avvenire anche in verso contrario e portare a tonfi del prezzo al barile.
Qual è il problema? È che se si corre tutti a liquidare le posizioni rialziste, ma non ci sono più virtualmente shorts da coprire non restano più sul mercato catalizzatori in grado di guidare un rialzo, ancorché artificiale e di carta, delle valutazioni. Quindi, area 40-45 dollari e guai sempre più grossi per i Paesi produttori. Ma non basta, perché dal vertice di Hannover tenutosi lunedì scorso tra Barack Obama e quattro leader europei è stata certificata l’unanime volontà di Usa, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia a sostenere il nuovo governo libico. Ovviamente sono subito fioccate le smentite del nostro governo rispetto a piani che prevedano l’invio di 900 uomini con la finalità di proteggere siti sensibili, ma è stato lo stesso premier libico, Fayez Serraj, a chiedere esplicitamente protezione internazionale per i pozzi petroliferi del Paese.
La Francia, che a inizio aprile aveva escluso attraverso il ministro degli Esteri, Jean-Marc Ayrault, l’invio di truppe o raid aerei sulle fazioni dello Stato Islamico, guarda caso già martedì si diceva “pronta a garantirne la sicurezza marittima”. «Dobbiamo attendere che il premier Serraj ci dica quali misure di sicurezza intenda adottare e quali sollecitazioni conta di fare alla comunità internazionale per assicurare la sicurezza marittima della Libia. Noi siamo pronti», ha dichiarato a radio Europe 1 il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian. Ma cosa significa tutto questo? Semplice, che quando le ipocrisie saranno finite e i governi saranno talmente spaventati di perdere pozzi e concessioni da muovere finalmente uomini e mezzi, gli ingegneri dell’Eni e della tedesca Wintershall aiuteranno le autorità libiche a far ripartire la produzione petrolifera libica, il che potrebbe sostanziarsi in un aumento giornaliero di 1,3 milioni di barili (il Paese produceva 1,7 milioni di barili al giorno prima della deposizione di Gheddafi) che andrebbe ad alimentare la saturazione globale di greggio già in atto.
Le installazioni petrolifere libiche, in parte di proprietà di Eni, della francese Total e della tedesca Wintershall, sono state infatti abbandonate lo scorso anno e lasciate sotto la protezione di 27mila guardie della Petroleum Facilities Guard, un corpo che non dipende più dall’esercito libico e che spesso e volentieri chiude un occhio, dietro pagamento, verso le scorrerie delle bande jihadiste che operano nel Paese. E chi ha il massimo interesse ad arrecare il maggior danno possibile alle installazioni libiche, prima che gli eserciti stranieri arrivino a difenderle? L’Arabia Saudita, ovviamente, la quale sta muovendo i suoi jihadisti proxy al fine di perseguire i propri interessi economici, prevenendo una nuova inondazione di petrolio sul mercato proveniente dalla ora dormiente Libia (il cui output è di circa 400mila barili al giorno). E il terminal petrolifero di Ras Lanuf, il più importante del Paese, da almeno al fine del 2014, è stato obiettivo di attacchi jihadisti, alcuni rivendicati anche dall’Isis, uno dei quali ha visto uccise 22 guardie libiche attraverso un’imboscata via mare.
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