Nel mio articolo di ieri ho voluto raccontarvi l’altra faccia di Sadiq Khan, il nuovo sindaco di Londra. Oggi, invece, voglio raccontarvi chi è in realtà Hillary Clinton, visto che l’informazione cosiddetta autorevole si è schierata totalmente al suo fianco contro l’impresentabile Donald Trump. L’altro giorno negli Stati Uniti è stato pubblicato il giudizio che Charlews Ortel ha dato della Clinton Foundation, la mega-charity di Bill e Hillary, dopo averne spulciati conti e bilanci. Per chi di voi non sapesse chi è Charles Ortel, basti sapere che è l’analista di Wall Street che ha scoperto le magagne finanziarie della General Electric prima che il suo titolo si schiantasse nel 2008 e quelle di AIG nel 2009, definito dal Times «uno dei migliori analisti di documenti finanziari al mondo». Bene, quest’uomo ha speso gli ultimi 15 mesi della sua vita a leggere centinaia e centinaia di pagine relative ai numeri della fondazione, dalle donazioni al pagamento di tasse statali e federali. Tutto e di tutte le entità controllate, sia le sussidiarie estere che la Clinton Health Access Initiative e la Clinton Global Initiative. Il suo giudizio finale: «Non è una charity, ma una frode». E prosegue: «Ho deciso, come ho fatto per General Electric, di scegliere un’istituzione complicata e la Clinton Foundation lo è, anche se di misura enormemente inferiore rispetto a GE. Ho pensato che sarebbe stato divertente fare un controllo incrociato rispetto a ciò che i donatori pensavano venisse fatto con i loro soldi e cosa viene fatto in realtà e ciò che ho scoperto mi ha molto irritato. Ci sono discrepanze enormi tra le ragioni e le cause per cui la gente dona e il modo con cui la fondazione spende e alloca i soldi».
Interpellato al riguardo, un portavoce della Clinton Foundation non ha voluto commentare. E per capire quale mondo sostenga e faccia capo alla rassicurante Hillary, basta andare a vedere i donatori alla Clinton Foundation, la holding di famiglia in cui la candidata è rientrata dopo aver lasciato il ruolo di Segretario di Stato nel 2013 e che lo scorso anno, stando al Wall Street Journal, ha ricevuto sempre crescenti donazioni da governi esteri. Non solo il bando rispetto a queste elargizioni imposto nel 2009 ha ricevuto più volte deroghe dal Dipartimento etico, non solo la Fondazione ha garantito ai coniugi Clinton qualcosa come 153 milioni di dollari per tenere discorsi in tutta la nazione, ma sono i nomi dei donatori a far riflettere.
Il Dipartimento affari esteri, commercio e sviluppo del governo canadese ha infatti donato 480mila dollari, forse perché vagamente interessato a un via libera per la pipeline della Keystone XL, mentre il Comitato per la Coppa del mondo di calcio 2022 in Qatar ha donato tra i 250mila e i 500mila dollari, questo nonostante gruppi di attivisti per i diritti umani abbiano certificato la morte di almeno 1000 lavoratori migranti impegnati nella costruzione delle infrastrutture. Nel 2014, poi, le donazioni estere sono raddoppiate rispetto all’anno prima: gli Emirati Arabi Uniti hanno donato tra 1 e 5 milioni, il governo tedesco – grande fornitore di armamenti agli Usa- tra i 100mila e i 250mila dollari, l’Australia 5 milioni di dollari e l’Arabia Saudita, finanziatrice della prima ora della Fondazione, circa 8 milioni di dollari.
La prima tabella a fondo pagina mette in fila le donazioni estere alla Clinton Foundation dal 1999, anno di fondazione, al 2014 e guarda caso chi è in cima alla lista? L’Ucraina, Paese che si è visto garantito dagli Usa un bel golpe sponsorizzato proprio da George Soros e sostenuto da Dipartimento di Stato e Fmi. E se la seconda tabella dimostra che la Clinton Foundation, a conti fatti, nel 2013 ha devoluto in opere benefiche solo il 10% di quanto introitato, l’Arabia Saudita come terzo donatore estero mi fa pensare. Ovvero, sarà per questo che Hillary Clinton non disse a nessuno del contenuto della mail inviatale dalla sua gola profonda mediorientale, Sidney Blumenthal, il 16 febbraio del 2013 e misteriosamente sparita dal novero di mail rubate dall’hacker romeno Guccifer, il quale sta per essere estradato proprio ora negli Usa su sua richiesta?
E cosa diceva quella mail, di cui resta solo il leak originale? Che a finanziare l’attentato all’ambasciata americana di Bengasi, nel quale morì l’ambasciatore, Chris Stevens, erano stati «islamisti sunniti in Arabia Saudita», questo stando a prove in possesso dei servizi francesi e libici. E qui la cosa si fa seria, molto più che una fondazione che intasca soldi. Il 2 maggio scorso, infatti, il quotidiano israeliano Haaretz pubblicò la notizia in base alla quale una settimana prima il regime di Bashar al-Assad avrebbe utilizzato armi chimiche contro l’Isis a est di Damasco, nonostante l’accordo del 2013 sul loro smantellamento. Di più, il regime avrebbe usato probabilmente il gas sarin dopo che i militanti dello Stato Islamico hanno attaccato due basi dell’aviazione siriana considerate risorse militari vitali.
Direte voi, cosa c’entra Hillary Clinton con il sarin siriano? Ora ve lo spiego. Il grande giornalista investigativo Seymour Hersh in due articoli pubblicati sulla London Review of Books sosteneva che il governo americano ha falsamente accusato il regime di Bashar al-Assad per gli attacchi con il gas sarin di qualche anno fa per trovare uncasus belli che giustificasse l’invasione della Siria. A confermare la tesi di Hersh c’è un report dei servizi segreti britannici che escluderebbe che il sarin utilizzato arrivasse dagli arsenali siriani, ma, cosa più grave, alla base di tutto ci sarebbe un accordo segreto stipulato nel 2012 tra amministrazione Obama, Turchia, Arabia Saudita e Qatar per dare vita al false flag con l’agente chimico e gettare le responsabilità su Assad per rovesciarne il regime.
Per Hersh, «stando ai termini dell’accordo, i finanziamenti sarebbero arrivati dalla Turchia, ma anche da Arabia Saudita e Qatar, mentre la CIA, con il supporto dell’MI6 inglese, era responsabile del furto del materiale chimico dagli arsenali di Gheddafi in Libia e del suo trasferimento in Siria». E chi avrebbe giocato un ruolo logistico e di raccordo in questa operazione? Il consolato Usa a Bengasi, proprio quello poi stranamente colpito da un attentato nel quale rimase ucciso il diplomatico Chris Stevens, il quale intratteneva stretti rapporti con il politico, ex capo del Consiglio militare di Tripoli, ex volontario con i talebani ed ex-guerrigliero anti-Gheddafi, Abdelhakin Belhadi.
Stando a una ricerca del reporter investigativo Christoph Lehmann pubblicata il 7 ottobre del 2013, «alcune prove portano direttamente alla Casa Bianca, al capo del Joint Chiefs of Staff, Martin Dempsey, al direttore della CIA, Paul Brennan, al capo dell’intelligence saudita, principe Bandar e al ministro dell’Interno di Ryad».
Qual è il problema, direte voi, è roba vecchia? Certo, vecchissima. Peccato che sempre Hersh dica chiaramente che a sovrintendere all’operazione di furto del sarin dagli arsenali libici e al trasferimento dello stesso in Siria via Turchia c’era proprio l’ambasciatore a Bengasi, Chris Stevens. «Quell’ambasciatore che è stato ucciso era conosciuto come un tipo di persona, per quanto ho capito, che non si militava a prendere ordini dalla CIA. Nel giorno della missione stava incontrandosi con il capo zona della CIA e con la compagnia di spedizione. Era certamente coinvolto, ben a conoscenza del piano e al corrente di tutto quanto stava accadendo. E non esiste al mondo che qualcuno in una posizione così delicata non stesse parlando con il suo capo, attraverso qualche canale».
E chi era il suo capo? Il segretario di Stato Usa, essendo lui un ambasciatore. Quindi, Hillary Clinton. Guarda caso, Chris Stevens non può parlare perché è morto nell’attentato al consolato Usa di Bengasi dell’11 settembre 2012, mentre la Clinton si avvia alla nomination per la Casa Bianca, anche perché i giudici statunitensi non paiono molto impazienti di portarla in tribunale per le mail secretate che spediva da un account di posta privato. La Clinton non ha consegnato agli archivi, come era tenuta a fare periodicamente, i suoi messaggi di posta elettronica, una mossa che è stata definita «estremamente insolita» e tutta da spiegare da Robert Gibbs, il primo portavoce del presidente Obama. Nel mezzo della bufera che coinvolse l’ex segretario di Stato, la commissione d’inchiesta sui fatti di Bengasi istituita dal Congresso chiese al Dipartimento di Stato l’intera documentazione su quanto accaduto, ma, guarda caso, nel file furono però omesse, stando a quanto ricostruito dal New York Times, le mail della Clinton che erano state appunto gestite attraverso un account privato, anziché attraverso uno ufficiale. Anche qui, il festival delle coincidenze fortuite.
Lunedì, poi, il colpo di teatro. Visto che l’FBI, che sta cercando da mesi di mettere le mani su quelle mail secretate, ha chiesto al Dipartimento di Stato di fornire tutta la corrispondenza telematica tra Bryan Pagliano, l’informatico che ha creato l’account privato su cui la Clinton riceveva le mail coperte da segreto di Stato, e l’ormai candidata democratica alla Casa Bianca per il periodo in cui era a capo del Dipartimento stesso. Ed ecco che quattro giorni fa la portavoce, Elizabeth Trudeau, ha dichiarato ai reporter che il Dipartimento di Stato non è stato in grado di trovare nemmeno una singola mail che Pagliano abbia inviato o ricevuto tra il 1 maggio del 2009 e il 1 febbraio 2013. Di più, oltre al buco nella corrispondenza elettronica, il Dipartimento di Stato non è in possesso nemmeno di uno dei messaggi via BlackBerry o Messenger inviato o ricevuto dalla Clinton durante la sua permanenza a capo dell’istituzione federale. Ovvero, al ministero degli Esteri Usa non registrano le mail, i messaggi e le telefonate del loro capo. O, al limite, sono così sbadati da perderle. U
Na vera fortuna per Hillary Clinton, visto che l’FBI ha già in mano il personal computer di Bryan Pagliano, ma senza altri riscontri, quelli chiesti e non ricevuti dal Dipartimento di Stato, anche se decidesse di interrogare la candidata democratica potrebbe farle domande solo su argomenti di cui conosce già il contenuto. La progressista e democratica Hillary Clinton è anche questo, ricordatevelo. E pare che gli americani comincino a capirlo, perché come ci dimostra questo screenshot preso dalla CBS, in West Virginia, Stato che martedì a visto trionfare Bernie Sanders nelle primarie, la maggioranza dell’elettorato del senatore del Vermont (44%) a novembre ha dichiarato che voterà per Donald Trump, il 31% non sceglierà nessun altro candidato e solo il 23% sceglierà l’alternativa naturale a sinistra rappresentata dalla ex first lady. Meditate gente, meditate.